I raid per arrestare ed espellere duemila immigrati illegali condannati per reati vari sono in corso in diverse città degli Stati Uniti da questo week-end. Lo conferma l’ufficio federale dell’Immigration Custom Enforcement, l’Ice, il ghiaccio, come con malvagio umorismo nero è stata ribattezzata con questo acronimo l’agenzia federale che li sta conducendo. L’obiettivo, secondo la Casa Bianca che li ha ordinati, è l’arresto e l’espulsione degli illegali condannati dalle “Immigration Courts”.
Le retate sono in corso a New York, Los Angeles, Chicago, San Francisco, Miami e Boston.
“L’operazione è stata avviata– afferma Ken Cuccinelli, il temporaneo direttore del servizio per l’Immigrazione e la naturalizzazione – non facciamo altro che eseguire gli ordini d’arresto spiccati dalla magistratura”.
La battaglia è politica. Nessuno, né democratici né repubblicani, vuole un criminale condannato a piede libero. Ma il momento, e il modo in cui la decisione dei raid è stata presa, lo sono. Da sottolineare che il presidente Obama espulse molti più illegali condannati per reati di quanti ne abbia allontanato finora questa amministrazione.
Tutto inizia dal “muro” di Donald Trump, quello che avrebbe costruito con i soldi messicani e dalla riforma della legge per l’immigrazione.

L’America è un Paese fondato sull’immigrazione. I “nativi” americani sono recintati nelle loro roulotte in alcune riserve nelle zone più desolate del Paese. Tutto il resto è immigrazione voluta o forzata come nel caso dei neri. Ci sono americani di più generazioni, ma tutti hanno un Paese originario di provenienza dei nonni o dei bisnonni. Nella rada di New York si erige il monumento più bello del mondo: quello che da il benvenuto e ringrazia milioni di emigranti. Una statua, quella di Lady Liberty, che rappresenta l’accettazione, l’amicizia, la speranza a chi cerca lavoro, fortuna, opportunità, a chi scappa dalle persecuzioni e dalle carestie. Proprio come fecero i nonni di Trump che vennero dalla Germania e dall’Irlanda.
Un Paese con queste fondamenta ora, quasi improvvisamente, diventa xenofobo e da la caccia ai “clandestini”. Ma quello che è peggio è che questa Amministrazione, nonostante tutti i rapidissimi cambiamenti della società americana, non vuole cambiare la legge sull’immigrazione che entrambi i partiti vorrebbero fare. Un primo timido e parziale cambiamento era stato presentato ad inizio del 2018 con la riforma del DACA, il Deferred Action for Childhood Arrivals, cioè l’amnistia per i giovani che erano stati portati clandestinamente negli Stati Uniti dai genitori. Circa 700 mila giovani perfettamente integrati nella società Americana. Per ora in un limbo giudiziario per un ordine esecutivo del president Obama. Una riforma voluta e approvata in commissione da repubblicani e democratici, ma affondata dalla Casa Bianca che voleva come parte integrante di questa riforma la costruzione del muro. Una mossa del presidente per cercare di dare credibilità alle sue promesse elettorali e mantenere e consolidare il rapporto con la sua base.
Niente muro, niente riforma, questo il messaggio della Casa Bianca al Congresso. E così il braccio di ferro tra Casa Bianca e democratici continua e con i raid di queste ore tanto per aumentare la pressione.
Molti sindaci democratici, a cominciare da quello di New York, Bill De Blasio, hanno detto che non aiuteranno gli agenti federali negli arresti. De Blasio ha detto che lo slogan di Trump “Make America Great Again”, in realtà si traduce con “Make America Hate Again” (Fai di nuovo odiare all’America). Il leader della maggioranza democratica alla Camera dei Rappresentanti, Nancy Pelosi, ha detto che Trump deve fermare queste retate e pensare ad una politica immigratoria che rifletta i valori degli Stati Uniti”.
La polemica si è poi inaspettatamente infuocata per una serie di messaggini razzisti mandati dal presidente col suo account twitter ad alcune parlamentari appartenenti a minoranze etniche. Prese di mira, tutte donne, senza fare esplicitamente il loro nome, le congresswomen Alexandria Ocasio-Cortez di New York, Rashida Tlaib del Michigan, Ilhan Omar del Minnesota e Ayanna Pressley del Massachusetts. In pratica il presidente gli dice di tornare nei loro paesi di origine infestati dalla criminalità e dalla corruzione. E che così facendo faranno un piacere alla leader del partito Nancy Pelosi. Ovviamente le parlamentari sono tutte americane.
Pelosi ha così replicato a Trump, sempre via twitter, accusandolo di razzismo. Prima Pelosi aveva twittato “Respingo i commenti xenofobi… invece che attaccare membri della Camera il presidente dovrebbe lavorare con noi per politiche dell’immigrazione che riflettano i valori americani”. Per poi in un secondo twitt rinforzare il suo attacco a Trump così: “Quando @realDonaldTrump dice a quattro deputate americane di tornarsene al loro paese, riafferma che il suo piano di “Make America Great Again” (Fare l’America di nuovo Grande, ndr) è stato in realtà sempre quello di fare l’America ‘white again’ (di nuovo bianca)”. “La nostra diversità” ha concluso Pelosi, “è la nostra forza e la nostra unità è il nostro potere”.
Intanto anche le deputate avevano replicato a Trump: “Mr. President noi ci battiamo per proteggere il paese dal peggiore, più corrotto e inetto presidente che si sia mai visto” ha scritto Omar. Trump “è furioso perché non accetta un paese che possa includere anche noi, non accetta che l’America ci ha eletto e che non abbiamo paura di lui” ha scritto Ocasio-Cortez.
Il presidente con i suoi tweet si è inserito in una polemica che sta profondamente dividendo il Partito democratico. Le quattro parlamentari, erano fino a ieri molto insoddisfatte della leadership della Pelosi che, secondo loro, non aveva fatto molto per contrastare il bullismo politico del presidente. Per ora sembrerebbe che i messaggini del presidente abbiano sortito l’effetto contrario, riunificando il Partito democratico.
Infine al Queens c’è stata la parata colombiana nella zona di Washington Heights, una zona a forte immigrazione sudamericana, e quest’anno, forse sarà stato un caso, ma c’erano poche persone per strada.