Una giornalista uccisa da un’autobomba nell’area rurale di una piccola isola: troppi e troppo scomodi i fatti da lei raccontati; ben più di qualche ombra addensatasi sul governo maltese guidato dal premier Joseph Muscat, accusato di interferenze politiche nelle indagini sull’assassinio della reporter 53enne, avvenuto il 16 ottobre 2017.
Migliaia le persone che, più di due anni dopo, si sono riversate in strada per chiedere che, una volta per tutte, si faccia piena luce sull’attentato che vedrebbe coinvolti membri di spicco dell’esecutivo. A gran voce i maltesi hanno chiesto le dimissioni del Primo ministro, il quale, cedendo alle pressioni delle proteste popolari, ha annunciato in televisione che, sì, lascerà il suo incarico, ma solo a metà gennaio, dopo la nomina del suo successore.

Un tempo prezioso, un tempo denso di significato quello che intercorre tra la fine del 2019 e l’inizio del nuovo decennio. Che non può e non deve lasciare indifferenti quanti professano la loro fede nelle istituzioni democratiche e in quella che più di altre dovrebbe tenerne assieme e incarnarne i principi, l’Unione europea.
“Gli sviluppi registrati negli ultimi anni a Malta hanno portato a gravi e persistenti minacce a Stato di diritto, democrazia e diritti fondamentali”, si legge nella risoluzione non legislativa sul caso Caruana Galizia approvata dal Parlamento europeo lo scorso 18 dicembre con 581 Sì, 26 No e 83 astensioni. Nel testo si afferma che, finché il premier Muscat resterà in carica, sussisterà il rischio di compromettere le indagini sull’assassinio e si fa esplicito e circostanziato riferimento alle accuse di corruzione e riciclaggio di denaro contro il Primo ministro maltese, membri del suo governo e della sua famiglia, imprese private e persone a esse collegate. Gli eurodeputati si dicono inoltre preoccupati per il rispetto della libertà degli organi di stampa, dell’indipendenza di polizia e magistratura e della libertà di riunione pacifica.
“La mancanza di sicurezza dei giornalisti e la riduzione dello spazio della società civile a causa delle molestie e delle intimidazioni stanno pregiudicando il controllo sul potere esecutivo e compromettendo l’impegno civico dei cittadini”. Più in generale, “persistono serie preoccupazioni”, si legge ancora nel documento, sulla “lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata a Malta”.
Quel che succede nel piccolo staterello ha, in effetti, implicazioni tutt’altro che minimali. Vale la pena fare un passo indietro per ripercorrere, sia pur sommariamente, le vicende che poco più di due anni fa hanno portato al sorprendente epilogo. Fatti che tutt’oggi hanno importanti riverberi sul Vecchio Continente.
Malta, anticamera dell’Europa. Centro e periferia, al contempo, di un groviglio d’illeciti che la penna di Daphne Caruana Galizia, sull’onda dell’inchiesta Panama Papers, ha provato a sbrogliare con la forza di ricostruzioni basate sui dati, frutto di uno scrupoloso lavoro giornalistico che mirava a svelare le connessioni non dette.

Quelle che, sul suo blog, spiegava raccontando la corruzione ai più alti livelli, fra tangenti, attività bancarie illecite e conti offshore aperti da strettissimi collaboratori del Primo ministro. Senza contare il grande business dei passaporti maltesi – e dunque Ue – venduti dal governo agli stranieri facoltosi, con vantaggi legati a una tassazione favorevole e alla possibilità di sfuggire a sanzioni internazionali.
A tal proposito, nella risoluzione della settimana scorsa il Parlamento europeo ha chiesto al governo di La Valletta “l’eliminazione dei programmi di soggiorno e cittadinanza per investitori” oltre che un’indagine internazionale indipendente sull’impatto di tali vendite sulle capacità maltesi di contrastare il riciclaggio, su altri tipi di criminalità transfrontaliera e sulla stessa integrità dello spazio Schengen.
