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Curdi: il 2019 ha rinnovato la tragedia di un popolo da sempre tradito da tutti

Ancora una volta il mondo assiste inerte mentre sono soprattutto le donne curde a essere odiate, disprezzate, uccise. Si capisce: combattono per il diritto alla libertà

Valter VecelliobyValter Vecellio
Curdi: il 2019 ha rinnovato la tragedia di un popolo da sempre tradito da tutti

Combattenti curde del YPG (Foto da Flicker)

Time: 6 mins read

“Scivola” da un cumulo di carte che attendono di essere catalogate. E’ una fotografia, ritrae una giovane donna, sorride ma lo sguardo è al tempo stesso severo: di chi senza chiedere, pone domande, già sapendo, forse, che non avranno risposta. I capelli, neri, sono raccolti, ma senza velo. Indossa un vestito rosso. Il suo nome: Hevrin Khalaf, 35 anni, laureata in ingegneria, segretario generale del Partito del futuro siriano. Una curda impegnata per un futuro migliore per le donne del suo Paese (per quello che è ancora un sogno, perché un paese curdo non esiste), e un pacifico dialogo tra curdi, arabi e cristiani.

Hevrin Khalaf (Immagine ripresa da twitter)

Dice più nulla, il suo nome? L’hanno uccisa il 12 ottobre scorso, sull’autostrada M4, l’arteria principale che da Ras al-Ayn porta a Qamishli. Un vero e proprio agguato. La donna è a bordo di un fuoristrada. Ci sono delle immagini, girate con i cellulari dei miliziani responsabili dell’eccidio. Sono siriani alleati ai turchi. Si sentono in sottofondo raffiche di mitra, poi il nero, e ancora il corpo di una persona, probabilmente Hevrin, il viso e i capelli sono coperti da polvere e sabbia. Si vede un uomo di schiena che si avvicina al corpo, la tocca con il piede, dice a qualcuno che gli è vicino: “Questo è il cadavere del maiale”. Quello che è accaduto tra il primo e il secondo video, si può intuire: Hevrin viene scaraventata fuori dall’automezzo, forse l’avranno interrogata, forse no; di sicuro qualcuno decide di eliminarla a sangue freddo scaricandole a bruciapelo il caricatore del mitra. Stessa sorte per gli altri passeggeri. Il giorno dopo un comunicato delle Forze Armate turche comunica che Hevrin è stata messa “fuori combattimento” nel corso di un’operazione militare, un raid effettuato sulla base di informazioni fornite dai servizi segreti.

Personaggio pericoloso, Hevrin. Lei (e il partito che nel marzo del 2018 ha contribuito a fondare), si batte per la laicità dello Stato, i cui fondamenti siano multi-identitari, nessuna differenza tra donne e uomini, rinuncia alla violenza e soluzioni pacifiche delle controversie. Prende come modello la risoluzione 2254 delle Nazioni Unite: “…tutte le fazioni del popolo siriano dovrebbero essere rappresentate nel processo politico, compresa la stesura di una nuova Costituzione”.

E’ “naturale” che Hevrin, agli occhi dei despoti di Damasco e Ankara sia una “terrorista”, una nemica. Non poteva che finire in quel modo atroce.

Una settimana prima, lancia un appello: non lasciateci soli; e l’accusa alla Turchia di voler occupare il nord della Siria, ed eliminare i curdi che lo hanno liberato dal sedicente Stato Islamico.

Una manifestazione in difesa dei curdi a Berlino, il 2 novembre, 2019 (Foto Wikimedia, di Leonhard Lenz)

Quando arriva la notizia in Occidente, il presidente del Parlamento Europeo David Sassoli la definisce “il vero volto del dialogo e dell’emancipazione delle donne in Siria”. Il suo assassinio è “un orrore su cui la comunità internazionale dovrà andare fino in fondo”.

