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La giornata dei due Russiagate: a unire America e Italia è la propaganda 2.0

Nel giorno delle due audizioni di Robert Mueller al Congresso, Giuseppe Conte riferiva su Moscopoli al Senato con un grande assente: Salvini

Giulia PozzibyGiulia Pozzi
La giornata dei due Russiagate: a unire America e Italia è la propaganda 2.0

Robert Mueller durante la sua testimonianza e Giuseppe Conte mentre riferisce al Senato.

Time: 6 mins read

È stata la giornata del Russiagate, o meglio dei Russiagate, mercoledì 24 luglio, da un lato all’altro dell’Oceano. A partire dalla mattina americana, il pomeriggio italiano, Robert Mueller, già procuratore speciale che per ben due anni ha indagato sulle interferenze russe nelle elezioni americane – e sul ruolo di Trump in tutto ciò –, ha testimoniato di fronte a due Commissioni del Congresso – quella giudiziaria e quella di intelligence della Camera – sulle conclusioni della sua inchiesta-bomba ampiamente presentate nel suo rapporto da 448 pagine. Intanto, intorno alle 16.30 italiane, a 6000 km di distanza, Giuseppe Conte, premier italiano, entrava nell’aula del Senato per riferire la posizione del Governo in merito allo scandalo ribattezzato “Moscopoli” sui presunti finanziamenti illeciti russi alla Lega.

Due vicende diverse tra loro, ma che hanno un evidente minimo comune denominatore: il ruolo della Russia – pur con diverse sfumature – nell’interferire nelle vicissitudini delle democrazie occidentali e nel costruire rapporti con partiti o esponenti che si riferiscono all’area sovranista e nazionalista. Da una parte, interferenze, provate, nelle elezioni presidenziali della più grande democrazia del mondo; dall’altro, trattative tra privati che potrebbero aver avuto come risultato, ancora non provato, finanziamenti illeciti al partito del vicepremier. Quello che, a detta di tutti, è il vero leader del Governo italiano: Matteo Salvini. Per la cronaca, il leader del Carroccio ha disertato il luogo dove la democrazia si realizza per eccellenza, il Parlamento, e ha preferito affidare la propria farraginosa autodifesa in una diretta Facebook.

Negli States, invece, a presentarsi a Capitol Hill è stato il super-procuratore Mueller, da tempo restio a testimoniare, come richiesto dai democratici, in quanto convinto della esaustività del suo mastodontico report. Il punto è proprio questo, ed è forse l’elemento sul quale maggiormente si possono tracciare parallelismi da un lato all’altro dell’Oceano: un conto è quello che compare sui documenti ufficiali; altro conto è ciò che viene raccontato e recepito dall’opinione pubblica. Perché in effetti, quando il report è stato pubblicato e rivisto dal Dipartimento di Giustizia (che ha censurato informazioni reputate sensibili), quello che l’Attorney General William Barr ha comunicato all’opinione pubblica è stata l’assoluta assenza di elementi che potrebbero far ritenere Trump responsabile di collusione con i russi e di ostruzionismo alla giustizia. Una interpretazione che – ha detto più volte Mueller – non corrisponde a verità. E per cambiare quella percezione del “no collusion” e della “caccia alle streghe” di cui Trump si è fatto forte in questi mesi, ai democratici non serviva un report di 448 pagine – che pure, in effetti, potrebbe spianare la strada all’impeachment –: serviva un “film”, un “live show” a cui tutti gli americani potessero assistere.

Questo “film” è andato in scena mercoledì 24 luglio. Nelle prossime ore si capirà che effetti avrà avuto sul gradimento di Trump, sul destino del Presidente e sull’iniziativa politica dei democratici. Certo è che gli americani hanno potuto vedere con i propri occhi e sentire con le proprie orecchie Mueller confermare che il motivo per cui non ha incriminato Trump per ostruzione alla giustizia risiede soltanto nei limiti imposti dalla consuetudine dell’Office of Legal Counsel, che chiede di non incriminare un Presidente in carica: sarebbe stato, ha spiegato, incostituzionale. Ma alla domanda se sarà possibile farlo quando Trump lascerà l’Ufficio Ovale, l’ex super-procuratore ha risposto di sì. Mueller ha anche confermato i vari tentativi di Trump di ostacolare l’indagine, compresa la richiesta al proprio staff di falsificare informazioni che sarebbero potute risultare rilevanti per l’inchiesta: “L’ostruzione alla giustizia è in forte contraddizione con il cuore dello sforzo del governo a trovare la verità e ad assicurare alla giustizia chi ha sbagliato”, ha affermato.

C’è da dire già ora – mentre scriviamo la seconda audizione è ancora in corso – che “il film” che i democratici hanno visto non è, probabilmente, quello che avrebbero voluto vedere. Perché Mueller si è mostrato fortemente riluttante a uscire dai confini del suo mastodontico report, ha rifiutato di esprimersi chiaramente sull’impeachment, si è mostrato tanto rigoroso quanto poco “televisivo”, fortemente calato nelle sue vesti da (ex) procuratore speciale e restio a semplificare il linguaggio a uso e consumo dei titoli di giornale. Al punto che, mentre lui testimoniava, il presidente Trump ha avuto gioco piuttosto facile nel falsificare le sue parole, affermando: “A Mueller hanno chiesto se le indagini sono state ostacolate in qualche modo, e ha risposto di no. In altre parole, non c’è stato ostruzionismo”. In realtà, il procuratore speciale ha affermato che i tentativi presidenziali di ostacolare le indagini non hanno avuto esito positivo.

