La sollecitazione viene da una carissima amica, Maria Antonietta Farina Coscioni, la vedova di Luca. Mi ricorda che il 20 dicembre del 2006 è il giorno della morte di Piero Welby: di quando, prigioniero di un corpo che non sente più suo, pur amando fortissimamente la vita in tutti i suoi molteplici aspetti, decide di andarsene “altrove”, immagino voglia suggerirmi e dirmi qualcosa; e non sono troppo sicuro di corrispondere al suo pensiero, al suo “sentire”.
Perché mi viene da pensare al cardinale Gianfranco Ravasi: un grande intellettuale, oltre che uomo di chiesa (cattolica) e di gerarchia; i suoi articoli, i suoi interventi, i suoi libri sono lettura preziosa anche laici 24 carati. Monsignor Ravasi tempo fa celebra, presso la chiesa parrocchiale di Pasturo vicino Lecco, una messa in favore della poetessa Antonia Pozzi. Antonia muore suicida il 3 dicembre del 1938, ha appena 26 anni, quando decide di andarsene anche lei, “altrove”. Una messa in favore di una suicida? Ravasi in persona spiega perché: “Celebro questa messa perché l’atteggiamento che la Chiesa ha attualmente nei confronti dei suicidi presta molta attenzione alle dimensioni interiori della tragedia. Se l’evento drammatico nasce da una superficialità o è causato dal disprezzo dei valori della vita, allora evidentemente non può essere oggetto di una celebrazione esplicita. Ma la Pozzi rappresenta il caso di una persona dotata di forte spiritualità e di intensa ricerca interiore, travolta da una sensibilità estrema”. Detto in modo più volgare, sintetico: la Chiesa non accetta il suicidio razionale; tuttavia per altre situazioni, si fa interprete misericordiosa.
Non è stata generosa la vita con Antonia: figlia di un avvocato milanese e della contessa Lina Lavagna Sangiuliani, nipote di Tommaso Grossi, si uccide con barbiturici. La famiglia nega la circostanza “scandalosa” del suicidio, attribuendo la morte a polmonite. Il testamento viene distrutto dal padre, che interviene anche sulle poesie. Alcuni versi sono rivelatori: “…Ma tutta l’acqua mi fu bevuta, o Dio,/ ed ora dentro il cuore/ ho una caverna vuota/ cieca di te./ Signore, per tutto il mio pianto/ ridammi una stilla di Te,/ ch’io riviva…”.
Ancora Ravasi: “Celebrerò la messa anche per essere vicino a tutte quelle persone sensibili che sentono dentro di sé un vuoto e una domanda…”.
La misericordia: un valore che dovrebbe essere universale, valido per credenti e non credenti, o diversamente credenti. Come non ricordare (arrivo a un punto dolente, allora e tuttora), che a una persona, certamente dotata di una intensa spiritualità, seppur laica e non conforme ai canoni del dogma d’oltretevere – Piergiorgio Welby – il vicariato di Roma nega i funerali religiosi? Come dimenticare che quell’estremo momento di consolazione per la madre e la moglie di Piergiorgio sono negati in nome di una ragione “politica” a tutti evidente, anche se di difficile comprensione? In virtù di quella manifestazione di debolezza intollerante, i funerali si celebrano laicamente, sulla piazza San Giovanni Bosco, con la chiesa sbarrata; e sono alcune piccole, anonime, suore a portare quel conforto che la Chiesa di Roma tetragona nega, assieme a una folla in cui certamente tanti erano i credenti. Welby ama la vita, e a un certo punto, stremato, chiede solo che sia messa la parola fine a quella che vita non è, ma solo sofferenza e inutile, insopportabile tormento.
Rileggiamolo insieme quel freddo comunicato del Vicariato: “In merito alle richieste di esequie ecclesiastiche per il defunto dott. Piergiorgio Welby, il Vicariato di Roma precisa di non aver potuto concedere tali esequie perché, a differenza dei casi di suicidio nei quali si presume la mancanza delle condizioni di piena avvertenza e deliberato consenso, era nota, in quanto ripetutamente e pubblicamente affermata, la volontà del dott. Welby di porre fine alla propria via, ciò che contrasta con la dottrina cattolica (vedi il Catechismo della Chiesa Cattolica, nn.2276-2283-2324-2325). Non vengono meno però la preghiera della Chiesa per l’eterna salvezza del defunto e la partecipazione al dolore dei congiunti”.
Compariamo quello scritto (e non deve sfuggire la puntigliosa, miope, leguleia elencazione di codicilli), alle parole di monsignor Ravasi: che pur nella disapprovazione, non esprimono condanna (forse nella consapevolezza che chi giudica sarà a sua volta giudicato, chi condanna sarà a sua volta condannato?); è stridente la differenza di forma, e dunque sostanza; e di questa differenza ci si rallegra. Ma eminenza Ravasi, ci dica: anche Piergiorgio dovrà attendere 74 anni, prima che ci sia, anche per lui, una parola, un gesto, di comprensione e di misericordia?
Non ho parlato di Marco Pannella e del Partito Radicale che a Webby e alla sua famiglia è stato vicino, con misericordia; avrei dovuto, lo so. Non ho chiesto a chi leggerà queste note di iscriversi al Partito Radicale, così che si raggiunga entro l’anno quota 3000 iscritti, e così si continui a tenere alta quella bandiera che Welby ha innalzato. Non ho ricordato la nobilissima lettera inviata all’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, e la sua altrettanto nobile e commossa risposta (chi vuole la cerchi su intenet); non ho parlato delle lotte e delle iniziative parlamentari in corso, perché ai tanti Welby che ci sono, senza voce, nome e volto, sia assicurata, se lo vogliono, quella misericordia, quella compassione, che a Piergiorgio è stata negata. Di tanto e tante cose non ho parlato, ne sono consapevole. Fatelo voi che avete letto queste righe: proseguitelo voi, il discorso, come sapete, come potete, come volete. Perché non si smarrisca il ricordo e la conoscenza di Piergiorgio; e per tutti noi.