Chi scrive è stato a Lampedusa – a raccontare i drammi dell’immigrazione di chi vede in noi l’America più vicina – un paio di volte in questi ultimi anni. La prima fu quando il “Centro d’accoglienza” era ancora nell’area dell’aeroporto dell’isola, anche se – ovviamente – lontano dagli spensierati sguardi dei turisti, comprensibilmente affamati di sole, di mare e di vuoto pneumatico nel cervello; almeno per quella manciata di giorni di vacanza.
La notte precedente era avvenuto uno dei primi massicci sbarchi nell’isola: non appena arrivati mi recai alla spiaggia dove era ancora arenato il barcone con il quale gli immigrati erano salpati dalla Libia. Sulla sabbia, scarpe spaiate, indumenti, una copia del Corano. Poi andammo al “Centro d’Accoglienza”, pur sapendo che era “off limits” per troupe televisive e giornalisti: vietato I’ingresso, vietate ogni tipo di riprese, financo quelle esterne anche se lontane, anche per riprendere soltanto il cancello d’ingresso sorvegliato dai Carabinieri o da un picchietto militare armato. Manco fosse stata una caserma o una prigione.
Brutta faccenda: c’è sempre qualcosa che non va in una società dove alla stampa viene impedito in qualche modo di fare il suo mestiere.
Con l’operatore decidemmo di “rubare” le immagini: che poi significava semplicemente riprendere di nascosto solo qualche muro esterno e niente più. Dopo un nuovo tentativo davanti all’ingresso, fui respinto in malo modo (“Allora vuole proprio che la identifichiamo, eh?”). Aggirai l’ostacolo con le stellette grazie ad un cittadino di Lampedusa che mi fece salire sul terrazzo all’ultimo piano del suo condominio, da dove qualcosa “si vedeva”. “Eccome se le sentiamo, ogni tanto, le grida di qualcuno. Non vedo l’ora che vadano via da qui: un giorno la mia bambina più piccola mi ha chiesto: ‘Ma papà, cosa vuol dire ‘help!'?”
Quel giorno, la situazione al Centro di Lampedusa (che burocraticamente si chiama CPTA, “Centro di permanenza temporanea e assistenza”, ma che ha anche funzione di “Centro di primo soccorso e smistamento” dei migranti, sia irregolari che “richiedenti asilo”) era tutto sommato tranquilla: i circa 300 immigrati ospiti dovevano dividersi 186 posti. Ma questa non era certo una novità.
Da quel terrazzo riprendemmo un’accozzaglia di povere persone sdraiate a terra, indumenti appesi alla bell’e meglio al sole ad asciugare, qualcuno che telefonava ad alta voce, mentre altri si lavavano nudi all’aperto a fianco di chi pregava, in ginocchio, rivolto a La Mecca.
Consulto l’archivio dell’Ansa: dopo aver immesso le parole “rivolta” e “Lampedusa” escono 519 notizie.
Una delle prime è del luglio 1998, quando dopo i primi arrivi venne ristrutturata alla bell’e meglio un’area inutilizzata dell’aeroporto di Lampedusa: vennero ricavati 186 posti di ricovero.
Il 25 luglio di quell'anno la prima "rivolta", che in realtà fu una gigantesca rissa fra i 147 immigrati sbarcati 11 giorni prima sull’isola: “Una rissa per contendersi un panino”, si legge nella notizia.
Il giorno dopo, altra notizia, alle 23,01: “Incidenti Centro Accoglienza Agrigento; feriti”. “A differenza della ex base dell’aeronautica di Lampedusa, dove ieri sera gli immigrati hanno dato vita ad altri incidenti lamentando una situazione di disagio, il Centro di accoglienza di Agrigento è dotato di tutti i comfort e garantisce pasti caldi ai 300 extracomunitari”. “Lamentando una situazione di disagio”. C’è proprio scritto così nella notizia.

Una immagine di scontri a Lampedusa tra forze di polizia e immigrati nel settembre del 2011
Ergo, nel Centro d’Accoglienza di Lampedusa questi “comfort” non erano esistenti.
Qualche minuto dopo, alle 00,52, altra notizia Ansa dal titolo inequivocabile: “Immigrazione: i centri di accoglienza diventano ‘polveriere’”.
