Volendo essere pignoli, come problema sociale l’imbarazzo figura sempre ai primi posti, se non al primo posto in assoluto, anche se non sempre ce ne rendiamo pienamente conto. Gran parte del nostro comportamento quotidiano, dal guardarsi allo specchio al decidere come vestirci o di cosa occuparci durante la nostra giornata, lo possiamo infatti considerare come finalizzato a prevenire quelle situazioni imbarazzanti che poi, ad ogni modo, visto che nell’interazione tra esseri umani a un certo momento – inesorabilmente – si verificano, ci tocca anche cercare di gestire e, possibilmente, di risolvere.
Negli anni ‘50 il sociologo Erving Goffman portava l’esempio del distributore automatico di bibite rinfrescanti solitamente a quei tempi piazzato, negli allestimenti dei quartier generali delle grandi aziende, sul pianerottolo davanti all’ascensore. All’impiegato che si recasse verso la macchinetta, abbandonando momentaneamente la propria postazione, poteva capitare che proprio nel momento sbagliato l’ascensore stesse scaricando passeggeri – e che uno di questi passeggeri proseguisse verso il distributore, utilizzabile da una sola persona alla volta.
Il criterio della precedenza di chi si trova alla distanza inferiore rispetto all’obiettivo, tenendo conto per calcolare il tempo di arrivo del passo a cui procede, apparentemente risultava idoneo a prevenire situazioni imbarazzanti del tipo “Prima Lei”, “Ma no, prego, prima Lei!”. D’altra parte, Goffman faceva rilevare che questo criterio vale solo a parità di “importanza” della persona, altrimenti le cose possono diventare assai più complicate. Immaginando che dall’ascensore uscisse, invece che un collega qualsiasi, il proprio capufficio o Dio non voglia un dirigente di livello gerarchico evidentemente molto superiore a tutti gli abituali frequentatori del pianerottolo in questione, le alternative di comportamento a disposizione degli altri potevano diventare tanto imbarazzanti che Goffman già annotava un mutamento di strategia a scopo preventivo, come il riservare alcuni ascensori all’utilizzo esclusivo da parte dei massimi dirigenti dell’azienda – inclusi, naturalmente, i loro ospiti.
Immaginiamo di essere quell’impiegato moderatamente assetato e messosi in moto di crociera verso il distributore di bibite mentre dall’ascensore, siamo nel quartier generale di Microsoft, esce a passo sicuro e svelto un certo Bill Gates, che si dirige inequivocabilmente verso il nostro distributore automatico di bibite fresche e caffeinate. O immaginiamo che entri in scena il “Megadirettore Galattico” di cui magistralmente balbettava Paolo Villaggio impersonando il suo “ragionier Fantozzi” (in una serie cinematografica e televisiva molto seguita a partire dagli anni ‘70). Se la nostra società, grande azienda inclusa, non si reggesse sul principio di uguaglianza, il criterio dell’ordine gerarchico avrebbe naturalmente la precedenza sul criterio della distanza dalla destinazione comune – e il problema sarebbe risolto facilmente a svantaggio del subordinato. Ma, come notava Goffman, noi viviamo in una società “democratica” e il nostro impiegato, immaginandolo in lieve vantaggio dal punto di vista spazio-temporale, si trova quindi in imbarazzo di fronte all’alternativa tra il mantenere la propria precedenza e il cederla alla persona “importante”.
Come problema sociale, insomma, l’imbarazzo nasce da una contraddizione, riguardante quei valori fondamentali su cui si basano le norme che poi regolano, o beninteso dovrebbero servirci a regolare, le nostre interazioni quotidiane – e i nostri più solenni rituali. Ad esempio, nelle prime battute del discorso pronunciato in occasione del “Fourth of July” del 1852 da Frederick Douglass (“What to the Slave is the Fourth of July?”, o “Cosa significa, per lo schiavo, la Festa dell’Indipendenza?”) troviamo appunto una sua esplicita confessione di “imbarazzo”. Douglass lo riconduce al fatto di essere inopinatamente, e da non molto tempo, passato dalla posizione sociale di schiavo negro, in una piantagione, a quella di noto intellettuale invitato a tenere un discorso celebrativo della libertà e dell’indipendenza americana, rivendicata nel 1776 in nome dell’eguaglianza di tutti gli esseri umani dai padroni bianchi – e poi da loro, ma soltanto da loro, conseguita a danno delle pretese e delle tradizioni della monarchia inglese.
