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Immigrati: i sindaci contro Salvini? In America da tempo disubbidiscono a Trump

Mentre in Italia i sindaci si ribellano alla legge sulla sicurezza voluta da Salvini, ecco come quelli americani hanno già replicato ai decreti di Trump

Dario CellibyDario Celli
Immigrati: i sindaci contro Salvini? In America da tempo disubbidiscono a Trump

La mappa con le città degli Stati Uniti che si sono dichiarate "rifugio" per gli immigrati irregolari

Time: 5 mins read

Ci sono New York, San Francisco, Los Angeles e Miami.

Ma anche San Diego, Washington, Chicago, Denver e Dallas.

E poi ancora Portland, Austin, Detroit, Phoenix, Seattle, Salt Lake City, Rochester (NY).

Ma l’elenco sarebbe lunghissimo, visto che le “Sanctuary City” americane (la cui traduzione più corretta è “Città rifugio”) sono più di 500.

Si tratta di Stati, o città o contee che – dopo i decreti (tentati) del Presidente Donald Trump che imponevano l’identificazione, l’arresto e la successiva espulsione degli immigrati illegali che lavorano negli Stati Uniti – hanno risposto “picche”, vietando alla Polizia locale di collaborare con il Servizio Immigrazione Centrale del Governo Federale di Washington.

Rifiutandosi innanzitutto di consegnare eventuali liste di loro residenti privi di documenti regolari.

Sette sono gli Stati USA la cui Polizia locale non persegue gli immigrati per il solo fatto di essere irregolari:

California,

Colorado,

Illinois,

Massachusetts,

New Mexico,

Oregon

e Vermont.

158 sono le Contee.

E moltissime le città (guardare la mappa in alto).

Oltre a queste, centinaia di altre cittadine, piccole e medie.

96 di queste sono in California,

28 nello Stato di New York,

26 in Florida,

23 in Pennsylvania,

20 in New Jersey,

13 in New Mexico e così via fino ad arrivare a oltre 300.

Un fronte che cresce giorno dopo giorno.

Poi ci sono le scuole e le Università.

Non ci sono statistiche ufficiali in merito ai ragazzi “illegali” che frequentano le scuole, ma si sa che negli Stati Uniti, ogni anno, 65mila giovani stranieri senza documenti si diplomano nelle scuole superiori USA.

Ancor di più sono quelli che frequentano i “Sanctuary campus”: quelle università americane, cioè, che accettano e proteggono i loro studenti stranieri privi di documenti.

Per iscriversi alle quali, basta compilare un modulo on line.

E bon.

Una mappa dei “Sanctuary Campus” universitari negli USA

Si tratta, in questo caso, di un numero incredibile di giovani, di persone: basti pensare che soltanto in uno di questi  campus – l’East Los Angeles College – secondo quanto dichiarato dal Preside Marvin Martinez quasi tremila dei cinquemila studenti iscritti sono privi di documenti.

Già, proprio così.

E ora tenetevi forte: pensate che si stima che gli studenti “illegali” che frequentano regolarmente college e università degli Stati Uniti, affrontando quotidianamente lezioni ed esami, oggi siano fra i 200mila e i 225mila.

(Avete letto bene: tra duecentomila e duecentoventicinquemila!)

2500 dei quali solo in California.

Studenti che in Italia qualcuno si ostinerebbe certamente a chiamare ancora “clandestini”, mentre in America vengono definiti, pensate un po’…, “dreamers”.

“Sognatori” che studiano in università come la Columbia University di New York;

o la Portland State University, di Portland, Oregon;

o la California State University (nella quale ci sono 23 Campus…);

o la Loyola University di Chicago, e così via fino a 201.

Tante sono, infatti, le Università americane che accettano studenti senza documenti (ma con la voglia di studiare) rifiutandosi di collaborare con l’Immigrazione.

E questo nonostante i tagli punitivi a queste università dei finanziamenti federali voluti dal Presidente Trump.

Denise Simmons, sindaco di Cambridge, (Massachusettes), non mostra alcuna incertezza:

“A novembre abbiamo ribadito che rimarremo ‘città santuario’, offrendo protezione a chi ha scelto Cambridge per risiedervi, fino al giorno in cui potrà diventare cittadino”.

E oggi non ha cambiato idea.

Come non l’ha cambiata Ed Murray, sindaco di Seattle:

“La Costituzione americana è chiara, a questo proposito: tutti gli arresti devono essere giustificati, e la nostra Polizia locale  non può essere costretta a far rispettare le leggi federali in materia di immigrazione”.