Sul suo diario virtuale, Running commentary, la giornalista aveva pubblicato anche una serie di articoli che accusavano la moglie di Muscat di possedere una società offshore attraverso cui la stessa avrebbe ricevuto un milione di dollari dalla figlia del presidente dell’Azerbaijan. Tutte rivelazioni che, sommate, Daphne pagherà al prezzo più alto.
Passano appena poche settimane dal suo omicidio e la polizia arresta dieci uomini, tre dei quali vengono incriminati lo scorso luglio come esecutori materiali del delitto. Ben poche informazioni emergono, però, circa i mandanti dell’attentato, mentre le indagini sembrano arenarsi. Intanto sia il Consiglio d’Europa, organizzazione con sede a Strasburgo ma non direttamente collegata all’Ue, sia la famiglia di Daphne Caruana Galizia, criticano aspramente le autorità maltesi e chiedono vengano garantite indagini efficaci e indipendenti.
Pochi mesi fa, la prima svolta.
A settembre il governo di La Valletta affida al giudice Michael Malla l’indagine. Un mese dopo viene arrestato il tassista-usuraio Melvin Theuma, sospettato di avere fatto da intermediario fra il presunto mandante e gli assassini della giornalista. In cambio d’informazioni corroborate da prove in tribunale, Theuma chiede e ottiene la grazia: indica dunque quale principale mandante dell’omicidio l’imprenditore Yorgen Fenech, tra gli uomini più ricchi di Malta. Il 20 novembre scorso, Fenech finisce in manette mentre a bordo di uno yacht tenta di abbandonare le acque territoriali dell’isola.
L’imprenditore – che avrebbe pagato (o perlomeno provato a pagare) delle tangenti a membri del governo maltese in cambio di una concessione per costruire una centrale elettrica – avrebbe anche sovvenzionato con 150 mila euro l’assassinio della giornalista che, nei suoi articoli, poco prima di morire, lo aveva accusato di aver fatto pressioni sull’esecutivo per aggiudicarsi l’appalto, rivelandone la proprietà di un fondo segreto a Panama.
Reuters ha identificato Fenech come il proprietario di una compagnia con base a Dubai costituita per effettuare pagamenti per più di 1,5 milioni di euro verso due conti offshore aperti dall’ex capo dello staff del primo ministro Joseph Muscat, Keith Schembri, e da Konrad Mizzi, all’epoca ministro dell’Energia, poi al Turismo maltese – conti della cui esistenza Caruana Galizia aveva per prima dato notizia quando aveva passato al setaccio le conclusioni dei Panama Papers nel 2016.
L’arresto di Fenech coinvolge anche il ministro dell’economia Chris Cardona, accusato insieme agli altri di avere favorito l’imprenditore nei suoi affari e di avere depistato le indagini sull’assassinio della reporter. Fenech, dal canto suo, si è dichiarato non colpevole, accusando invece l’ex braccio destro di Muscat, Schembri, di essere la vera mente dell’attentato. Muscat stavolta rifiuta di firmare la grazia chiesta dall’imprenditore in cambio di rivelazioni sull’omicidio.
Se Schembri e Mizzi lasciano i loro incarichi ministeriali a fine novembre, Cardona si autosospende per poi essere reintegrato da Muscat. Una decisione che il figlio di Daphne Caruana Galizia, Matthew, ha definito: “insana e imperdonabile”.
Il 17 dicembre l’ultimo atto: un nuovo mandato d’arresto per Keith Schembri (già fermato e interrogato dalla polizia poche ore dopo le sue dimissioni, il 26 novembre scorso) in seguito alla sua mancata presentazione in tribunale come testimone sull’assassinio della giornalista.

Reticenze, insabbiamenti, l’isola dei divertimenti riflette allo specchio la sua anima più nera. Ma ogni giorno in più che passa, con Muscat e i suoi al potere, rappresenta non soltanto per Malta, ma per l’Europa tutta, una grave sconfitta. Quello che sta succedendo sull’isola, scrive l’Atlantic, è “l’esempio più lampante dei fallimenti dello stato di diritto e della separazione dei poteri nell’Europa occidentale”. Uno stato dei fatti denunciato anche da uno schiacciante rapporto del Consiglio d’Europa che quest’anno ha descritto Malta come un Paese dove il Primo ministro ha troppa influenza sulla nomina dei giudici e sul capo della polizia. Mentre l’indice mondiale della libertà di stampa di Reporter senza frontiere 2019 colloca Malta al 77esimo posto, un arretramento considerevole rispetto al 65esimo del 2018 e al 47esimo del 2017. Caso “isolano”, ma non isolato fra gli Stati Ue.
