
Un Vertice-maratona, secondo solo a quello di Nizza del 2000, oltre 90 ore di colloqui, quattro notti e quasi cinque giorni scanditi da incontri a geografia variabile per approvare il piano per la ripresa europea Next Generation EU (NGEU) e il bilancio pluriennale dell’Unione, che di NGEU rappresenta il tassello fondamentale.
I temi che hanno tenuto in ostaggio i 27 Capi di Stato e di Governo dell’UE sono stati fondamentalmente tre:
- la dotazione del Recovery package, che i Paesi c.d. “frugali” (Paesi Bassi, Austria, Danimarca, Svezia) e la Finlandia hanno proposto di ridurre, soprattutto nella componente delle sovvenzioni a fondo perduto (“grants”);
- le modalità di gestione (la “governance”) della Recovery and Resilience Facility (RRF), ovvero dello strumento attraverso il quale sarà erogata una quota consistente dei finanziamenti a fondo perduto;
- la condizionalità legata al rispetto dello stato di diritto, seguita da quella per il raggiungimento della neutralità climatica.
Sulla dotazione: la proposta iniziale, presentata dalla Commissione europea lo scorso 27 maggio, prevedeva che la composizione di 750 miliardi di euro di Next Generation EU fosse suddivisa, in un rapporto 70%-30%, tra sovvenzioni a fondo perduto per 500 miliardi e prestiti per 250 miliardi.
Il compromesso raggiunto conferma la dotazione di Next Generation EU a 750 miliardi ma ne modifica le proporzioni, sostanzialmente livellando l’ammontare delle sovvenzioni e dei prestiti, portandoli rispettivamente a 390 miliardi e 360 miliardi a prezzi 2018.
L’aumento di 110 miliardi dei prestiti nel totale di Next Generation EU viene accompagnato da un taglio consistente dei contributi a fondo perduto di NGEU per gli altri programmi, rispetto alla proposta della Commissione: i fondi di coesione di React EU passano da 50 a 47,5 miliardi; i fondi per la ricerca e sviluppo di Horizon Europe diminuiscono notevolmente da 13,5 a 5 miliardi; i finanziamenti per le imprese di Invest EU sono quasi azzerati, da 30,3 a soli 5,6 miliardi; viene azzerato del tutto il Solvency Support Instrument per il quale era prevista inizialmente una dotazione da 26 miliardi, e che doveva servire a sostenere la ricapitalizzazione e la solvibilità delle imprese sane colpite dalla crisi del Covid-19. Vengono poi dimezzati i fondi dello “Sviluppo rurale”, passando da 15 a 7,5 miliardi e ridotti di due terzi, da 30 a 10 miliardi, quelli per il Just Transition Fund, il fondo per la transizione equa che dovrebbe contribuire al raggiungimento degli obiettivi di neutralità climatica dell’Unione; subisce una lieve diminuzione il programma RescEU per il soccorso alle aree compite da calamità naturali e sanitarie; infine vengono cancellati i fondi per sostenere l’azione esterna, il vicinato e gli aiuti umanitari.
L’accordo prevede un rafforzamento della Recovery and Resilience Facility, un dispositivo pensato per mitigare l’impatto economico e sociale della crisi legata al Covid-19 e, contemporaneamente, per affrontare le sfide a lungo termine: il suo “volume di fuoco” aumenta da 560 miliardi (310 di sovvenzioni e 250 di prestiti) della proposta iniziale a 672,5 miliardi (di cui 312,5 di sovvenzioni e 360 di prestiti).

Ma il punto dolente riguarda il Quadro Finanziario Pluriennale, il bilancio settennale dell’UE, che subisce riduzioni leggere quanto simboliche (rispetto alla proposta di febbraio del Presidente del Consiglio europeo), su R&I, PMI e sorveglianza di mercato, soprattutto perché funzionali all’aumento degli sconti (i c.d. rebates) per i Paesi già beneficiari.
Sulla governance della Recovery and Resilience Facility (RRF) si è invece giocata una partita politica durissima.
La RRF nasce come un fondo a gestione diretta, con una governance molto rigida in cui la Commissione dovrebbe gestire gli stanziamenti agli Stati membri sulla base della verifica del raggiungimento degli obiettivi previsti dagli appositi piani nazionali, approvati dalla stessa Commissione e da una maggioranza qualificata di Stati membri.
I Paesi Bassi si sono fermamente opposti a questo sistema dichiarando di “non fidarsi della Commissione”, ma la loro richiesta di un intervento del Consiglio europeo nella procedura di verifica dei piani nazionali e di un voto all’unanimità dei Governi era giuridicamente e politicamente irricevibile: giuridicamente perché modificando sostanzialmente le competenze del Consiglio europeo ai danni della Commissione e del Parlamento europeo avrebbe richiesto una modifica dei Trattati; politicamente perché avrebbe attribuito un potere di veto a ciascuno Stato membro, con il rischio di bloccare il processo di erogazione dei fondi.
Per venire comunque incontro alle richieste olandesi, il Presidente del Consiglio Michel ha proposto il c.d. “super freno di emergenza”, super emergency brake, che permette di fatto a qualsiasi Paese di rallentare l’erogazione dei fondi: i Paesi Bassi ora potrebbero sollevare problemi sugli esborsi come arma elettorale, visto che il Premier uscente e super falco dell’austerità Mark Rutte punta alla rielezione e che l’erogazione della prima tranche dovrebbe proprio coincidere con le elezioni olandesi.

