25 aprile: come si fa a spiegarlo a un “millenian” perché è stato, perché è tuttora importante il 25 aprile, la festa della Liberazione? Vallo a spiegare, a chi, in questi giorni di Coronavirus, si sente un leone in gabbia, si sente prigioniero perché costretto da un virus a vivere buona parte della sua giornata dentro le mura di un appartamento? D’accordo, la casa non sarà grande; magari si è pure costretti a una forzata convivenza, e chi ne ha, avrà il problema dei figli piccoli, oppure grandi (e sono magari un maggiore “fastidio”), e poi, e poi…
Però non lo so quanti hanno davvero vissuto gli anni tremendi della Guerra se la sentono di paragonare quei tempi con quelli che si vivono oggi. Quando, se eri stato circonciso da bambino, vivevi con il terrore che un giorno dei farabutti ti venissero a prelevare da dove ti eri rifugiato, ti stipassero in un vagone diretto verso un lager e di lì un Mengele con i suoi demoniaci esperimenti, o nel forno crematorio; se coltivavi un’opinione che non fosse quella autorizzata, un manipolo di fanatici odiatori professionisti che ti massacrava; i bombardamenti, e potevi essere ucciso da un ordigno dei nazi-fascisti o degli “alleati”, sempre a pezzi ti faceva, la fame, la miseria, il crollo e la devastazione di tutto…
A tutti quelli che parlano di “guerra”, vorrei consigliare la lettura di un romanzo forse dimenticato, di Alberto Moravia, “La ciociara”; o almeno di vedere il film che ne hanno ricavato Vittorio De Sica e Cesare Zavattini con Sophia Loren e Jean-Paul Belmondo: la struggente storia della vedova Cesira e della figlia Rosetta…
Quella era la guerra.
Per capire l’importanza, il significato del 25 aprile racconterei poi del dialogo tra Vittorio Foa, antifascista che sconta venti e passa anni della sua gioventù nelle carceri fasciste, e costituente; e Carlo Mazzantini, uno che ci credeva, che milita tra i “repubblichini” dell’effimera Repubblica di Salò e combatte a fianco dei nazisti, e che racconta le sue esperienze in libri che meritano d’essere conosciuti, e soprattutto “A cercar la bella morte” (c’è un’altra versione del dialogo: sempre Foa, ma con Giorgio Pisanò, anche lui repubblichino, e finita la guerra, senatore del Movimento Sociale. Ma la sostanza non muta; qui però si accredita quella che vuole Mazzantini interlocutore di Foa).

I due sono anziani, è passato tanto tempo da quando militavano in campi avversi; si sono come “pacificati”. Ognuno resta della sua idea, ma si parlano, “dialogano”. Non che siano amici: si rispettano. Mazzantini dice a Foa: “Eravamo entrambi giovani, in quei terribili anni; e tutti e due animati da ideali, credevamo in quello che facevamo. Questo lo devi riconoscere…”.
Foa assente con il capo, sorride; e scandisce:
“Hai ragione. Avevamo entrambi degli ideali e per quegli ideali ci siamo battuti. La differenza è questa: abbiamo vinto noi, e tu ora sei qui che parli con me. Se invece aveste vinto voi, io non sarei qui, a parlare con te”.
Il 25 aprile è questo: quei padri, quei nonni che un giorno si sono ribellati, sono andati in montagna e hanno combattuto e lottato, sono morti, e certo grazie all’intervento e alla lotta degli “alleati”, hanno conquistato libertà, dignità, rispetto, per loro; e per noi. Ci sono due documenti che forse non apprezziamo a sufficienza, e che sono invece fondamentali, il discrimine: la tessera elettorale, che ci consente di poter liberamente scegliere da chi farci governare con il voto; e il passaporto, grazie al quale ci possiamo liberamente muovere dentro e fuori i confini nazionali, senza dover chiedere il permesso, preoccupandoci solo di avere il denaro necessario per i nostri spostamenti. Togliete la scheda e il passaporto, e non varrà più la pena di vivere nel Paese dove si vive.
Questo è il 25 aprile.
Un 25 aprile che non deve farci dimenticare che si tratta di un qualcosa da celebrare in modo rituale un giorno l’anno; poi, “passata la festa, gabbato lo santo…”.
