“Il coronavirus è un attacco peggiore rispetto a Pearl Harbour e all’11 Settembre”. Queste le parole durissime pronunciate da Donald Trump in una recente intervista alla stampa. Il Presidente degli Stati Uniti accusa la Cina di non aver agito tempestivamente per fermare la diffusione del virus. Nei giorni scorsi il segretario di Stato Mike Pompeo aveva dichiarato che c’erano prove schiaccianti che il coronavirus fosse fuoriuscito dall’istituto di virologia di Wuhan, salvo poi contraddirsi in un’intervista televisiva. È ormai evidente che l’amministrazione Trump stia usando la Cina per impostare la campagna elettorale del Presidente in vista di Novembre. Invece che prendersi le proprie responsabilità per non aver ascoltato i primi avvertimenti dell’intelligence risalenti a fine Gennaio, Trump preferisce prendersela con il colosso asiatico. D’altronde, il populismo non potrebbe esistere senza avere un nemico contro cui scagliarsi, e il nemico in questo caso non può essere un virus invisibile.
Ma la Cina non ci sta a farsi prendere in giro, e nel giorno del settantacinquesimo anniversario dalla fine della Seconda guerra mondiale, il Presidente Xi Jinping telefona a Vladimir Putin per rinnovare l’amicizia tra i due popoli. In un comunicato rilasciato dopo la telefonata, Putin ha lodato le misure cinesi verso il contenimento del coronavirus e ha ribadito la sua vicinanza al Presidente cinese, ingiustamente criticato dall’America. Potrebbero sembrare le solite schermaglie tra paesi ideologicamente opposti nello scacchiere geopolitico, ma mai nel corso degli ultimi quarant’anni i toni sono stati cosi accesi fra le due potenze mondiali. Trump che trasforma il coronavirus in un “attacco” comparabile all’11 Settembre e a Pearl Harbour è un fatto di una gravita inaudita. Specialmente se si considera che l’11 Settembre portò George W. Bush ad invadere l’Afghanistan, mentre Pearl Harbour costrinse Franklin Roosevelt ad entrare nella Seconda guerra mondiale. La legge del contrappasso fa pensare che Trump sia in procinto di sferrare un attacco contro la Cina di Xi Jinping. Ma quanto è realistico questo scenario?
Dal punto di vista economico, la guerra appare già ben avviata. Trump ha messo in discussione l’accordo commerciale raggiunto meno di quattro mesi fa, che obbligava la Cina ad acquistare prodotti americani per un ammontare di 200 miliardi di dollari. Immaginarsi un rinfocolare della guerra dei dazi nei prossimi mesi non è affatto fantascienza. Questo non è un buon segnale. L’interdipendenza economica diminuisce il rischio di una guerra, mentre il protezionismo la aumenta. È persino circolata l’ipotesi strampalata di cancellare una parte delle obbligazioni di debito americane in mano ai cinesi. La Cina detiene oltre mille miliardi di titoli del tesoro statunitensi, e una mossa del genere farebbe esplodere l’intero mercato finanziario. Non certo una mossa idilliaca nel bel mezzo di una recessione mondiale che si appresta ad essere peggiore di quella del ventinove.

A queste minacce economiche bisogna aggiungere la richiesta di partecipazione di Taiwan all’assemblea dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che si terrà il prossimo 18 Maggio. Gli Stati Uniti appoggiano questa richiesta, mentre la Cina, che non riconosce la sovranità del paese, è contraria. Questo è l’ultimo tassello di un’escalation incominciata nel 2016, quando a Taiwan hanno eletto i democratici indipendentisti al governo. Da allora la Cina ha incrementato la propria presenza navale nel Mar Cinese Meridionale e ha intensificato le proprie esercitazioni militari. Gli Stati Uniti hanno reagito dispiegando le loro navi della marina militare al confine delle acque territoriali cinesi. Le ultime due sono giunte proprio Giovedì scorso, quando impazziva la polemica sulla partecipazione Taiwanese all’OMS. Uno scontro armato tra navi da guerra USA e Cinesi alle porte di Taiwan non è da escludere, specialmente se si considera che la Cina occupa illegittimamente le isole Spratly e Paracelso: atolli strategici per l’estrazione di minerali presenti sul fondo marino. Isolotti su cui la Cina ha installato sistemi di difesa missilistici nel caso qualcuno dei paesi circostanti provasse ad approfittare delle ricche risorse. Tra questi paesi c’è anche il Vietnam, storico rivale degli Stati Uniti, che ultimamente si è avvicinato all’amministrazione Trump proprio per questo motivo. Conosciamo già la tendenza Americana nel finanziare paesi terzi per colpire nemici comuni. Facendo due più due si capisce che il rischio di un affronto militare nel Mar Cinese Meridionale non è inverosimile.
