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No, sull’ostruzione alla giustizia il report di Robert Mueller non salva Trump

La voluta semplificazione assolutoria di William Barr non offre un quadro completo del report: per la stampa USA, è una roadmap all'impeachment

Giulia PozzibyGiulia Pozzi
No, sull’ostruzione alla giustizia il report di Robert Mueller non salva Trump

Foto di kai kalhh da Pixabay.

Time: 6 mins read

A giudicare dalla conferenza stampa “preventiva” di William Barr, ministro della Giustizia, e dal vittorioso tweet-parodia di Game of Thrones di Donald Trump, si potrebbe dedurre che il rapporto Mueller sui tentativi russi di influenzare le elezioni presidenziali 2016 non contenga alcuna informazione compromettente sul Presidente. In effetti, l’interpretazione di Barr si potrebbe riassumere in una dichiarata assenza di evidenze su collusione e ostruzione alla giustizia, e tradurre in una totale “assoluzione” del Presidente. In realtà, a voler leggere diffusamente il plico di oltre 400 pagine pubblicato oggi dal Dipartimento di Giustizia (con tanto, però, di informazioni sensibili annerite), si ottiene una fotografia un po’ diversa dei risultati di 2 anni di indagini in cui il Procuratore Speciale Robert Mueller ha cercato di capire se davvero vi sia stata connivenza con i russi nell’entourage trumpiano, e se davvero il Commander-in-Chief abbia cercato di ostacolare l’indagine stessa.

La stampa americana – la stessa che in questi mesi ha seguito con evidente interesse (Trump direbbe “speculato”)  gli sviluppi dell’inchiesta e che in queste ore è impegnata a scandagliare il documento pagina per pagina – sembra aver ricevuto dalla lettura un’impressione totalmente diversa rispetto alla sintesi assolutoria di Barr. Partiamo da The Atlantic: secondo il giornalista Yoni Appelbaum, il rapporto è praticamente un invito all’impeachment. Le evidenze presenti del documento, sulle quali Mueller non si è voluto pronunciare definitivamente vista la delicatezza della questione, sarebbero cioè sufficienti di per sé per aprire un procedimento di impeachment nei confronti del Commander-in-Chief per ostruzione alla giustizia. Il solo motivo per cui Trump, in prima istanza, l’ha “scampata” sarebbe insito al funzionamento stesso del sistema giudiziario americano, basato, cioè, sul principio secondo cui ogni cittadino ha diritto a ricevere protezione e difesa dalle accuse penali che riceve. Ecco perché quelle dirette a un Presidente in carica dovrebbero essere esaminate non dal Dipartimento della Giustizia, ma dal Congresso. La decisione del Procuratore di astenersi da un tradizionale giudizio, in parole povere, non equivale a una assoluzione, ma deriva dall’accettazione del parere espresso dall’Office of Legal Counsel secondo cui un Presidente in carica non può essere condannato. Ecco l’ostacolo che ha obbligato il Procuratore Speciale ad astenersi da un giudizio definitivo: normalmente, un’accusa di condotta criminale si tradurrebbe in “un processo rapido e pubblico, con tutte le protezioni procedurali che richiede un caso pensale”. Ma se Mueller avesse dichiarato chiaramente che, a suo giudizio, Trump aveva infranto la legge e ostacolato la giustizia, visto che un Presidente in carica non può essere incriminato, non avrebbe offerto alcuna opportunità di contraddittorio davanti a un giudice imparziale. Trump, cioè, non avrebbe avuto la possibilità di presentarsi davanti a una corte, e quindi neppure l’opportunità di ripulire il proprio nome, cioè di difendersi.

pic.twitter.com/222atp7wuB

— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) 18 aprile 2019

Anche il New York Times è convinto che nel rapporto ci sia ben più di quello che Barr ha lasciato intendere. Quel documento, scrive Mark Mazzetti, certifica gli sforzi del Presidente ad ostacolare l’inchiesta sul Russiagate. Non è un caso che gli investigatori di Mueller abbiano cercato di rettificare la semplificatoria interpretazione delle 400 pagine offerta il mese scorso dal Ministro della Giustizia: “Se avessimo avuto la sicurezza, dopo una approfondita investigazione, del fatto che il Presidente non abbia commesso alcuna ostruzione alla giustizia, lo avremmo stabilito”. E hanno aggiunto: “Basandoci sui fatti e sugli standard legali vigenti, non siamo in grado di formulare quel giudizio”. Il Procuratore Speciale ha affermato che Trump aveva, in effetti, l’autorità di prendere molte delle sue decisioni più controverse e contestate, tra cui il licenziamento di James B. Comey, ex direttore dell’FBI, in virtù dei poteri che la Costituzione gli concede. Allo stesso tempo, quello che emerge dal rapporto è un ritratto molto più inquietante rispetto a quello tracciato nella sintesi di quattro pagine presentata da Barr il mese scorso. “I fatti sono spesso avvenuti attraverso incontri individuali in cui il Presidente ha cercato di usare il proprio potere ufficiale al di fuori dei canali consueti”, afferma il rapporto. “Queste azioni spaziavano dagli sforzi per rimuovere il Procuratore Speciale e per invertire l’effetto della ricusazione del Procuratore Generale, al tentativo di usare il proprio potere ufficiale per limitare la portata dell’indagine, fino ai contatti diretti e indiretti con testimoni, con il possibile effetto di influenzare la loro testimonianza. Osservare globalmente gli atti può aiutare a chiarirne il significato”. Tra gli episodi riferiti, quello che descrive un Trump terrorizzato alla notizia della nomina del Consulente Speciale per condurre l’indagine sul Russiagate: “Dio mio. È terribile”, ha detto. “Questa è la fine della mia presidenza. Sono fottuto”.

