Guardo con profonda tristezza le immagini della distruzione provocata dalle violente esplosioni a Beirut, una città che amo, dove ho abitato e che ho imparato ad apprezzare per la sua voglia di vivere e di reagire alle tante ferite che negli anni hanno segnato la sua anima.
Il primo pensiero è stato per gli amici e per le persone con le quali ho lavorato negli anni in cui la Rai ha aperto un ufficio di corrispondenza nella capitale libanese. Stanno bene, per fortuna, ma mi confermano che è un disastro umanitario. L’aria è irrespirabile e il consiglio delle autorità libanesi è di andare via. Ma se fai il giornalista resti e cerchi di capire che cosa è successo.
2750 tonnellate di nitrato di ammonio usato in genere per i fertilizzanti ma anche per fare le bombe, era custodito da sei anni in un deposito al Porto, a due passi dalle case e dalla zona commerciale. Nessuna delle finestre delle due case che ho abitato tra il 2007 e il 2009, subito dopo la guerra tra Israele e Hezbollah, probabilmente sarebbe rimasta intatta di fronte alla violenza delle deflagrazioni. Erano entrambe non lontano dal Porto, il cuore della devastazione di ieri, una lungo la Corniche il lungomare dove i libanesi amano andare a passeggiare, perché è l’unico posto dove lo possono fare in una città stritolata dal traffico e dai cantieri edili. L’altra casa era nel quartiere cristiano di Achrafieh dove lo spostamento d’aria ha provocato una pioggia di vetri dai palazzi, come ha raccontato un tassista che all’inizio ha pensato fosse stato un missile.
Le cause delle esplosioni non sono chiare. Il generale Abbas Ibrahim, capo dei servizi di sicurezza ha messo in guardia dallo speculare su un atto terroristico sebbene sia naturale pensare subito all’ipotesi di un attacco. Il primo ministro Hassan Diab ha alluso alla possibile negligenza come causa della tragedia. “Il responsabile pagherà un prezzo per questa catastrofe” ha detto ricordando che dal 2014 quel materiale pericoloso era stoccato in quel deposito al porto che si trova in una zona centralissima. Dagli Stati Uniti il presidente Donald Trump in modo confuso sostiene che i suoi generali gli hanno detto che sembra essere stato un attacco, un terribile attacco, ma non ha dato spiegazioni attendibili.
Beirut è un fazzoletto di terra, e solo la guerra civile negli anni 70-80 ha potuto allontanare e dividere in settori invalicabili una popolazione abituata a muoversi in uno spazio così ristretto. Il Libano è grande quanto il Lazio, ma ospita milioni di profughi, per primi sono arrivati i palestinesi dopo la nascita di Israele nel 1948. Vivono chiusi in 12 campi che negli anni sono cresciuti per popolazione insieme alle tensioni; poi sono arrivati i siriani con la guerra civile del 2010 che ha devastato il loro paese. Un milione e mezzo. Il Libano accoglie tutti, ma paga un prezzo altissimo.
La storia del Medio Oriente passa dal Libano che di volta in volta diventa terreno di battaglia. Un crocevia di culture che attrae giovani da tutto il Medio Oriente per le sue Università, soprattutto l’American University of Beyruth, ma anche crocevia di figure opache che si muovono sullo scacchiere mediorientale.
Qualunque siano le cause delle esplosioni, è chiaro che le conseguenze saranno anche politiche. Da mesi il paese è attraversato da violente proteste per la difficile situazione economica che ha eroso il valore della lira libanese dell’80%. La gente è scesa per le strade contro l’aumento dei generi alimentari e il governo era stato costretto a ritirare la proposta persino di una tassa su whatsApp. Ci sono stati scontri violenti con la polizia. Il Coronavirus con il blocco delle attività commerciali ha dato il colpo di grazia alla fragile economia.
La devastazione di queste ore rende il Libano ancora più fragile. Uno scenario nel quale si inserisce anche la notizia che venerdì prossimo all’Aja, dove ha sede il tribunale speciale per il Libano, è attesa la sentenza sull’omicidio dell’ex premier libanese sunnita Rafik Hariri ucciso nel 2005 per una bomba nascosta nell’asfalto e che esplose al passaggio della sua auto. Morirono 21 persone e l’area sul lungomare all’altezza del saint George Hotel fu devastata. Un delitto che ha cambiato gli equilibri politici nella regione. Il dito fu puntato contro la Siria, e in contumacia alla sbarra ci sono 4 imputati membri del movimento sciita libanese Hezbollah più un siriano considerato la mente dell’attentato ucciso a Damasco nel 2016. Difficile in queste ore trarre conclusioni. Servono soprattutto preghiere per le vittime