Per capire e giudicare cos’è successo il 9 aprile notte occorre mettere ordine nella successione degli eventi.
L’Eurogruppo di giovedì era la continuazione dell’Eurogruppo di martedì, fallito a causa dei veti incrociati di Italia e Paesi Bassi: l’Italia fortemente contraria alle condizionalità nel Meccanismo europeo di Stabilità (MES) e i Paesi Bassi fortemente contrari all’introduzione dei cosiddetti Coronabond.
L’Eurogruppo di giovedì aveva il compito di trovare un accordo su un set di misure per affrontare le conseguenze socio-economiche della crisi da proporre ai Capi di Stato o di Governo. Dopo estenuanti confronti a geometrie variabili, i ministri delle Finanze di Italia, Paesi Bassi, Spagna, Francia e Germania hanno trovato un’intesa, poi avallata da tutto l’Eurogruppo allargato, su quattro misure:
- attivazione del “Pandemic crisis support” del MES, attraverso linee di credito (Enhanced Condition Credit Line) pari al 2% del PIL del Paese dell’Eurozona che ne farà richiesta, a condizione di utilizzare le risorse per supportare i costi diretti e indiretti dell’emergenza sanitaria;
- istituzione di SURE, schema europeo per la disoccupazione (European Instrument for temporary Support to mitigate Unemployment Risks in an Emergency following the COVID-19 outbreak);
- creazione di un Fondo di garanzia pan-europeo gestito dalla BEI;
- creazione di un Recovery Fund temporaneo e proporzionato all’emergenza.
La parte difficile è stata volutamente lasciata ai Capi di Stato o di Governo, che si riuniranno in un Vertice straordinario il 23 aprile per discutere il pacchetto e fornire linee-guida sugli aspetti giuridici e finanziari delle misure.
In Italia si è gridato al tradimento, dopo che il Governo aveva categoricamente bocciato l’ipotesi MES.
Mettiamola così: l’Italia ha giocato male le sue carte. La linea manichea “No MES, Coronabond sì” e poi “MES senza condizioni e Coronabond” è stato un azzardo andato male almeno per quattro ragioni.
- tecnicamente, i Coronabond richiedono tempo. Politicamente, l’idea di “europeizzare” la crisi, in un’UE in cui perfino i cosiddetti “argini al populismo” (Merkel, Macron, Rutte) sono stati contagiati dal virus populista del “prima i miei elettori”, è improbabile: non ci sono le condizioni politiche per “mutualizzare” apertamente i debiti pubblici dei Paesi dell’Eurozona;
- il “MES senza condizioni” non è possibile ai sensi del suo stesso Trattato istitutivo: modificarlo richiede il consenso unanime dei Governi e la ratifica parlamentare (o via referendum), quindi tempi non compatibili con il carattere d’urgenza. Insistere ha fatto allontanare i più realistici alleati francesi e spagnoli;
- sul tavolo non c’era solo il MES. Spagna e Francia hanno suggerito di concentrare le energie verso il Recovery Plan, da “disegnare” in modo per ammettere la mutualizzazione dei debiti, consentendo allo stesso tempo ai Paesi del Nord di salvare la faccia. Roma ha continuato ad insistere con la sua linea;
- in Italia non si sono gestite le aspettative e non si è saputo/voluto spiegare i termini del negoziato. Sul piano esterno, questo ha irrigidito le posizioni di tutti; sul piano interno, ha indebolito il Governo: anziché deviare l’attenzione dalla bomba mediatica, Conte e Gualtieri l’hanno canalizzata ed enfatizzata, così lastricando la strada a Salvini, che fino a qualche giorno fa era politicamente in quarantena a causa della pessima gestione della crisi nelle Regioni amministrate da sempre dalla Lega.
È un buon accordo?
Il MES ha delle condizionalità. L’accordo specifica che i prestiti restano condizionati solo alla copertura delle spese sanitarie e che, superata la crisi, gli Stati devono tornare a rispettare le regole fiscali. Non solo: il Trattato del MES sarà comunque rispettato, il che lascia sul tavolo l’opzione di una ristrutturazione del debito superata la crisi. Come scriveva Checov, «Se in un romanzo compare una pistola, bisogna che spari».
Finanziariamente, all’Italia spetterebbero 37 mld in spese sanitarie, grosso modo la somma dei tagli alla sanità dagli ultimi governi. Il MES, dunque, è un’opzione abbastanza pericolosa. Basterebbe non usarla. Anche perché per i Paesi del Nord il ricorso a questi prestiti rappresenta un marchio infamante.
Per quanto riguarda il programma SURE, 100 mld sono pochi e i tempi di attivazione sono lunghi.

Il Fondo per la Ripresa è tutto da definire, nella forma e nel contenuto. L’unica cosa decisa dall’Eurogruppo è che lo strumento avrà carattere “temporaneo e proporzionato”. Si tratta di un copione classico a Bruxelles: si rimanda una scelta non gradita ai nordici, si trova un’intesa minima e, superato il momentum, non si fa più nulla.
Il problema è che l’Italia, pur contando molto nell’equilibrio delle maggioranze a Bruxelles, non trova mai il giusto modo di sedersi ai tavoli: o troppo conflittuale (come ai tempi di Salvini) o troppo conciliante. Eppure, c’è una via di mezzo tra questi due estremi. Venerdì sera il Premier Conte ha di fatto smentito l’operato del suo conciliante ministro delle Finanze.
Il consenso di Roberto Gualtieri all’accordo di giovedì notte rappresenta un problema per Conte, in vista del Vertice del 23 aprile: l’unico strumento certo, pronto ad essere attivato, è il MES perché tutti gli altri richiedono volontà politica, soldi e tempo. Insomma, un percorso in salita con una pistola pronta a sparare.
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