Non solo. Il Washington Post ha posto l’accento sul fatto che Mueller “ha categoricamente respinto le argomentazioni avanzate dagli avvocati di Trump secondo cui il Presidente è protetto dalle leggi sull’ostruzione alla giustizia dal suo ruolo e dai suoi poteri costituzionali unici”. “La Costituzione non rende categoricamente e permanentemente immune il Presidente”, si legge nel rapporto, in una fitta sezione di analisi legale. Il documento descrive anche un “significativo cambiamento nella condotta del Presidente” dopo il licenziamento del direttore dell’FBI James B. Comey, e dopo essersi reso conto che gli investigatori si stavano concentrando sul fatto che il suo comportamento equivalesse a un’ostruzione alla giustizia. Il rapporto afferma anche che gli investigatori hanno riscontrato ampie prove di azioni e di intenti volti a influenzare le indagini, come quando Trump ha incaricato l’avvocato della Casa Bianca Donald McGahn di rimuovere il Consulente Speciale, proprio mentre chiedeva a Sessions di limitare la portata dell’investigazione all’interferenza russa nelle elezioni.  La “connessione temporale”, afferma Mueller, “suggerisce che entrambe le azioni sono state compiute con uno scopo correlato”.

Un quadro confermato anche da Politico, secondo cui una implicazione del rapporto “è che Trump potrebbe aver scampato l’evidenza di ostruzionismo alla giustizia solo perché i suoi principali aiutanti si sono rifiutati di portare a termine i suoi ordini più eclatanti”. Mueller, in effetti, lo afferma chiaramente: “Gli sforzi del Presidente per ostacolare le indagini sono stati per lo più infruttuosi, ma ciò è dovuto in gran parte al fatto che le persone che circondavano il Presidente non hanno accettato di eseguire ordini o di acconsentire alle sue richieste”.

Insomma: sul fatto che il report del Procuratore Speciale sia una “roadmap all’impeachment”, come scrive The Intercept,  sembrano d’accordo molti dei principali media americani. Bisogna però anche sottolineare che le ipotesi di un Trump “spia dei russi” sembrano cadere per mancanza di evidenze. La “pistola fumante”, cioè, non è tanto il punto su cui, inizialmente, i media si erano concentrati – e quindi il “Russiagate” di per sé –, ma piuttosto i tentativi del Presidente di ostacolare le indagini a suo carico.

Da sottolineare anche un altro aspetto. Coloro che, fidandosi della sintesi di Barr e dei tweet del Presidente, in queste ore dipingono i media americani come “ciarlatani” che per due anni hanno pubblicato articoli basati sul nulla non stanno rendendo buon servizio alla realtà. Si può certo discutere su come, quanto e in che termini il cosiddetto Russiagate sia stato raccontato, e sul destro che possa aver offerto a Trump – proprio come era accaduto in campagna elettorale – nel dipingersi come vittima di una stampa “nemica del popolo”; ma, come anche la prestigiosa Columbia Journalism Review sottolinea, bisogna pure rilevare che il rapporto di Mueller conferma pienamente il contenuto di molti dei servizi pubblicati negli ultimi 23 mesi: dal New York Times al Washington Post, da Bloomberg alla CNN, tanti degli scoop che hanno fatto parlare l’America si sono rivelati accurati. Certo: chi pensava che la sola inchiesta di Mueller avrebbe potuto distruggere il Presidente, e chi giurava che sarebbero stati i suoi presunti legami con la Russia a farlo scivolare, dovrà ricredersi. Ma attenzione: ciò non significa che quello del Procuratore Speciale sia un rapporto assolutorio. Leggetelo anche voi: vi accorgerete che non lo è affatto.

 

 

 

 

 

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Giulia Pozzi

Giulia Pozzi

Classe 1989, lombarda, dopo la laurea magistrale in Filologia Moderna all'Università Cattolica di Milano si è specializzata alla Scuola di Giornalismo Lelio Basso di Roma e ha conseguito un master in Comunicazione e Media nelle Relazioni Internazionali presso la Società Italiana per l'Organizzazione Internazionale (SIOI). Ha lavorato come giornalista a Roma occupandosi di politica e affari esteri. Per la Voce di New York, è stata corrispondente dalle Nazioni Unite a New York. Collabora anche con "7-Corriere della Sera", "L'Espresso", "Linkiesta.it". Considera la grande letteratura di ogni tempo il "rumore di fondo" di calviniana memoria, e la lente attraverso cui osservare la realtà.

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