Il 30 luglio 1998 l’appello del deputato dei Verdi Paolo Cento: “I centri di accoglienza per gli immigrati clandestini rischiano di somigliare ‘sempre più a moderni lager’ con i diritti umani e civili dell’individuo ‘al di sotto della soglia di accettabilità”. L’inascoltato deputato Cento (una testa calda, il solito estremista…) concludeva con un appello rivolto ai ministri competenti nel quale chiedeva che fosse migliorata “ la qualità dell’accoglienza”.
Quel giorno, 146 immigrati rinchiusi nel centro giunti al 16° giorno di “detenzione” appiccarono il fuoco all’interno di un container e tentarono la fuga: per 16 giorni nessuno entrò nel Centro per compiere le doverose verifiche sulle loro singole richieste di “asilo”.
"Tentare la fuga"… A Lampedusa? Una ipotesi che fa quasi tenerezza, se si tiene conto che l’isola è una specie di triangolo che misura poco meno di 11 chilometri di lunghezza per 3 chilometri e mezzo di larghezza, nel suo punto maggiore. Un pescatore mi raccontò che un giorno trovò “due di questi extracomunitari” in giro per i suoi campi e questi, in inglese e a gesti, gli chiesero “dove fosse la stazione con il treno per la Germania”. Erano sbarcati la notte precedente, e gli scafisti si guardarono ben dal dir loro che li avevano scaricati su un’isola. Peraltro più vicina all’Africa che all’Italia.
Dopo quella volta, il Centro d’Accoglienza di Lampedusa fu riconvertito in “stazione di transito” degli immigrati che, in Sicilia, avrebbero poi dovuto essere “smistati” per la loro destinazione definitiva.
Correva il 1998, a Palazzo Chigi c’era Romano Prodi, il cui Governo varò la legge firmata dai ministri Turco e Napolitano. Da notare l’illuminata dichiarazione dell’allora sottosegretario agli Interni Giannicola Sinisi (ex Dc, poi Ulivo, poi Margherita) secondo il quale il Centro d’accoglienza di Lampedusa ha “paradossalmente fatto bene al turismo perché ha stroncato il ‘randagismo’ di clandestini degli anni passati” (Ansa, 30 luglio 1998, ore 20,08). Usò proprio questo termine: ”randagismo".
Quella del luglio ’98 fu la prima rivolta in un Centro di “Accoglienza” italiano: i container dove gli immigrati erano rinchiusi furono gravemente danneggiati per protesta, e le forze dell’Ordine intervennero con lancio di lacrimogeni . Con il gas che entrò nell'aeroporto e nelle case vicine.
Alla fine gli “ospiti” furono tutti trasferiti in Sicilia, ad Agrigento.
17 di questi mancati “randagi” vennero arrestati, e colui che era stato considerato “il capo della rivolta” (“dai suoi comportamenti” dichiarò un dirigente delle forze dell’Ordine) morì in cella. “Era detto ‘il cinese’ per i suoi occhi a mandorla”, racconta l’Ansa. All’ospedale giunse alle 4,35 già senza vita.
Si chiamava Saber Abdelh, e cinese non lo era affatto: di nazionalità tunisina, Il suo corpo non è mai stato reclamato ed è sepolto da qualche parte nel cimitero di Agrigento.
Soltanto in quel mese furono decine le rivolte e i tentativi di “evasione” nei Centri di “Accoglienza” siciliani:
29 luglio: Caltanissetta; 30 luglio: nuovamente Lampedusa; 1 agosto: Termini Imerese; 1 agosto: Siracusa; 5 agosto: Caltanissetta; 6 agosto: Catania.
Ritenuto inadeguato il Centro di Lampedusa, venne deciso di costruirne uno nuovo: più grande, più moderno, a misura “più umana”, in vere e proprie strutture murarie e non più ricavate da container o hangar dismessi dell’aeroporto. E magari anche lontano dal paese e dagli occhi dei turisti che atterravano nell’isola delle Pelagie.
