Il direttore de “La Voce di New York” Stefano Vaccara vive a New York; io scrivo da Roma. Lui “è” sul posto, io “vedo” il posto, come mi viene mostrato dai filmati televisivi e dagli amatoriali che li scaricano su internet e i social. E’ una differenza fondamentale. So per esperienza che i fatti “respirati” non potranno mai essere “colti” nello stesso modo da chi, da migliaia di chilometri di distanza dai fatti, li segue da uno schermo TV o di computer. Per quanto si possa essere sensibili e delicati, come trasmettere la stretta al cuore che ti prende nel vedere una coppia di anziani di fronte alla loro abitazione distrutta da un terremoto? Come trasmettere la gioia di tedeschi e di russi, quando cade il Muro di Berlino, o abbattono le statue a Mosca degli oppressori comunisti?
Se Stefano assicura che la tragica vicenda di George Floyd e gli altri morti che sono venuti, un lato positivo almeno ce l’ha: quello di aver mobilitato un’altra America: quella che si prepara a dire basta al peggiore presidente di sempre; ha un triste, singolare primato, che sfida perfino il calcolo delle probabilità: riesce sempre a fare la cosa pessima, in ogni occasione, immancabilmente. E resterà sempre incomprensibile, per me, che un individuo come lui, di cui tutto si sapeva “prima”, sia stato ugualmente eletto, gli sia stata data ugualmente fiducia.

Ma non è di questo che mi interessa qui cercare di ragionare. Piuttosto: ci attendono altri quattro anni di “Make America, Great Again”?
So bene, sempre per esperienza, che una vetrina rotta e un negozio devastato da un branco di imbecilli fa più notizia di migliaia di manifestanti che pacifici esprimono il loro dissenso. Succede ovunque. I mezzi di comunicazione in questo hanno una grande responsabilità: “premiano” sempre, con grande visibilità, i comportamenti violenti; mortificano quasi sempre gli inermi che lottano per i loro diritti con gli strumenti del dialogo e della persuasione.
In uno dei più bei libri scritti da Leonardo Sciascia, Il cavaliere e la morte, a un certo punto la riflessione fulminante:
“La sicurezza del potere si fonda sull’insicurezza dei cittadini”.
L’asso nella manica del presidente capace di tutto, buono a nulla, prima della pandemia, aveva un nome: economia. Ricordate James Carville, lo stratega della campagna elettorale di Bill Clinton, che nel 1992 riesce a scalzare George Bush sr., in corsa per il secondo mandato? Per Bush sr. sembrava una passeggiata, ha trionfato con la prima guerra nel Golfo, condotta saggiamente; il tasso di popolarità sfiora il 90 per cento… Si dimentica dell’economia, e Carville conia l’azzeccato (e fatale per Bush sr.): “It’s economy, stupid!”.
Vale per Clinton, vale per l’attuale presidente; poi la pandemia. Il mondo si ferma; e anche gli Stati Uniti. Dalla Casa Bianca, ogni giorno, dichiarazioni e comportamenti sconcertanti, ma con una coerenza: la costante ricerca di un “nemico” da additare, come responsabile e colpevole. E’ la tattica di tutti i demagoghi, di tutti gli arruffapopoli. Non deve sorprendere.
Poi il caso George Floyd. Un caso cristallino, indiscutibile: quel poliziotto bianco preme, e preme, e preme sul collo del “negro” inerme, disarmato, ammanettato. Lo uccide. Attorno a lui altri tre poliziotti: complici del delitto. Nessuno dei tre ci pensa un attimo a dissuadere l’assassino.

Comprensibile lo sdegno, la riprovazione. Accade quello che accade: le giuste e le pacifiche proteste; e le manifestazioni di violenza: inaspettato regalo, per la Casa Bianca. I disastri provocati dalla dissennata gestione della pandemia non sono più i titoli della prima pagina. Ora lo diventano le vetrine sfasciate nella Manhattan elegante e ricca. Il governo della paura. Quel “la sicurezza del potere si basa sull’insicurezza dei cittadini”. Beninteso: i cittadini benestanti, bianchi, dei quartieri residenziali: quelli conservatori ma non al punto da condividere le arroganze dell’inquilino della Casa Bianca; quelli che ogni giorno si alzano la mattina presto, portano i figli a scuola, poi lavorano sodo per guadagnarsi la vita; quelli che si sono sudati un’automobile, un negozio, un’attività: per loro la parola “proprietà” ha un senso concreto, e certamente non la vogliono minacciata e distrutta.
Il presidente capace di tutto, buono a nulla, punta esplicitamente su questa carta: invoca la forza, imbraccia una Bibbia di cui non ha certo neppure sfiorato una pagina, letto un versetto: legge e ordine.
Ascolto Edward Luttwak, politologo conservatore e brutale, cinico nel suo parlare:
“Volete sapere in che condizioni versano gli Stati Uniti, tra la crisi del nuovo coronavirus e quella della protesta di piazza per la morte di George Floyd? Non dovete fare altro che guardare la borsa di Wall Street. Da settimane ormai i maggiori listini sono in ascesa, e crescono anche oggi. Di cosa altro abbiamo bisogno per capire che le cosiddette crisi del momento sono solo incidenti di percorso, e che abbiamo di fronte aspettative di ripresa economica e di pacificazione sociale?”.
Si potrà obiettare che Hillary Clinton, oltre alla specifica antipatia che sapeva ispirare, è stata dipinta come pupazzo di Wall Street, e che se la Borsa va bene, sul fronte concreto dell’occupazione e della vita di tutti i giorni di un cittadino medio, le cose vanno pessimamente…

