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Il razzismo, l’America che se ne frega e quella che spera ancora nella giustizia

La morte violenta di George Floyd e lo scoppio della protesta: perché la polizia non è la prima a condannare quegli agenti che violentano anche la costituzione?

Isabella Weiss di ValbrancabyIsabella Weiss di Valbranca
Il razzismo, l’America che se ne frega e quella che spera ancora nella giustizia

Floyd a terra con il ginocchio dell'agente Chauvin sul collo, mentre implora di lasciarlo respirare (da yotube)

Time: 6 mins read

Un uomo alto e grosso é a terra, ammanettato, con la faccia sull’asfalto, seminascosta dalla ruota di una macchina…si sente solo un rantolo, dei gemiti, una voce sofferente che implora “Non respiro”…”Per favore”…un passante indignato grida “E’ un essere umano, fratello!” Una ragazza interviene “Controllategli il polso, per favore!”. Qualcun altro urla “Lo hanno appena ucciso!”.

Nel video della morte annunciata di George Floyd appare per qualche minuto il volto dell’agente Derek Chauvin, impassibile, con una mano in tasca e il ginocchio che preme contro il collo dell’uomo a terra, ammanettato.

Chauvin ha l’espressione di chi se ne frega di tutto e di tutti, se ne frega di chi lo sta riprendendo, dei passanti sconvolti, se ne frega anche del flebile rantolo di chi sta morendo soffocato sotto il suo ginocchio.

Minneapolis, la città dove tutto questo accade lunedì 25 maggio, è al momento a ferro e fuoco, una stazione di polizia é stata incendiata, migliaia di persone sono in strada piene di rabbia e sgomento.

Le immagini della rivolta riportano alla mente le terribili giornate di Los Angeles del 1992, le proteste sanguinose che lasceranno sulle strade 50 vittime, avvenute in seguito all’assoluzione dei quattro agenti di polizia che avevano pestato a sangue il tassista Rodney King dopo un inseguimento in macchina. Era la prima volta che un video mostrava cosi chiaramente un pestaggio della polizia, ma chissà quante volte era accaduto prima.

Più recentemente nel 2014 a New York, un altro afro americano, Eric Garner, viene strangolato da un agente, Daniel Pantaleo. L’agente usa una presa che si chiama “chockehold” usata anche nello Judo, che in pratica soffoca o limita cosi tanto il passaggio del sangue nel collo da poter portare alla morte. Anche lui rantola “Non riesco a respirare”. Cosa aveva fatto Garner? Stava vendendo illegalmente delle sigarette sciolte. Di certo non un crimine efferato da meritare la morte (sebbene chi scrive sia comunque contro la pena di morte).

Cosa aveva fatto George Floyd? Si presume che avesse comprato qualcosa in un piccolo supermercato con dei soldi falsi o un assegno contraffatto.

Cosa ha dichiarato la Federazione della Polizia di Minneapolis dopo la morte di George Floyd?

“Non é il momento di dare giudizi affrettati e di condannare i nostri agenti. Sarà esaminato il protocollo di addestramento”.

Ma come si può non condannare moralmente gli agenti Derek Chauvin, Tou Thao, Thomas Lane e J Alexander Kweng?

E perché la Federazione di Polizia di Minneapolis non aveva mai sottoposto ad indagini gli agenti  Chauvin e Thao, che già avevano più di una dozzina (Chauvin) di denunce per violenza e maltrattamenti a loro carico?

 Ma soprattutto: perché l’agente Chauvin non é al momento detenuto in galera?

Anche il sindaco di Minneapolis Jacob Frey, visibilmente scosso e costernato dopo aver visto il video della morte di George Floyd, si è chiesto lo stesso. Licenziati? Gli agenti sono stati solo licenziati? “Se avessi fatto la stessa cosa io, o lei o qualsiasi altra persona, adesso saremmo in galera” ha detto ad un intervistatore il sindaco Frey.

La polizia ha inoltre specificato che queste “mosse” per immobilizzare le persone in arresto non sono ammesse.

Perché dunque, anno dopo anno, in Minnesota come in altri Stati, si ripresenta ricorrente e devastante il problema dei rapporti fra polizia e cittadini e quello del cattivo esempio che fornisce il sistema giudiziario non condannando quasi mai gli agenti di polizia?

In tutti i casi più recenti in cui han perso la vita cittadini afro americani di Minneapolis come Jamar Clarke e Philandro Castile, gli agenti sono stati assolti. Solo nel caso di Justine Damond (che chiamò lei stessa la polizia per segnalare un possibile reato nei confronti di una donna che aveva sentito gridare dietro casa sua) l’agente Mohamed Noor, di origine somala, è stato condannato a 12 anni e sei mesi dopo pressioni internazionali visto che la vittima era bianca e di nazionalità australiana. La città di Minneapolis pagò anche 20 milioni per violazione di diritti civili, la cifra più alta mai pagata, cosa che non accadde per Philandro Castile o Jamar Clarke.

Si può partire da un problema culturale all’interno delle forze dell’ordine stesse, che tendono ad auto assolversi e a proteggere gli agenti anche quando sono palesemente in torto, per arrivare ad un problema strutturale, di carenza di personale per cui avviene una scarsa selezione e all’uso molto diffuso di violenza e soprusi sui cittadini, soprattutto afro americani, che è ormai una prassi incancrenita e purtroppo ben conosciuta da tutti.