Fui inviato a Lampedusa per capire qualcosa di più del nuovo progetto e se fosse già in via di costruzione: tutto era, infatti, circondato da un poco comprensibile segreto. Inutile dire che dalle autorità militari del vecchio Centro non ricevetti alcuna indicazione, nemmeno sulla sua futura ubicazione: “Assolutamente 'top secret'”, mi fu detto. Ma era un italianissimo “segreto di Pulcinella”: fu infatti sufficiente chiedere informazioni al primo passante per trovarne la strada. Era lontano dal centro abitato, lontano dalla costa, in un piccolo avvallamento in aperta campagna: località Contrada Imbriacola, luogo di un vecchio deposito militare. Da una vicina collinetta riuscimmo a riprendere un paio di costruzioni malmesse, un camion militare e, all’ingresso, un picchetto armato.
Non ci nascondevamo e fummo visti, e una camionetta militare ci raggiunse poco dopo. Un tenente ci chiese chi fossimo, i documenti, il tesserino professionale, quello aziendale e cosa avevamo ripreso. Io dissi la verità, che dovevo fare un servizio sul costruendo Centro d'Accoglienza. Ci intimò di consegnargli la cassetta delle riprese e di allontanarci dalla zona. Anche se non eravamo in “zona militare”.
Controllò di aver scritto bene i nostri nomi e i nostri dati, e se ne andò con il suo bottino di guerra: la videocassetta con le riprese. O meglio, quella che credeva fosse, visto che con un gioco degno di un prestigiatore l’operatore gli aveva consegnato una cassetta “vergine”, con nulla di registrato.
Ma anche il nuovo Centro risultò ben presto inadeguato. Certo, forse non tutti gli immigrati che vi passarono all’interno erano degli “stinchi di santo”, ma è evidente che il sovraffollamento era come benzina, sul fuoco dell’esasperazione.
Potrei andare avanti per pagine e pagine: se inserisco le parole “immigrati”, “Lampedusa” e “rivolta”, dall’archivio dell’Ansa escono 2062 notizie.
D’altronde basta leggere alcune cifre.
Agosto 2005: 190 posti, 409 persone.
Dicembre 2005: 190 posti, 780 persone.
Luglio 2006: 190 posti, 600 persone.
Sovraffollamento e condizioni igieniche drammatiche che farebbero saltare i nervi anche a Giobbe.
A fine giugno 2007 venne finalmente inaugurata la nuova struttura di Contrada Imbriacola: il progetto parlava di 320 posti letto – che all’occorrenza potevano diventare 650 – stanze per quattro persone, separate per uomini, donne e bambini, aria condizionata, una infermeria, strutture per i luoghi di culto.
Ma il 24 gennaio 2009, 850 posti dovevano essere divisi 1800 immigrati giunti soprattutto dalla Tunisia, fuggiti dal Paese in guerra.
Il problema, in Italia (come quasi tutti i problemi) venne affrontato con la solita ottica emergenziale.
Ma soprattutto “elettorale”: dar l’impressione che sia in corso una “invasione” da sud, dall’Africa, paga eccome, dal punto di vista elettorale.
Quello dell’allarme “clandestini”, unitamente all’allarme terrorismo, è stato il “cavallo di battaglia” del Centrodestra: forse quello più efficace, che ha fatto vincere due elezioni a Silvio Berlusconi. Che durante il suo secondo Governo, nel 2002, varò la nuova legge sull’immigrazione, la “Bossi-Fini”, dai nomi dei due estensori allora alleati di Governo.
Vennero introdotte norme restrittive per l’ingresso degli stranieri in Italia – anche sul “diritto di asilo”, come fece notare Amnesty International – e istituiti i Cie (Centri di identificazione ed espulsione) nei quali gli immigrati giunti in Italia irregolarmente possono essere detenuti fino a un anno e mezzo anche senza aver commesso alcun reato. La nuova legge rese poi particolarmente cavillose le norme per ottenere il regolare Permesso di Soggiorno, e ne aumentò, tra l’altro, la tassa.
L’inasprimento delle norme, non solo non ha favorito la diminuzione dei “clandestini” (anzi, molti immigrati rimangono in Italia anche a Permesso di Soggiorno scaduto), ma non è riuscita nemmeno a frenarne il flusso: nei primi sette mesi del 2013, per esempio, sulle coste italiane sono arrivate 12.000 persone. Il 175% in più rispetto al 2012.
Il continuo bombardamento mediatico non ha fatto altro che aumentare la “sindrome di accerchiamento” fra gli italiani: basta chiedere per strada un’opinione su quanti siano gli stranieri in Italia. La realtà è che nel nostro Paese la percentuale è di molto inferiore a quella di Germania, Gran Bretagna, Francia e Spagna.