Il comportamento di Douglass in quella storica occasione consistette nel mettere chiaramente le carte in tavola: denunciare la situazione come auto-contraddittoria e prendere posizione in merito alla soluzione del conflitto. Douglass parla della “vostra” società, ai bianchi, e chiarisce loro che, se vogliono invece considerarlo parte di essa, devono abolire la schiavitù – da loro riservata alle persone “importate” dall’Africa e ai loro discendenti come lui. O, perlomeno, dovrebbero rendersi conto che mentre i bianchi come loro, “abolizionisti” o no, festeggiavano la propria indipendenza dalla tirannide, al nero toccava piangere il fatto che la Costituzione del 1787 non solo delegava ogni decisione in merito alla schiavitù degli afro-americani ai singoli Stati dell’Unione, ma ne accettava anche il principio – stabilendo il diritto del Congresso a esigere una tassa “non superiore ai dieci dollari” per ogni “importazione” e rimandando a vent’anni dopo ogni decisione in merito all’abolizione o meno della tratta degli schiavi.
L’argomentazione formulata da Douglass nel 1852 possiamo considerarla analoga a quella dei discendenti dei “nativi americani” che non festeggiano “Thanksgiving” e potrebbe essere presa a modello anche da noi, oggi, non essendoci molti altri modi per liberarsi dall’imbarazzo che consegue dal ritrovarsi in una auto-contraddizione, quando si tratta di riflettere sul significato del “Columbus Day” e delle solenni statue dedicate all’uomo chiamato rispettosamente “l’Ammiraglio” perfino da Bartolomeo De Las Casas – che era tra le altre cose l’autore di quella “Breve relazione sulla distruzione delle Indie”, pubblicata nel 1552, che denunciava a chiare lettere il genocidio degli abitanti delle Americhe, o “Indie Occidentali”, da parte dei colonizzatori spagnoli nel corso dei decenni precedenti (incluso il fatto che fosse perpetrato in nome dei “più alti ideali”: per Colombo si trattava, infatti, racimolare oro a sufficienza al fine di riportare la Terra Santa sotto il controllo del Pontefice – come racconta Pierre Dalla Vigna nel suo recente libro “La distruzione del Paradiso. Meraviglia, orrore e genocidio nella conquista europea delle Americhe”).
Sappiamo da dove arriva la ricorrenza del “Columbus Day” e da dove arrivano quelle statue: erano un’autorevole proposta di soluzione al problema, molto vivo alla fine dell’800 negli Stati Uniti, di dover stabilire se gli italo-americani dovessero essere considerati per sempre come una “razza inferiore” o se, invece, da quel momento – proprio in virtù della ricorrenza ufficiale e dei pubblici monumenti al navigatore genovese – questi stessi italo-americani potessero essere anche considerati come “cittadini americani” e, quindi, essere accettati, o perlomeno in qualche misura tollerati, tra i “bianchi”.
Gli italo-americani hanno apprezzato questa proposta facendola propria e identificandosi nella ricorrenza e nel personaggio: celebrare Colombo rappresentava, e tuttora rappresenta per molti italo-americani, dare un segnale di adesione collettiva alla società americana, ricevendone in cambio un riconoscimento pubblico e ufficiale del valore di almeno alcune delle proprie tradizioni culturali – e della loro funzione positiva nella genesi storica degli Stati Uniti d’America. Una storia vista dalla parte dei “bianchi”, che ne hanno tenuto le redini stabilendo, tra le altre mille cose, questa appartenenza “razziale” come requisito per ottenere la cittadinanza a termini di legge del 1790 – una legge rimasta in vigore fino al 1951, vale a dire ben dopo le vicende che hanno portato alla celebrazione istituzionalizzata di Colombo.

Ma contemporaneamente al proliferare della statue di Colombo negli Stati Uniti si prendeva atto che la “conquista del West” era terminata. Che l’individualismo su cui, “nel bene e nel male” come scriveva Jackson Turner nel 1893, l’ordinamento sociale “democratico” e la cultura americana nel suo complesso si erano costruite – ripartendo dal contatto tra “esploratori” e “primitivi” per ripercorrere gli stadi della civilizzazione europea, prima agraria e rurale e poi industriale e cittadina -, era ormai agli sgoccioli. La “frontiera”, insomma, era sparita. Si poteva applicare il concetto a Porto Rico, a Cuba o alle Filippine ma, a quel punto, del “colonialismo” si iniziavano a prendere maggiormente in considerazione anche gli aspetti nefasti – e contraddittori rispetto al senso della battaglia per l’indipendenza dal re inglese, condotta a suo tempo dalle colonie americane in nome del principio di uguaglianza.
