
Coronavirus: in Italia, non si parla d’altro. Da quando i primi due focolai si sono propagati in Lombardia, nel lodigiano, e in Veneto, nel padovano, tv, giornali e social network sono impegnati a sviscerare l’emergenza minuto per minuto. E se fino a pochi giorni fa i non così rari episodi di psicosi venivano “scatenati” solo da malcapitati cittadini di origine asiatica (si stima che ultimamente i ristoranti cinesi abbiano registrato perdite di fatturato intorno al 70%), in queste ore neppure i lombardo-veneti se la stanno passando benissimo. Al punto che i sindaci di sei comuni dell’isola di Ischia hanno emanato un’ordinanza che prevede un divieto di sbarco per i turisti provenienti da quelle zone. Chi l’avrebbe mai detto che prima o poi avrebbero chiuso i porti persino per noi lombardi.
Sì, perché chi scrive è nata a Milano, cresciuta in provincia di Monza, e nei giorni dell’esplosione italiana del Coronavirus ha trascorso un (quasi) spensierato weekend in Trentino Alto-Adige, regione fino a quel momento “immune” dall’epidemia. Sono salita sul treno che mi avrebbe portata alla meta consapevole che a circa 60 km da casa mia erano stati registrati i primi due casi di COVID-19. Solo qualche ora più tardi, gli infetti avevano superato la decina. In serata, i notiziari parlavano di due convogli bloccati nelle stazioni di Milano e Lecce per casi sospetti (poi rivelatisi falsi allarmi). La mattina successiva, i giornali aprivano con la notizia delle prime due vittime accertate: una donna di 76 anni residente in Lombardia e un 78enne originario di Vo’ Euganeo (Padova). Domenica sera, le vittime sarebbero diventate tre, con il decesso di una donna anziana di Crema già ricoverata in oncologia. Lunedì mattina, il quarto caso: un 84enne di Bergamo.


Mentre scrivo queste righe, le persone trovate positive al virus sono più di 200 – 165 nella sola Lombardia –, e l’Italia è divenuto il terzo Paese al mondo per numero di contagiati. Non c’è troppo da scherzare: il Governo ha emesso un decreto d’urgenza per circoscrivere il più possibile il contagio nelle zone dei focolai, dove è vietato entrare e uscire, e il ministero della Salute ha diffuso le sue linee guida a titolo precauzionale. In Lombardia, anche fuori dalla zona “rossa”, sono state sospese “manifestazioni o iniziative di qualsiasi natura e ogni forma di riunione”, le scuole di ogni ordine e grado sono state chiuse per una settimana e l’orario di esercizio di bar e locali notturni è stato limitato. Vari datori di lavoro hanno incoraggiato i propri dipendenti a optare per lo smart working. I supermercati sono stati presi d’assalto: a Lissone, nel milanese, un ipermercato del territorio avrebbe chiuso mezz’ora prima per esaurimento dei prodotti. Nelle farmacie, trovare una mascherina protettiva o un disinfettante per mani è pressoché impossibile. Ma persino nelle baite di montagna e nei baretti vista Dolomiti il Coronavirus era sulla bocca di tutti: a maggior ragione perché anche in Trentino le scuole sono state chiuse, e in parecchie località manifestazioni, eventi e messe cattoliche sono state sospese. La medesima sorte è toccata all’iconico carnevale di Venezia.

Insomma: neppure sui monti si stava troppo tranquilli. Io stessa, con il mio inequivocabile accento longobardo, devo aver seminato qualche preoccupazione: quando mi preparavo a recarmi in stazione per prendere il treno di ritorno, i miei compagni di ascensore non hanno potuto nascondere una certa inquietudine nello scoprire dove ero diretta. Solo un paio d’ore più tardi, si sarebbe saputo dei primissimi casi registrati nella regione: una famiglia lombarda di tre membri in vacanza a Fai della Paganella è stata trovata positiva al virus e subito trasferita in ambulanza a Milano.
Da giorni, i gruppi WhatsApp sono invasi di messaggi vocali, inoltrati di contatto in contatto, fino a smarrire l’identità del mittente con il proseguire della catena. E se nel migliore dei casi risultano registrati da persone che si dichiarano medici, allo scopo di informare sulle buone pratiche per scongiurare l’infezione, nel peggiore gettano benzina sul fuoco. Uno di questi, ascoltato dalla sottoscritta, parlava di 29 casi di Coronavirus a Roma (mai registrati in realtà), che sarebbero stati colpevolmente nascosti dalle istituzioni. E intanto, il popolo del web si è diviso in “allarmisti” e “zen”: i primi, impegnati a rilanciare ogni singolo aggiornamento e a disegnare scenari quasi apocalittici; i secondi, tenaci nello smorzare la tensione con ironia e nel ricordare razionalmente che fa più morti l’influenza “normale”.