E, infatti, i servizi sugli sbarchi, sui “micro-sbarchi” nei tg si moltiplicano ad ogni edizione, dando appunto l’impressione all’opinione pubblica che fosse in corso una lenta e costante pericolosa invasione.
In questo clima, a gettare benzina sul fuoco, ci si mise anche un ministro della Repubblica, che propose la sua ricetta: “I barconi degli immigrati dovrebbero essere respinti a colpi di cannone” (Umberto Bossi, ministro per le Riforme Istituzionali, 16 giugno 2003, intervista al Corriere della Sera). Che dopo essersi accorto di averla sparata grossa, parzialmente si corresse affermando di essere stato frainteso (come sempre…) e che le malandate imbarcazioni degli immigrati avrebbero dovuto essere solo “abbordate in mare aperto”.
E mentre nei tg continuavano ad essere presenti ogni giorno servizi sui micro sbarchi, si continuava a nascondere all’opinione pubblica ciò che gli stessi ministri ammettevano.
Fra i miei vecchi appunti, ho trovato ciò che trascrissi il 24 maggio 2006 a Lampedusa, quando il ministro per la Solidarietà Sociale Paolo Ferrero (governo Prodi) visitò per la prima volta il Centro: “L’80 % degli immigrati irregolari in Italia, sono entrati regolarmente, con un visto turistico. Solo il 20% entrano, o tentano di entrare, in modo clandestino”.
Tre anni dopo, quasi a malincuore, lo ammise in aula alla Camera e poi in tv anche il ministro degli Interni del governo Berlusconi, il leghista Roberto Maroni, il cui partito da sempre enfatizza gli arrivi degli immigrati con i barconi: “Solo il 20% dei clandestini arriva via mare. Il resto arriva da canali regolari che poi diventano irregolari. Come il visto turistico per tre mesi” (“In mezz’ora”, Raitre, 31 maggio 2009).
Proprio come succede negli Stati Uniti per gli italiani clandestini negli Usa.
A Lampedusa, dunque, arrivano gli immigrati più sprovveduti, ignari di quello che li attende, e dopo aver pagato gli scafisti più del doppio di quanto a loro sarebbe costato un normale biglietto aereo.
E fu sempre il ministro Ferrero, nel 2006, a rendere noto per la prima volta che l’Italia riceve dall’Unione Europea poco più che 60 €uro al giorno per ogni immigrato che arriva sulle sue coste.
Ma sono soldi che riceve l’Italia, non certo il singolo immigrato.

Il ministro degli Interni Angelino Alfano
L’altro giorno, il ministro dell’Interno, Alfano – dopo le immagini riprese all’interno del Centro di Lampedusa trasmesse dal Tg2 e che hanno fatto il giro del mondo-– si mostrava incredulo e costernato: “Sono metodi inaccettabili. Lampedusa non può essere considerata una ‘zona franca’. Chi ha sbagliato pagherà”, ha assicurato.
C’è da chiedersi dove siano stati finora coloro che si sono tanto scandalizzati di fronte alle immagini diffuse dal Tg2.
In questi anni, le notizie apparse sui giornali sull’inadeguatezza dei Centri di Accoglienza sono centinaia. Senza tenere conto di quelle che si occupano delle “rivolte” degli ospiti.
Ma nessuno degli indignati di oggi si è mai chiesto perché mai queste persone, gli immigrati rinchiusi nei Centri, si rivoltano? Persone che sono costretti a rimanere “recluse” “per controlli” fino ad un anno e mezzo…
Si tratta solo di persone capricciose, impazienti e viziate?
Il ministro Alfano, che forse avrebbe solo dovuto leggere i giornali.
Che so, il Corriere della Sera del 10 aprile 2012, il cui titolo riassume l’articolo di Raffaella Cosentino: “Viaggio dentro ai Cie tra pestaggi, psicofarmaci e strani suicidi”.
Oppure, il 13 maggio 2013, la denuncia dell’associazione “Medici per i diritti umani”: “Condizioni di vita inumane, peggio del carcere” (La Repubblica, 13 maggio 2013, di Corrado Zunino).