Per coincidenza – ma le coincidenze sono “incidenze” ricorda Leonardo Sciascia – in queste ore una persona perbene, il direttore di Repubblica Carlo Verdelli è stato rimosso dal suo incarico. Lo sostituisce un collega, Maurizio Molinari, che è persona altrettanto perbene, e che saprà ben fare, di questo non ho dubbio alcuno. Però Verdelli, che in Spagna definirebbero un “hombre vertical” viene dimesso in un momento particolare: sono settimane che subisce ogni sorta di intimidazione e minacce da ambienti di estrema destra; al punto che il ministero dell’Interno ha ritenuto di dovergli assegnare una scorta. Le ultime minacce, via web e non solo cartacee, poche ore fa. Incredibile che si sia tutti, grazie a un’inquietante tecnologia, sotto controllo; e che dal web si possa impunemente minacciare una persona. Ma al di là di questo, è la tempistica scelta dai nuovi padroni del gruppo “Repubblica”-“l’Espresso”, per “liberarsi” di Verdelli. Non è che Gianni Agnelli o il fratello Umberto fossero più teneri e meno “spietati” del nipote John Elkann; tutt’altro. Però, un filo di classe in più l’avevano.
Congedandosi dai lettori, nel suo ultimo editoriale, Verdelli con lo stile che è dell’uomo:
“Sabato sarà il 25 aprile, la festa sacra e laica della Liberazione. Repubblica la onorerà con un impegno particolare, visto il momento che il Paese sta attraversando. Sarà il nuovo direttore, Maurizio Molinari, a cui va il mio in bocca al lupo, a guidare il giornale in un momento che sarà insieme di memoria e di voglia di rinascita…Partigiani si nasce, e non si smette di esserlo”.
Quel “Partigiani si nasce, e non si smette di esserlo”, dice molto se non tutto, e non solo di Verdelli. Dice che c’è il 25 aprile; ma che per essere un vero 25 aprile ci deve poi essere un 26 e poi un 27 e un 28… e nel 2020, nel 2021, nel 2022…
Perché tanti sono quelli che Sciascia, nello “scandaloso” articolo del 10 gennaio 1987 sui “Professionisti dell’antimafia” definisce “gli eroi della sesta giornata”: coloro che passata la “tempesta” delle cinque giornate di Milano”, uscirono di casa armati e patriotticamente incoccardati: “Noi siamo un popolo”, commentava amaramente, “che in buona maggioranza ha il genio della sesta giornata, un istinto acquisito attraverso una dolorosa esperienza di secoli…”.
Un antidoto ai fascisti palesi e occulti, e agli “eroi della sesta giornata”: il 25 aprile, ma anche dopo, una serie di letture i cui effetti benefici si misureranno nel tempo; da Dante a Leopardi, da Manzoni a De Roberto, da Pirandello a Shakespeare, da Twain a Tolstoj…c’è solo l’imbarazzo. Ma a fianco, anche autori di un autentico antifascismo che si è battuto contro ogni totalitarismo, non importa di quale colore: George Orwell, per citarne uno, ma anche George Bernanos e André Gide; e per quel che riguarda gli italiani: Arrigo Benedetti, Piero Calamandrei, Benedetto Croce, Luigi Einaudi, Beppe Fenoglio, Mario Pannunzio, Carlo Rosselli, Ernesto Rossi, Gaetano Salvemini, Ignazio Silone, Mario Soldati Altiero Spinelli, le Lettere dei condannati a morte della Resistenza. Con qualcuno di questi libri in mano sarà un buon e degno 25 aprile.
Una finale nota a margine, e tuttavia non marginale. Un elemento costitutivo della libertà e della democrazia è la conoscenza: il diritto a essere informati, il dovere di assicurare un’informazione che sia rispettosa dei vari punti di vista e non manipoli i fatti. La stampa, e in generale il giornalismo servono a questo: informare, raccontare, offrire punti di vista; discutibili, se si vuole, ma che appunto si è liberi di discutere.

Il 25 aprile è – non a caso – il giorno in cui La Voce di New York compie gli anni. Sette non sono pochi. Dipenderà molto dal direttore e dai suoi collaboratori se ve ne saranno, come tutti ci si augura, altri sette, e poi sette, e sette ancora per sette volte, e più. Ma dipenderà anche dai lettori. Hanno sotto agli occhi, ogni giorno un prodotto onesto, ricco, con una sua identità: deve solo fare un click nel computer. Dietro quel click c’è un grande, quotidiano, paziente, rigoroso lavoro. Si dice che non s’è vera manifestazione di solidarietà se non è accompagnata almeno da un penny. Ecco: il lettore se vuole, se può, si ricordi di darlo, quel penny come “dono”: una sorta di polizza assicurativa, per essere sicuro di poter continuare ad avere quello che ogni giorno, da sette anni gli viene dato. Un paio di caffè in meno, una “Voce” di più.