In mezzo, ci sono gli esperti consultati da giornali e tv. Come l’illustre virologa italiana Ilaria Capua, secondo cui “stiamo assistendo alla diffusione di una sindrome simil-influenzale causata da coronavirus. E se si iniziasse a chiamarla così, già le persone si tranquillizzerebbero”. A suo avviso, “tanto più cresce il numero delle persone infette – o meglio: tanto più scopriamo casi pregressi e passati inosservati – tanto meglio è. Perché vuol dire che il numero degli infetti è maggiore di quanto pensavamo. E il potenziale letale del virus, molto minore”. Certo, la situazione è seria: soprattutto perché, ha spiegato Massimo Galli, primario dell’Ospedale Sacco di Milano – centro di eccellenza per le malattie infettive –, “questi virus viaggiano per conto loro. E sono imprevedibili”. A frenare la psicosi, è giunto lo sfogo su Facebook di Maria Rita Gismondo, direttrice del laboratorio dell’ospedale Sacco: “A me sembra una follia. Si è scambiata un’infezione appena più seria di un’influenza per una pandemia letale. Non è così”. Analisi rigettata da un altro illustre virologo italiano, Roberto Burioni, che giorni prima aveva messo sotto accusa le “declamazioni tranquillizzanti di alcuni politici”. E intanto, c’è anche chi comincia a puntare il dito contro la gestione delle prime ore del Governo italiano, colpevole, secondo loro, di aver preso misure inutili e aver mancato quelle utili: tra questi, il professor Walter Ricciardi, membro del consiglio esecutivo dell’Oms, per il quale “paghiamo il fatto di non aver messo in quarantena da subito gli sbarcati dalla Cina. Abbiamo chiuso i voli, una decisione che non ha base scientifica, e questo non ci ha permesso di tracciare gli arrivi, perché a quel punto si è potuto fare scalo e arrivare da altre località”.

Si sa: quando in gioco c’è la salute pubblica, minacciata da una possibile pandemia, il confine tra informazione puntuale e allarmismo, tra preoccupazione e panico si snoda su un terreno vistosamente scivoloso. Su Facebook, diversi connazionali all’estero, in primis negli USA, fanno notare come da quelle parti la macchina dell’informazione dia pochissimo spazio all’argomento, e come il tema venga affrontato con sangue decisamente più freddo. Da noi, però, devono aver pensato che, come scriveva il Manzoni nella sua profetica Storia della colonna infame, “è men male l’agitarsi nel dubbio, che il riposar nell’errore”: e così, a leggere i titoli dei giornali, c’è da mettersi le mani nei capelli. Ma che in Italia la situazione sia quantomeno particolare lo afferma anche Hans Kluge, il direttore dell’Organizzazione mondiale della sanità in Europa: “Quello che preoccupa”, ha spiegato, “è che non tutti i casi registrati sembrano avere una chiara storia epidemiologica, cioè un legame con viaggi in Cina o contatti con altri casi già confermati”.
Di certo c’è che questo Coronavirus è destinato a seminare per via parecchi danni, anche dal punto di vista economico: Lombardia e Veneto valgono da sole il 31% del Pil del Paese. E lo stop delle imprese nelle aree in quarantena potrebbe fare danni incalcolabili alla già fragile economia italiana. Dal canto mio, cerco di abituarmi all’insolita spettralità della mia zona: strade vuote, silenzio, pochi passanti barricati dietro a mascherine o che affondano il volto nelle sciarpe. Treni e mezzi pubblici deserti persino a Milano, che fino a ieri, con la Settimana della Moda, ospitava visitatori da tutto il mondo. Oggi, invece, quell’eccentrico brulichio di vita del capoluogo lombardo sembra solo un lontano ricordo.