Tornava a galla, circa un secolo dopo, la contraddizione messa a tacere nel 1787: “ma come”, si chiedevano in vari Stati le assemblee dei delegati al momento di ratificare la Costituzione, “acquistata la nostra libertà imponiamo noi la schiavitù ad altri?” (anche se fu il solo Rhode Island a chiedere di sostituire con una chiara prospettiva di abolizione il famigerato comma 9 dell’articolo 1, quello che come abbiamo visto rimandava ogni decisione sulla tratta degli schiavi al 1808, tassando nel frattempo “l’importazione”). Qualche decennio dopo, il Governatore della California Culbert Olson proclamava uno dei primi “Indian Day” – chiaro progenitore dell’odierno “Indigenous Peoples Day”, che esplicitamente al “Columbus Day” viene contrapposto. Saltiamo avanti ancora di qualche decennio e troveremo che quando Martin Luther King pubblica il suo “Why We Can’t Wait”, nel 1963, a un secolo esatto dall’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti d’America, dedica il primo capitolo a spiegare che quella che definisce come la “Negro Revolution of 1963” nasce dalla consapevolezza che un secolo era passato dall’emancipazione degli schiavi firmata dal Presidente Lincoln, ma che il termine “libertà”, alle orecchie dei loro discendenti, aveva acquisito nel frattempo un “suono irridente e vuoto” (allo stesso modo come Frederick Douglass aveva chiesto ai suoi amici abolizionisti, pochi anni prima della Guerra Civile, se il loro invito a tenere un discorso per il “Fourth of July” non fosse una presa in giro).
Dopo aver visitato nel 1986 i tre monumenti eretti in diverse isole dell’arcipelago delle Bahamas dove si poteva supporre che lo sbarco di Colombo fosse avvenuto, Stephen J. Gould (in un saggio intitolato “A Cerion for Christopher”) notava che quell’avvenimento veniva ancora solennemente festeggiato, cinquecento anni dopo, con cerimonie ufficiali inneggianti alla nuova era di “pace tra i popoli” che esso avrebbe inaugurato – mentre rileggendo i diari di Colombo stesso e le altre fonti dell’epoca risulta del tutto evidente come si sia trattato di un genocidio. Anche la spedizione di Ponce de Leon, celebrata nelle scuole come “la scoperta della Florida”, andrebbe invece considerata come espansione della pratica di “raccolta” di nuovi schiavi, destinati a sostituire quelli caraibici sterminati tra il 1509 e il 1512 in gran parte per opera dello stesso Ponce de Leon, Governatore (o “civilizzatore”, dal punto di vista “occidentale”) dell’isola di Porto Rico.
Inutile, o forse no, aggiungere un riferimento alle cronache giornalistiche di rimozioni, provvisorie o definitive, delle statue dedicate a Cristoforo Colombo negli Stati Uniti d’America. Chiaramente, ogni personaggio storico nuota nel brodo di cultura del suo tempo e favorirne uno significa, giocoforza, danneggiarne un altro. Sappiamo che un modo più maturo di affrontare questioni del genere sarebbe quello di affidarsi al pensiero e alla memoria – non a bandiere o rappresentazioni simboliche di una persona, collocata su un piedistallo, in modo che sembri qualcosa di più.
Non ci sono sostituti per le nostre parole, utilizzate onestamente – evitando di privilegiare interessi di parte nascondendoli sotto uno strato di proclami altisonanti e inneggianti all’interesse generale. D’altra parte, a un obiettivo del genere possiamo solo avvicinarci facendo un passo dietro l’altro, a cominciare dal prendere in considerazione i significati dei simboli che rappresentano i valori condivisi nella nostra società dal punto di vista di tutti coloro che ne fanno parte, o che vogliamo includere in essa.
Da questo punto di vista, oggi, per rappresentare degnamente i valori del “sogno americano”, a suo tempo e ancora oggi perlomeno in parte rappresentati per gli italo-americani e non solo per loro dalla figura di Cristoforo Colombo – con il suo coraggio nello sfidare l’opinione dominante in Europa, contraria in merito alla possibilità di navigare l’Atlantico verso Ovest, fino a raggiungere il Giappone -, non mi pare che si possa individuare un testimone migliore di Martin Luther King Jr., con il suo appello a non giudicarci reciprocamente in base al colore della pelle.

Contro il razzismo, oggi che la figura di Colombo rappresenta in ogni angolo del mondo il colonialismo europeo, guardiamo a Martin Luther King Jr. e prendiamo come riferimento i comportamenti reciproci e i valori di cui essi sono informati, a partire dalla loro coerenza o meno con l’incipit della Dichiarazione d’Indipendenza del 1776 ed evitando ogni ipocrisia in merito alla formulazione dei “diritti” a cui allude, sui quali sappiamo bene di avere, a volte, opinioni diverse tra noi – e, soprattutto, evitando di voltare lo sguardo dall’altra parte, allorquando incrociamo una situazione che per noi, a causa di una irrisolta contraddizione tra i nostri valori di riferimento, risulta imbarazzante.
Un Martin che, anche come italiano e come italo-americano, mi piacerebbe restasse tra noi esseri umani accanto alla sua Coretta e ai loro bellissimi bambini, come avrebbero voluto – senza dover salire su un piedistallo che lo separi dalla vita di ogni giorno, con i suoi sguardi e gesti e le sue “piccole” (mai davvero piccole, ma spesso risolvibili tendendosi la mano con un minimo di consapevolezza e di fiducia reciproca) situazioni imbarazzanti.
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