Ma gli agenti che si macchiano di questi crimini hanno perpetrato un danno profondissimo alla società, un danno che va anche oltre alla morte di George Floyd. Hanno ucciso, oltre ad un uomo, anche la fiducia nella polizia, nelle persone che dovrebbero difenderci, in coloro ai quali ci rivolgiamo quando abbiamo paura e chiediamo aiuto, cioé quando siamo più deboli e fragili.

La polizia stessa dovrebbe essere in prima linea nel condannare questi suoi figli “maledetti”, che rovinano la sua reputazione e infangano i principi della costituzione che giurano di servire.

I tanti passanti, impotenti testimoni dell’esecuzione di George Floyd, condannato a morte cinicamente non solo da un agente, ma anche dagli altri tre che fanno finta di non vedere e non sentire, non potranno più avere fiducia nella polizia americana.

I milioni di persone che vedranno la morte di George Floyd in video, su internet ed in televisione, non penseranno più alla polizia come ai “buoni”, che ogni giorno rischiano la vita per arrestare i criminali.

Un afroamericano che vedrà l’ennesimo video di un altro membro della sua comunità barbaramente ucciso, dalla polizia o da cittadini che si comportano da ‘vigilantes” (come nel recente caso di Ahmaud Arbery in Georgia, anche lui disarmato e ucciso a sangue freddo in quello che sembra un omicidio premeditato) non potrà che sentirsi svalutato, solo, vittima di un sistema che lo penalizza e lo sacrifica, non da poco tempo, ma da ben 400 anni.

L’ex presidente Obama aveva istituito nel 2015 una Task Force apposta per ‘riprogrammare” il rapporto fra forze dell’ordine e cittadini, che aveva prodotto delle ‘raccomandazioni” che si chiamavano “21st Century Policing”, che però sono state subito abbandonate nel 2017 con l’avvento della nuova amministrazione Trump.

In America (con differenze fra stato e stato) il “first degree murder” ossia omicidio di primo grado è l’accusa più grave che si possa fare. Solitamente ha bisogno di tre elementi: la volontà e la deliberazione, cioé l’intento di uccidere, che si accompagna solitamente alla premeditazione, che non ha un limite di tempo, può essere anche molto breve, ma precedente all’omicidio stesso. Alcuni stati richiedono anche “malice” cioè malvagità, altri non hanno gradi di omicidio (first, second o third) ma parlano di “capital murder”.

Nei casi di violenza sessuale, rapina a mano armata, incendio doloso, ad esempio, quando si uccide qualcuno nel compimento di questi atti, si può essere automaticamente condannati per omicidio di primo grado.

In Minnesota un omicidio di primo grado porta ad una sentenza di ergastolo e solitamente richiede premeditazione o intenzione di uccidere.

Se dimostrare premeditazione nel caso dell’agente Chauvin non sarà facile, si potrebbe però sostenere che un agente con 19 anni di carriera alle spalle non é certo un novellino per non sapere che premendo per cinque lunghissimi minuti con un ginocchio sul collo di un uomo già immobile ed inoffensivo, che peraltro sta dichiarando di non respirare, provocherà quasi sicuramente la morte di quell’uomo. In più si può dimostrare anche la malvagità, il sadismo, invocare l’uso della tortura e la violazione di diritti civili che permangono anche nel caso di arresto, come quello di essere trattato in modo umano e di non essere soggetto ad una punizione crudele.

L’immagine che offre l’agente Chauvin a chi guarda l’istantanea dove appare con il ginocchio sul collo di Floyd, é quella di un crudele cacciatore che troneggia sulla preda ridotta ormai all’impotenza e prossima ad esalare l’ultimo respiro.

Si spera davvero che in questo caso “Giustizia sia fatta”, per il passato, per il presente e per il futuro. Che quello di Chauvin venga considerato omicidio volontario e non “manslaughter”, ossia omicidio colposo o preterintenzionale, perché c’é intenzionalità in questa morte, c’é abbastanza esperienza per sapere cosa si sta facendo e il pericolo che ne consegue. Sappiamo che il caso dell’agente Pantaleo, che nel 2014 ha ucciso l’afro americano Garner soffocandolo, é stato dismesso dal procuratore generale Barr, dopo cinque anni di lotte giudiziarie e accuse di violazione di diritti civili. Sappiamo che tutti i precedenti non sono di certo incoraggianti.

Però, come se non fosse la sporca e brutale realtà di un sistema giudiziario fallace e prono a difendere i più forti a scapito dei deboli, ma un film di Hollywood a lieto fine, vogliamo credere ad una sentenza di colpevolezza che rimanga per sempre come monito e come esempio, perché anche questa morte così ingiusta e assurda non sia avvenuta invano.

 

AGGIORNAMENTO: Venerdì, 3:30 pm, ora di NY. Derek Chauvin, il poliziotto che si vede nel video con il ginocchio sul collo di George Floyd, è stato arrestato con l’accusa di omicidio di terzo grado.

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Isabella Weiss di Valbranca

Isabella Weiss di Valbranca

Isabella Weiss di Valbranca è nata a Roma, ha studiato, vissuto e lavorato in Italia, Singapore e Stati Uniti. Laureata in Giurisprudenza, è giornalista pubblicista, ha collaborato per varie testate e per Rai International. Ha conseguito il Master in Ingegneria dell'impresa all'Università Tor Vergata di Roma con 110 e lode. Attualmente residente a San Francisco, è molto attiva nella comunità italo americana e ha fatto parte del board della Leonardo Da Vinci Society.

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