Ritorna indietro con gli anni, il sindaco di Seattle: “Non abbiamo insomma alcuna intenzione di permettere ciò che accadde durante la Seconda Guerra Mondiale, quando il  Governo Federale impose di scovare e rinchiudere cittadini della nostra città solo perché nati in Italia o in Germania”; nazioni che, com’è noto, erano in guerra con gli Usa.

“Il Quarto Emendamento è chiaro, appunto”.

Una “guerra” legale a colpi di carta bollata che finora ha visto sconfitto per ben due volte il Presidente Donald Trump: entrambi i suoi due decreti “anti immigrati”, infatti, sono stati impugnati e bocciati da vari Giudici Federali americani perché ritenuti “discriminatori”, poiché riguardavano esclusivamente persone di religione musulmana visto che le nazioni interessate erano Iran, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen.

Trump che, in realtà, è stato sconfitto non due ma, anzi, tre volte: perché anche il successivo tentativo dell’attuale Presidente americano di “vendicarsi” economicamente con quelle città – tagliando i fondi che il Governo di Washington è tenuto a versar loro (quattro miliardi di dollari per il solo 2017 utilizzati soprattutto per istruzione, trasporti, giustizia e sicurezza) – è stato poi “stoppato”.

Questa volta da William H. Orrick, giudice federale di San Francisco, che ha accolto il ricorso presentato dai sindaci di San Francisco e di Santa Clara: “I fondi federali – ha scritto nella sua sentenza – non hanno nessuna relazione significativa con l’applicazione di politiche migratorie: non possono essere messi a rischio solo perché una giurisdizione sceglie di mettere in atto una strategia sulla politica migratoria che il presidente non approva”.

Bill De Blasio con la sua famiglia durante una manifestazione a New York (foto da Wikimedia)

“Si trattava di un ordine esecutivo che avrebbe potuto mettere in pericolo la sicurezza pubblica, rendendo i nostri quartieri meno sicuri”, ha aggiunto il sindaco di New York, Bill De Blasio, nipote di italiani emigrati della provincia di Benevento.

“E questo perché potrebbe minare il rapporto di fiducia tra il nostro dipartimento di polizia e le nostre comunità, fattore che è stato il fondamento della nostra capacità di ridurre il crimine”, ha continuato De Blasio, che rischiava di vedersi tagliare qualcosa come 250 milioni di dollari l’anno.

E che ha poi concluso affermando: “Non deporteremo coloro che rispettano la legge. Non separeremo le famiglie”.

I decreti del Presidente Trump hanno poi contemporaneamente provocato da una parte un maggior attivismo delle polizie locali – i cui dipendenti sono stati autorizzati ad avvisare, anche in forma anonima, i funzionari dell’Immigrazione – dall’altra la mobilitazione di normali cittadini, che in queste settimane stanno mettendo in atto azioni di disobbedienza civile non-violenta.

Come ospitare nella propria abitazione (o nella propria cantina o nella soffitta) immigrati irregolari, dando loro così un rifugio sicuro.

Consci della difficoltà del momento, le amministrazioni locali hanno anche deciso di modificare i propri bilanci comunali: come quella di Chicago, che ha accolto la proposta del sindaco Rahm Emanuel  di stanziare un milione di dollari in più sotto la voce “assistenza degli immigrati”.

Il duro confronto e la contrapposizione fra Governo centrale e amministrazioni locali stupisce non poco noi italiani.

Ma gli americani sono “geneticamente” insofferenti ai controlli  dello Stato centrale, ai controlli di Washington.

Un sentimento nato ai tempi della guerra di indipendenza dei coloni, che hanno preso a schioppettate i soldati dell’Impero Britannico, la madrepatria che pretendeva pesanti balzelli dal loro lavoro nel Nuovo Mondo.

Negli Stati Uniti, l’autonomia delle amministrazioni locali dal Governo centrale è considerata uno dei dati fondanti della Nazione, una realtà sacrosanta, intoccabile e non discutibile.

Insomma, tempi duri, questi, per Donald e le sue guerre.

Trump che vede allontanarsi anche la sua proposta più populista e propagandistica: il muro lungo il confine fra gli Stati Uniti e il Messico.

Che oggi le voci più ottimistiche indicano che costerebbe qualcosa come 66miliardi di dollari.

Un costo enorme per i contribuenti.

Kellyanne Conway, consulente del Presidente Trump, ha ammesso che “non ci sono le condizioni politiche per far rientrare la proposta nella legge di bilancio al voto questa settimana”.

Se ne parlerà – “eventualmente”, ha detto – più avanti.

Eventualmente, appunto.

Queste dichiarazione risale, infatti, al maggio 2017 e da allora non è stato ancora costruito un metro in più di muro con il Messico.

 

Questo articolo è stato pubblicato nel maggio del 2017 sul blog di Dario Celli  “Aria Fritta”

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Dario Celli

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