Il tema sollevato in modo provocatorio dall’Olanda, in ogni caso, è sistemico. Il presunto scontro Conte-Rutte è servito a quest’ultimo e al Primo ministro austriaco Kurz per sottolineare la volontà di sostituire l’asse franco-tedesco con uno “ibrido”, a geografie variabili, in cui anche i piccoli abbiano voce in capitolo.
Lo scontro tra frugali e Germania e Francia ha posto sulla bilancia insomma due visioni di Europa e di integrazione, dove per ora sembra aver prevalso quella euro-opportunista.
E i Paesi Visegrad, in questa bilancia, hanno svolto il ruolo di ago.
Soprattutto sul tema delle condizionalità.
Contrari a quella sul rispetto dello stato di diritto, sono stati di fatto accontentati con l’aggiunta di una serie di garanzie (come la possibile chiusura per l’Ungheria della procedura di infrazione entro il semestre), per evitare il rischio di far saltare l’accordo dopo aver corteggiato i frugali; contrari anche a quella legata agli obiettivi climatici, sono stati solo parzialmente ascoltati, con gli obiettivi confermati e rafforzati ma con maggiori garanzie sui criteri di allocazione dei fondi strutturali come forma di compensazione.
Si tratta di un accordo che, fino a qualche mese fa, sembrava impensabile e che oggi appare storico, malgrado le diverse contraddizioni emerse e persistenti.

Questo accordo, seguendo la massima di Aristide Briand, può considerarsi perfetto perché tutti sono scontenti.
Hanno vinto e hanno perso tutti, ma qualcuno … ha perso più forte.
La Commissione europea è la grande sconfitta di questa maratona negoziale. I Governi hanno infatti mantenuto il controllo dei lavori, modificandone a proprio uso e consumo le proposte.
Italia e Spagna portano a casa un guadagno sui fondi di NextGenerationEU, avendo puntato tutto il negoziato su questo cavallo, tralasciando invece il Quadro Finanziario Pluriennale sul quale occorrerà approfondire la valutazione sul rapporto dare/avere.
Secondo fonti del Governo italiano, all’Italia spetterebbero ora 208,8 miliardi di euro, di cui 81,4 a fondo perduto e 127, 4 sotto forma di prestiti. La proposta iniziale prevedeva 173,826 miliardi totali, di cui 85,242 di sussidi e 88,584 di prestiti. 34,974 miliardi in più, con un calo dei sussidi di 3,842 miliardi e un aumento dei prestiti di 38,816 miliardi.
Scherzo del destino o maestria diplomatica: il Premier Giuseppe Conte porta a casa, in termini di prestiti, la somma del MES – sul quale finora tanto ci si è accapigliati in Patria – ma senza il meccanismo di controllo del MES.

Agli occhi di una parte di opinione pubblica e di alcune Capitali, Paesi Bassi e Austria escono dal Vertice con il marchio di “cattivi ragazzi”, ma i quattro frugali – che insieme rappresentano poco più del 10% della popolazione dell’Unione -, sono riusciti a condizionare scelte che riguardano tutti gli europei: hanno costretto il Presidente del Consiglio europeo Michel, la Presidente della Commissione Von der Leyen, Angela Merkel ed Emmanuel Macron a scendere sotto la soglia psicologica dei 400 miliardi di sussidi; per chiudere la dura battaglia sulla governance hanno ottenuto il “super freno di emergenza” (super emergency brake), hanno aumentato i rispettivi sconti/rebates sui contributi al Bilancio europeo e hanno dimostrato ai loro elettori di aver saputo tenere testa all’asse franco-tedesco.
I Visegrad portano a casa successi sulle chiavi di ripartizione della politica di Coesione (i fondi strutturali) e garanzie su un’applicazione morbida della clausola che vincola l’erogazione dei fondi al rispetto della Rule of Law.
Il Presidente del Consiglio europeo Michel è riuscito ad accreditarsi come negoziatore flessibile e instancabile, mentre l’asse franco-tedesco, colpito ma non affondato dall’offensiva dei frugali, ha comunque impresso una direzione precisa al processo di integrazione, attraverso la creazione del nucleo di una vera funzione di bilancio, la decisione sulle risorse proprie (le tasse europee per finanziare il Bilancio pluriennale), una garanzia comune e la mutualizzazione delle responsabilità, sebbene in un clima di grande diffidenza reciproca.
Adesso scatterà in ogni Capitale il gioco di “nazionalizzare le vittorie e comunitarizzare le sconfitte” di questo negoziato che, ahinoi, ci consegna la fotografia di un’Unione più intergovernativa, in cui gli interessi nazionali continuano a condizionare l’interesse generale.