Bisogna poi aprire una breve parentesi sulle armi di distruzione di massa detenute da entrambe le potenze mondiali. Nel 1964 Mao dichiarò che la Cina “mai, in nessun momento o circostanza” sarebbe stata la prima a “utilizzare le armi nucleari.” Proprio per questo motivo, le circa 300 testate nucleari di cui oggi dispone la Cina non sono in stato d’allerta. D’altro canto, gli Stati Uniti non hanno mai aderito al “no-first-use”, e dispongono di oltre 1500 testate nucleari pronte ad essere utilizzate in qualsiasi momento. Inoltre, Trump ha appena acquistato un blocco di nuovi missili Tomahawk in grado di trasportare testate nucleari da consegnare ai propri Marines. Una mossa che gli Stati Uniti non avrebbero potuto compiere se fossero ancora dentro l’Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty. Dopo questi ultimi sviluppi, la Cina ha avvertito gli Stati Uniti di smetterla di “flettere i propri muscoli militari”. Se gli Stati Uniti dovessero continuare a testare la pazienza cinese, Xi Jinping potrebbe decidere di mettere le 300 testate nucleari in stato d’allerta. Hu Xijin, il direttore del magazine Global Times – controllato dal Partito Comunista Cinese – ha recentemente fatto sapere che la Cina dovrebbe incrementare le proprie testate nucleari da 300 ad almeno 1000, per contrastare l’espansione statunitense. Una situazione del genere darebbe il via a una nuova corsa alle armi nucleari proprio come durante la Guerra Fredda.

La realtà dei fatti è che ci troviamo in un periodo di grande caos causato dall’inevitabile transizione da un egemone all’altro. Gli Stati Uniti non sono più i primi al mondo in nessun campo a parte quello militare. Ed è proprio questa l’arma che Trump potrebbe utilizzare per tentare di rimanere primus inter pares il più a lungo possibile. Ma prima o poi, questo primato che va avanti da più di 75 anni finirà, e gli Stati Uniti dovranno accontentarsi di stare in seconda fila. Il vero dubbio è in che modo sceglieranno di scendere dal piedistallo.
La storia ci insegna che tutte le transizioni da un egemone all’altro hanno sempre portato a una guerra. Nel 1600, l’egemonia Portoghese fu portata a termine dalla guerra Olandese-Portoghese che incoronò l’Olanda come nuovo egemone. L’egemonia olandese durò fino al 1688, quando la guerra di Luigi XIV diede inizio all’egemonia Britannica. Questa durò indisturbata per oltre due secoli fino alla prima Guerra Mondiale, quando la Germania tentò di strappargli il primato. Nel periodo tra il 1918 e il 1939 nessun paese emerse come nuovo egemone, e infatti ci volle un’altra guerra mondiale per decretare il nuovo primato degli Stati Uniti. Oggi ci ritroviamo in un periodo simile a quello post prima guerra mondiale, con ancora nessun paese al mondo in grado di emergere come nuovo egemone. La Cina appare il candidato più probabile vista la propria potenza economica, ma ha ancora bisogno di un po’ di tempo per costruire il proprio assetto militare. Guardando alla storia, sarebbe strano se non ci fosse una guerra per decretare ufficialmente la transizione da un egemone all’altro. Speriamo vivamente che questa possa essere l’eccezione che conferma la regola…