Oppure cioè che il 17 agosto del 2013 ha denunciato – a proposito dei Cie -niente meno che il sindacato di Polizia Sap: “La situazione è esplosiva”.
O bastava leggere la relazione della Corte dei Conti del 2003, secondo la quale il trattamento dei Centri “è per taluni aspetti deteriore rispetto a quello riservato ai detenuti nelle strutture carcerarie”.
O il documento diffuso dall’Unione delle Camere Penali del giugno 2013, dove si legge di stranieri che “vivono in condizioni di totale degrado e di completa negazione dei diritti fondamentali dell’individuo. Vera e propria detenzione in assenza delle garanzie e dei diritti previsti dalla legge”.
O la denuncia degli agenti di polizia (che dipendono proprio dal ministero di Alfano): “I Cie sono lager disumani, le condizioni igieniche pessime per i reclusi e per ci vi lavora; le rivolte che continuano a diffondersi in tutta Italia sono la logica conseguenza di regole sbagliate e strutture fatiscenti” (Felice Romano, segretario generale Siulp).
Oppure farsi tradurre dall’inglese l’articolo del New York Times, la cui giornalista Elisabetta Povoledo solo qualche mese fa (16 giugno 2013) scriveva: “I Centri di accoglienza in Italia sono crudeli (…). In particolare quello di Ponte Galeria, alle porte di Roma, la cui differenza con una prigione e soltanto ‘semantica’”.
O la denuncia (maggio 2013) di “Medici per i diritti umani” sulle condizioni di vari Cie: come quello di Lamezia Terme, nel quale “gli immigrati vengono chiusi in una gabbia di ferro quando devono radersi”.
Oppure il dettagliato rapporto di Amnesty International dell’ottobre 2013, dove si leggeva che l’Italia “deve assicurare che tutte le strutture ricettive siano operative e adeguatamente dotare per fornire assistenza ai migranti e ai richiedenti asilo, con particolare attenzione ai gruppi vulnerabili: donne e bambine a rischio, e anziani e persone sopravvissute alla violenza e alla tortura”. L’Italia deve garantire, continua Amnesty International, che “le persone non siano espulse collettivamente o altrimenti allontanate prima che sia data loro la reale possibilità di contestare, qualora vogliano farlo, la decisione di allontanarle”.
Denunce pubbliche che non sono riuscite a modificare nella sostanza la posizione dei Governi in materia d’immigrazione, che sembrano quasi tendere ad alimentare diffidenza e intolleranza da parte dell’opinione pubblica.
D’altronde se per mesi, per anni, le persone costrette dalla miseria, dalla guerra, dalla morte incombente a lasciare la propria famiglia, la propria casa, il proprio Paese, vengono “dipinte” come giornali e tv hanno fatto, contribuendo ad alimentare diffidenza, paura, aggressività e repulsione; se per anni sono stati definiti “clandestini” anche coloro che chiedevano soccorso telefonando dalle proprie sgangherate imbarcazioni (e che “clandestini” possono mai essere visto che si vedevano benissimo e certamente non si nascondevano?); se per anni è stata usata la generica definizione “extracomunitari” per i migranti, divenuta discriminatoria nel momento in cui lo stesso termine non viene MAI usato quando ci si riferisce a svizzeri, norvegesi, americani e canadesi; forse non stupisce che alcuni poveri dipendenti di quella cooperativa siciliana che aveva il compito di gestire il Centro di “accoglienza” di Lampedusa (molti dei quali, peraltro, probabilmente professionalmente non qualificati, precari e malpagati) abbiano trattato in quel modo quelle povere persone.
Quei poveretti, quei dipendenti della Cooperativa di Lampedusa, sono stati solo il braccio esecutivo, il braccio “ultimo” (anzi, il primo, quello del “benvenuto”) di una cultura, di un atteggiamento politico, che per anni ha dominato questo Paese.
Ma tutto questo lo possiamo scrivere solo perché, questa volta, la realtà è stata ripresa da una telecamera della Rai. Altrimenti, questo o quel politico italiano avrebbe dichiarato che tutto, nei Centri per immigrati, pur nelle difficoltà quotidiane, si svolge rispettando la legge italiana e norme internazionali.
Oggi tutti sanno che non è – anzi che non è mai stato – così.
* Dario Luigi Maria Celli è Caposervizio – Media Management al Tg2 – Rai
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