Ha ragione, Sassoli; e a questo punto dopo le nobili parole, qualche gesto concreto. Ma non è la prima volta che l’Europa, il mondo, tradiscono i curdi, e lasciano che i massacri si consumino, indifferenti o addirittura interessati; e quante altre volte è accaduto, e accade, in Africa, in Asia…

Frettolosi, telegiornali e giornali forniscono cronache spesso imprecise, poi si va oltre. Negli stessi giorni, un’altra ragazza curda, lei combattente, viene uccisa. Il suo nome: Sehid zi Amara, ma e ha scelto un altro, di battaglia: Zain Kobani. Un esempio: “Ha combattuto contro l’oppressione e tutte le forme di repressione. Ha dato un impulso per liberare le donne dall’oppressione patriarcale e ha mostrato a tutte le donne prigioniere di questa mentalità che il mondo è migliore quando sono libere e attive nella società”. Anche lei uccisa dai turchi, dopo l’inizio dell’invasione del Rojava.

Sehid-Kobani era una delle più attive combattenti contro i jihadisti fin dal 2013, fino a diventare una delle leader della resistenza a Kobane. La ricordano così: “…Nel 2013, dopo che i gruppi mercenari hanno lanciato la loro offensiva contro il nostro popolo, la compagna Zain è stata una delle prime combattenti a prendere parte alle battaglie contro i mercenari dello Stato Islamico e contro i mercenari di Jabhat al-Nusra che occupavano la città di Serekaniya. Poi Zain ha combattuto con coraggio a Kobane, Suluk, Shadadi e Manbij. Durante le battaglie di Kobani e nonostante ferita alla spalla, non ha smesso di combattere e ha mostrato una posizione ferma e coraggiosa. Poi Manbij e infine a Deir-ez -Zor per l’eliminazione dell’Isis che per tanti ha rappresentato realizzazione delle speranze di tutti i martiri”.

Più dei curdi uomini, sono le donne curde a essere odiate, disprezzate. Si capisce: combattono per i loro diritti. Sono in prima linea e muoiono per opporsi alla guerra di Erdogan che vuole cancellare l’esperimento del Rojava.

Il comando generale delle unità di difesa delle donne (Yekîneyên Parastina Jin, Ypj) tempo fa ha reso noto i nomi di due delle loro combattenti caduti negli scontri con i turchi e le milizie jihadiste al soldo di Erdogan: si chiamavano Ceylan Aşkan e Sakîna Mıhemed, nomi di battaglia Ronahî Gewda e Sara Tîrêj: “La resistenza contro l’invasione dell’esercito turco e dei mercenari continua. Impegnati a difendere i valori dell’umanità, le donne resistono al fascismo di Erdoğan come hanno resistito all’Isis. Le compagne Ronahî e Sara si sono opposte agli attacchi di invasione dello stato turco con grande impegno e determinazione”.

Per qualche settimana sono state mitizzate. Le fotografie che ritraevano le combattenti più belle sono state utilizzate per didascalie ammiccanti: “le amazzoni”. Già solo questo di fatto è servito per banalizzare un progetto di portata storica, con radici che affondano in quarant’anni di lotte: donne forti, hanno lottato prima per conquistare l’emancipazione all’interno della propria società, delle stesse famiglie – e si può immaginare a che prezzi – e poi a fianco degli uomini, con le armi; facendosi da loro accettare, imponendo la loro presenza…

Diciottomila donne, su un totale di quarantacinquemila combattenti. Hanno visto in faccia l’orrore perpetrato costituito dal Daesh, hanno ucciso e hanno visto morire le loro compagne, le loro amiche. Qualche mese fa, una lettera, dal titolo: “A tutte le donne e ai popoli del mondo che amano la libertà. Perché non ci dimentichino”. Si legge:

Asia Ramazan Antar, conosciuta anche come Vivan Antar, giovane combattente curda uccisa dall’ISIS nel 2016 (Foto Wikipedia)