Luttwak poi aggiunge una considerazione su cui si dovrebbe forse riflettere un istate:
“I sondaggi, sono praticamente fermi ancora oggi alle misurazioni effettuate qualche mese fa. Trump ha gestito la protesta dl strada dell’ultima settimana con la mano ferma, a differenza di quanto hanno fatto tanti degli amministratori locali che hanno lasciato la folla libera di distruggere la proprietà pubblica, e quella privata dei piccoli esercenti. Quando il presidente esorta la polizia a sparare in risposta alla violenza dei dimostranti, la gran parte del paese applaude. il risultato è che gli elettori puniranno chi non ha saputo difenderli in questo frangente, e premieranno il presidente per la sua fermezza. Tra meno di una settimana, quando i rilevamenti di opinione registreranno gli effetti politici della protesta, vedremo chi aveva ragione”.
Vedremo. Luttwak aggiunge:
“Quello che vedo sono i dimostranti a Los Angeles che vanno a razziare i negozi del centro a bordo di automobili nuove e lussuose. Che valore politico può avere una simile immagine? La realtà è che il disordine delle ultime settimane ha rinforzato la figura di Trump, e la strada verso la rielezione non è mai stata così in discesa per lui. Il paese ha bisogno di altri tagli alle tasse, e non dell’assistenzialismo di stato richiesto dai democratici”.
Ottimista controcorrente:
“Presto usciremo completamente dal lockdown e torneremo a produrre. I segnali sono già tutti visibili, e presto si tradurranno in dati e cifre. La borsa non mente, e se continua a puntare verso l’alto è perché gli interpreti più saggi della realtà in movimento hanno capito che presto l’America tornerà a ruggire”.

A questo punto, mi “sposto”, e vado ad ascoltare Michael Walzer. Filosofo, progressista, docente a Princeton; nessuna simpatia da sempre per l’attuale presidente. Il “buongiorno” gela:
“L’omicidio di George Floyd può essere l’evento che rielegge Trump. A meno che non emerga una leadership capace di trasformare la protesta in un movimento politico non violento”.
Walzer si interroga, pone domande, non sembra avere risposte. Ma anche questo esercizio di porsi interrogativi fa riflettere:
“Negli Usa esiste un problema di razzismo sistemico. Non è chiaro perché un episodio produce giorni di rabbia, perché sono decenni che la polizia uccide un migliaio di americani all’anno. Poi però tutto si calma, e gli agenti tornano ad uccidere. Soprattutto i neri, ma anche ispanici e bianchi. Queste proteste non sembrano diverse o più efficaci del passato”.
L’analisi di Walzer per certi versi coincide con quella di Luttwak:
“Le proteste di oggi esprimono una rabbia legittima, ma è dimostrato che ogni incidente di saccheggio spinge l’America a destra. Rincuora vedere tanta brava gente in piazza, ma l’incapacità della sinistra di controllare violenze e saccheggi è paurosa. La comunità nera è disorganizzata, non c’è nessun leader come Martin Luther King o i suoi vice, e i sostenitori bianchi sono anche più inesistenti”.
Walzer aggiunge qualcosa che appare di solare evidenza: parte delle violenze vengono dalla destra estrema, ma molto viene anche dalla sinistra: “Pensano di servire la causa della rivoluzione, e invece giocano a favore della destra”.

La comunità nera se decidesse di votare e di vincere la tradizionale apatia potrebbe cambiare l’esito delle presidenziali, bilanciare gli elettori bianchi suburbani che lasceranno i democratici per le violenze. Joe Biden non ha forza, carisma; ma questo è il candidato che offre il convento, per contrastare il presidente capace di tutto, buono a nulla. Il problema degli Stati Uniti oggi è quello di riscoprire i suoi valori fondativi, recuperare una reputazione e una autorevolezza nel mondo. Un presidente “normale”. Biden o l’esistente. E’ sperabile che in autunno la maggioranza degli americani sappia sciogliere questo nodo premiando il primo, condannando il secondo. Ma ogni vetrina rotta, ogni saccheggio, è un punto a favore del presidente capace di tutto, buono a nulla.