La partita che si gioca a Malta è, in effetti, nel piccolo, la partita dell’Europa. Un assetto d’istituzioni e valori che subisce indebolimenti su più e più fronti. Dove gli attentati e le minacce alla libertà di stampa e gli incontrollati livelli di corruzione in seno ai governi cosiddetti democratici sono le manifestazioni più gravi e sottotraccia. E dove le mafie in tutte le loro forme trovano terreno fertile: da Malta passando per la Slovacchia e gli altri Paesi dell’est Europa, fino all’Olanda e al resto del continente che, da occidente a oriente, da nord a sud, fa inoltre i conti con le mille ramificazioni della ‘ndrangheta.
Mafie che seguono la via del “Money first”, i soldi prima di tutto, i quali – sempre attuale la grande intuizione del giudice Giovanni Falcone – non sono mai invisibili, ma lasciano tracce. Mafie che, in un’Europa finora incapace di mostrarsi strategicamente compatta e unita di fronte alle reali minacce che ne logorano le fondamenta, trovano vie e modi più o meno nuovi di connaturarsi agli Stati “legittimati” dal volere popolare.
“Quando si privilegia in modo così esclusivo lo sviluppo economico, si finisce per consentire a chiunque di operare in ogni settore, senza che vi siano i controlli adeguati – commenta il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Federico Cafiero de Raho, nello Speciale Tg1 dedicato anche a Daphne Caruana Galizia – Un Paese democratico dovrebbe anzitutto assicurarsi dei soggetti economici che vi operano. A Malta non c’è questo controllo: cresce nel Pil, ma in realtà è un Paese che viene invaso dalle organizzazioni criminali”.
Le ultime righe postate dalla reporter maltese, uccisa davanti casa da una bomba piazzata nella sua Peugeot 108 una domenica pomeriggio di due anni e due mesi fa, ci danno la cifra del clima nel quale Daphne continuava a operare, sia pure fra mille difficoltà: “Ci sono criminali ovunque, da qualunque parte io guardi, in questo momento. La situazione è disperata”.

Dal quel 16 ottobre, non tutto è rimasto inerte. C’è chi ha deciso che il suo lavoro non potesse andare perduto, come la rete internazionale di testate e giornalisti dietro al Daphne project.
Solo poche settimane fa, migliaia di cittadini liberi hanno deciso fosse necessario scendere ancora in strada per gridare il loro sdegno e inchiodare il governo alle sue responsabilità. In prima fila, il primogenito della reporter, Matthew, che non ha mai arretrato nella lotta per la verità, pur di fronte a campagne d’odio e numerose querele per diffamazione, arrivate anche da parte del governo maltese e dello stesso premier, contro la famiglia Caruana Galizia: “Finché non si dimette, useremo tutti i mezzi legali per far sì che Muscat non abbia ulteriori coinvolgimenti nelle indagini e nel procedimento penale, se non come possibile sospetto”.
Una lotta (spesso impari) fra onestà e giochi di potere, fra persone e sistemi. In un’Europa che di “eroi” e di martiri non può davvero più permettersene alla vigilia del 2020. Men che meno tra le fila di chi come unica missione ha quella di informare l’opinione pubblica, sentinella vigile di una società che si sgretola, sotto il peso delle falsità imbastite senza troppa arte e di una corruzione che non conosce argini né battute d’arresto.
“Il lavoro di un giornalista non dovrebbe mai significare mettere a repentaglio la propria vita, se non forse nel caso di un inviato di guerra; ma anche in quel caso – commenta Matthew Caruana Galizia – non un giornalista deve morire, perché non è un soldato. Il giornalismo non dovrebbe essere una professione che richiede quel prezzo”.