“Mueller was asked whether or not the investigation was impeded in any way, and he said no.” In other words, there was NO OBSTRUCTION. @KatiePavlich @FoxNews

— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) July 24, 2019

Di questi tempi, insomma, tra la verità e la menzogna c’è di mezzo un oceano che si chiama comunicazione (o meglio propaganda) digitale. Lo stesso medium, non a caso, usato dalla Russia per interferire nelle elezioni americane. In questo ambito, la propaganda populista sembra resistere alle coperture giornalistiche più scrupolose – che anzi sempre più hanno l’effetto di disaffezionare l’audience –, e alle operazioni di debunking più tenaci. Si guardi all’Italia. Giuseppe Conte, in Senato, ha sostanzialmente riferito che Savoini, fedelissimo di Salvini già “scaricato” dal vicepremier, fu invitato e inviato nelle varie delegazioni che hanno partecipato a incontri con personalità russe – in Russia e in Italia – sempre e solo dall’ufficio di Salvini.  In pratica, ha inchiodato l’alleato di Governo alle sue responsabilità, pur senza ancora sfiduciarlo. Eppure, mentre lo faceva, il diretto interessato si collegava con i suoi numerosi follower in diretta Facebook, per descriversi come l’uomo del “fare”, in opposizione ai vari perditempo impegnati in quella che Trump avrebbe definito una “caccia alle streghe”. E, ricorrendo alla consueta tecnica retorica dell’enumerazione – perfetta per distrarre dall’argomento principale e dare l’impressione di efficienza e affidabilità –, ha sciorinato una lista di cose fatte e cose da fare, priorità politiche da opporre al “fumo” del Russiagate nostrano.

Intanto, i media raccontavano la protesta dei senatori grillini che hanno lasciato l’aula per l’assenza di Salvini, sì, ma soprattutto per il via libera di Conte alla Tav, le solite beghe in casa Pd che hanno relegato l’intervento di Renzi a un Facebook live, e Di Maio, anche lui sul social di Zuckerberg, annunciava battaglia sull’alta velocità Torino-Lione, limitandosi a definire “assurda” l’assenza di Salvini in Parlamento.

Che cosa è rimasto del Russiagate italiano, nel marasma della comunicazione 2.0? La risposta potrebbero fornircela i sondaggi di questi giorni, che vedono una Lega non minimamente toccata dallo scandalo. Il popolo del web, il popolo, sempre più esteso, che vede in Salvini l’unico “uomo del fare”, lo ha detto chiaramente: vuole sentir parlare di Bibbiano, non di presunti rubli che, se anche ci fossero stati, sarebbero giunti dalla patria dell’ammirato Putin – e che male ci sarebbe, in fondo –. A quel popolo, i 49 milioni diventati 18 o i presunti scandali russofili non interessano; perché la domanda sarà sempre: “e allora, il Pd?”. Un Pd che è evidentemente assente, fragile, diviso, poco credibile, e totalmente incapace di fare opposizione.

Che cosa è rimasto del Russiagate americano, invece? Nei prossimi giorni capiremo di più. Quel che è certo è che, a differenza che in Italia, dall’altro lato dell’Oceano la sinistra c’è. C’è una campagna elettorale in corso portata avanti da candidati compattatisi su posizioni progressiste; ci sono giovani galvanizzati dalle nuove leve al Congresso – le stesse che Trump ha invitato senza giri di parole a “tornarsene a casa loro” –. C’è una compagine democratica che sta prendendo in considerazione l’impeachment, per il quale, probabilmente, ci sarebbero gli estremi. Ma il Paese è diviso; la sovracopertura mediatica dello scandalo delle interferenze russe ha finito per abbassare la soglia dell’attenzione dell’opinione pubblica e per “disinnescarne” la portata, e non a caso, proprio oggi, Russia Today titolava: As Mueller’s ‘book’ becomes a live show from The Hill, is America sick of ‘Russiagate’?, Mentre il “libro” di Mueller diventa uno show da Capitol Hill, l’America si è stufata del Russiagate?.

Soprattutto, in America c’è un Presidente che ha educato i suoi supporter a non scandalizzarsi di nulla, ad abbassare la propria soglia critica fino ad annullarla, ad acclamare ciò che è politicamente, giuridicamente, eticamente scorretto in quanto “vero” e “verace”. Ci aveva visto lungo Trump, all’epoca semplice candidato che pochi pensavano avrebbe potuto vincere, nel constatare: “Potrei stare in mezzo alla Quinta Strada e sparare a qualcuno, e non perderei nemmeno un elettore”. Allo stesso modo, nel mondo della propaganda online e della comunicazione istituzionale da social, un vicepremier della Repubblica italiana può permettersi di non presentarsi in Parlamento per riferire su uno scandalo che sta assumendo contorni inquietanti, e sul quale la magistratura sta indagando, certo che i suoi elettori non gliela faranno pagare. Nel nome del consenso al di sopra di consuetudini politiche, etica, norme sociali, leggi, limiti costituzionali.

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Giulia Pozzi

Giulia Pozzi

Classe 1989, lombarda, dopo la laurea magistrale in Filologia Moderna all'Università Cattolica di Milano si è specializzata alla Scuola di Giornalismo Lelio Basso di Roma e ha conseguito un master in Comunicazione e Media nelle Relazioni Internazionali presso la Società Italiana per l'Organizzazione Internazionale (SIOI). Ha lavorato come giornalista a Roma occupandosi di politica e affari esteri. Per la Voce di New York, è stata corrispondente dalle Nazioni Unite a New York. Collabora anche con "7-Corriere della Sera", "L'Espresso", "Linkiesta.it". Considera la grande letteratura di ogni tempo il "rumore di fondo" di calviniana memoria, e la lente attraverso cui osservare la realtà.

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