“Come donne di varie culture e fedi delle terre antiche della Mesopotamia vi mandiamo i più calorosi saluti. Vi stiamo scrivendo nel bel mezzo della guerra nella Siria del Nord-Est, forzata dallo Stato turco nella nostra terra natale. Stiamo resistendo da tre giorni sotto i bombardamenti degli aerei da combattimento e dei carri armati turchi. Abbiamo assistito a come le madri nei loro quartieri sono prese di mira dai bombardamenti quando escono di casa per prendere il pane per le loro famiglie. Abbiamo visto come l’esplosione di una granata Nato ha ridotto a brandelli la gamba di Sara di sette anni, e ha ucciso suo fratello Mohammed di dodici anni. Stiamo assistendo a come quartieri e chiese cristiane vengono bombardate e a come i nostri fratelli e sorelle cristiani, i cui antenati erano sopravvissuti al genocidio del 1915, vengono adesso uccisi dall’esercito del nuovo impero Ottomano di Erdogan. Due anni fa, abbiamo assistito allo Stato turco che ha costruito un muro di confine lungo 620 chilometri, attraverso fondi Ue e Onu, per rafforzare la divisione del nostro Paese e per impedire a molti rifugiati di raggiungere l’Europa. Adesso stiamo assistendo alla rimozione di parti del muro da parte di carri armati, di soldati dello Stato turco e jihadisti per invadere le nostre città ed i nostri villaggi. Stiamo assistendo ad attacchi militari. Stiamo assistendo a come quartieri, villaggi, scuole, ospedali, il patrimonio culturale dei curdi, degli yazidi, degli arabi, dei siriaci, degli armeni, dei ceceni, dei circassi e dei turcomanni e di altre culture che qui vivono comunitariamente, vengono presi di mira dagli attacchi aerei e dal fuoco dell’artiglieria. Stiamo assistendo a come migliaia di famiglie sono costrette a fuggire dalle loro case per cercare rifugio senza avere un luogo sicuro dove andare. Oltre a questo, stiamo assistendo a nuovi attacchi di squadroni di assassini di Isis in città come Raqqa, che era stata liberata dal terrore del regime dello Stato Islamico due anni fa con una lotta comune della nostra gente. Ancora una volta stiamo assistendo ad attacchi congiunti dell’esercito turco e dei loro mercenari jihadisti contro Serêkani, Girêsipi e Kobane. Questi sono solo alcuni degli incidenti che abbiamo affrontato da quando Erdogan ha dichiarato guerra il 9 ottobre 2019. Mentre stiamo assistendo al primo passo dell’attuazione dell’operazione di pulizia etnica genocida della Turchia, assistiamo anche all’eroica resistenza delle donne, degli uomini e dei giovani che alzano la loro voce e difendono la loro terra e la loro dignità. Per tre giorni i combattenti delle Forze siriane democratiche, insieme alle YPG e alle JPY hanno combattuto con successo in prima fila per impedire l’invasione della Turchia e dei massacri. Donne e uomini di tutte le età sono parte di tutti gli ambiti di questa resistenza per difendere l’umanità, le acquisizioni e i valori della rivoluzione delle donne in Rojava. Come donne siamo determinate a combattere fino a quando otterremo la vittoria della pace, della libertà e della giustizia. Per ottenere il nostro obiettivo contiamo sulla solidarietà internazionale e la lotta comune di tutte le donne e gente che ama la libertà”.

E’ accaduto nel 2019, sembra un tempo remoto. Nessuno se ne ricorda più…Ancora una volta, traditi, dimenticati. Che il 2020 sia per loro e per tutti migliore di quello che ci siamo lasciati alle spalle…

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Valter Vecellio

Valter Vecellio

Nato a Tripoli di Libia, di cui ho vago ricordo e nessun rimpianto, da sempre ho voluto cercare storie e sono stato fortunato: da quarant'anni mi pagano per incontrare persone, ascoltarle, raccontare quello che vedo e imparo. Doppiamente fortunato: in Rai (sono vice-caporedattore Tg2) e sui giornali, ho sempre detto e scritto quello che volevo dire e scrivere. Di molte cose sono orgoglioso: l'amicizia con Leonardo Sciascia, l'esser radicale da quando avevo i calzoni corti e aver qualche merito nella conquista di molti diritti civili; di amare il cinema al punto da sorbirmi indigeribili "polpettoni"; delle mie collezioni di fumetti; di aver diretto il settimanale satirico Il Male e per questo esser finito in galera... Avrò scritto diecimila articoli, una decina di libri, un migliaio di servizi TV. Non ne rinnego nessuno e ancora non mi sono stancato. Ve l'ho detto: sono fortunato.

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