“Mamma son tanto felice perché ritorno da te, la mia canzone ti dice che è il più bel giorno per me. Mamma son tanto felice, viver lontano perché?”. E già, perché poi?
“Vale, che vuoi mangiare a pranzo?”, grida mia madre dal soggiorno. “Fai tu mamma, per me è lo stesso”. (Che tanto qualunque cosa è meglio dei filetti surgelati che infilavo in forno per 35 minuti e mal digerivo). Ah, che meraviglia svegliarsi alle 10 nel proprio letto soffice! Anche le occhiaie paiono ridotte rispetto a una settimana fa. Dedico cinque minuti buoni a stendere la crema viso. Fra due mesi avrò 30 anni: meglio prevenire che curare. Da quando poi quell’alunno mi ha chiesto: “Prof, ma lei ha una figlia?”, un lieve cedimento psicologico ammetto di averlo avuto. Anche perché in matematica il tizio se la cava niente male. Una figlia ci starebbe tutta. La mia espressione, a metà tra l’indignazione e lo sconcerto nel recepire la domanda, ha però a che fare con una crisi d’identità ben più profonda.
‘Prof’, mi chiama. Alt: sono prof da circa due minuti e mezzo. Da quando, cioè, mi hanno mandato una mail, mentre guardavo l’ennesima replica di Grey’s Anatomy, scrivendomi che avevo 24 ore per scapicollarmi in un centro della “velenosa” Brianza (Battisti zitto, per carità, mi metti ansia!) e prendere servizio in un istituto professionale. “Non è la tua prima supplenza, vero?”, ti dicono in segreteria. Qualche firmetta qua e là, e giù nell’arena. “Good morning, guys! Sono la vostra nuova insegnante d’inglese”. O almeno, lo sarò per un paio di mesi. Alla sesta classe di fila, lo ripeto con tale vigore da esserne ormai convinta anch’io. Poco importa se negli ultimi dieci anni ho faticato per fregiarmi del titolo di giornalista – carta d’identità e tesserino non mentono, e nemmeno il conto in rosso della banca! È un lavoro, mi ripeto, pagato decentemente per l’Italia, con un nobilissimo scopo. Lanciatori di sedie, aspiranti piromani, seguaci di Sfera Ebbasta con tanto d’insulto in freestyle, non vi temo!
Due mesi dopo, rieccomi parcheggiata da mamma e papà. La supplenza mi ha messa a dura prova: se penso a quelli che saranno gli adulti di domani (con le dovute, rincuoranti eccezioni), preferisco sorbirmi i monologhi anni ’90 dell’adolescente protagonista di Dawson’s Creek.

Ho la pagina Linkedin aperta insieme a mille gruppi Facebook del tipo “Cerco/offro lavoro”. Do un’occhiata a cosa propone Palermo: lavori come porta a porta, call center (dichiarato, o mascherato da lavoro d’ufficio con “interessanti prospettive di crescita”), badante, babysitter. Su “Lavoro per italiani all’estero” un tizio pubblica un annuncio allettante: multinazionale cerca italiani, comparto finance e marketing, nessuna esperienza richiesta, livello B1 d’inglese, sede Bratislava, Slovacchia. Faccio un giro di siti e scopro che nella capitale del Paese dell’ex blocco comunista, tra le nazioni europee con maggiore crescita economica nel 2018, lo stipendio medio si aggira sui 900 euro, ma il costo della vita è decisamente più basso. “Seriamente stai pensando di trasferirti in Slovacchia? No, dai!”. Il vocale del mio amico rimbomba per tutta la casa.
Riaccendo la tv, in tempo per il Tg: Italiani mammoni, è il titolo del prossimo servizio. Quasi un giovane italiano su due, tra i 25 e i 34 anni, vive ancora nella casa materna. Lo dice l’Eurostat. Nella fascia d’età risulta ancora “non emancipato” il 49,3% dei giovani italiani a fronte del 30,6% di media Ue. In totale, invece, gli under 35 ancora tra le mura domestiche superano il 66% .È tra i dati più alti del Vecchio Continente. Lo stomaco mi ribolle. Tempo dieci secondi e anche la bacheca social è invasa di pezzi che titolano allo stesso modo.
Italiani mammoni. Qualcuno cita anche la condizione lavorativa di questi bamboccioni sempreverdi nelle cronache italiote: il 41,8% della fascia 25-34 si dichiara occupato a tempo pieno, il 7,8% part time, il 26,9% disoccupato, il 18,8% ancora studente e il 4,8% inattivo. Guardo i numeri e sorrido d’amarezza.
Ho decine di amici, il 70% dei quali laureati. Sono laureati in giurisprudenza che, dopo 18 mesi di praticantato per accedere all’esame d’avvocatura e sei d’attesa per la correzione di ogni prova scritta e orale, continuano a lavorare gratuitamente per studi più o meno prestigiosi. Laureati in corsi a indirizzo sanitario che pensavano d’avere il lavoro in tasca e invece si trovano a fare volontariato negli ospedali sperando in una chiamata. Stagisti al terzo o quarto tentativo, che puntualmente vengono rimandati a casa e che incasellano qualche supplenza di tanto in tanto.
Poi, certo, ci sono gli irriducibili del “meglio il posto pubblico” che si preparano al prossimo concorso, i fuoricorso bloccati a meno due o tre esami dalla laurea (“che me la prendo a fare, tanto?”). E quelli che un lavoro ce l’hanno pure, s’intenda. A 500 o 600 euro, in nero, senza alcuna prospettiva futura. Chi ha deciso di aprirsi una partita Iva e diventare libero professionista, e si trova più tasse da pagare che introiti. Chi lavora in uno dei centri per migranti sorti negli ultimi anni, pagato più o meno ogni due-tre mesi dalla cooperativa di turno, con un contratto diverso da quello che spetterebbe a chi ha il suo titolo di studio, per 10, 11, anche 12 ore al giorno.
Va un po’ meglio a quelli “espatriati al Nord”. C’è chi ha mollato un lavoro in officina pagato come un garzone dopo 12 anni per fare l’operatore socio-sanitario in qualche struttura in Emilia Romagna, dove prende mille euro netti al mese. Non ci mette da parte i soldi per una pizza e torna a casa raramente. C’è poi chi l’etichetta di mammone non l’ha mai avuta: gente che si è potuta permettere costosissimi master e “assicurarsi” (le virgolette sono d’obbligo, dato che decine di migliaia di euro sborsati non sono sempre garanzia di lavoro) un impiego in un’azienda correlata all’ateneo; chi ha un titolo da ingegnere, ma mansioni che d’ingegneristico hanno solo il nome. Stipendio nella media: 1500 euro a Milano. Che sono un po’ come i nostri 500 in Sicilia. Che non ci tiri su una famiglia, che all’estero ci metti piede per una vacanza solo la domenica grazie al programma Il Kilimangiaro. Ma almeno hai i contributi pagati e puoi accedere a un mutuo.
E poi ci sono io. Che nel 2008, in pieno scoppio della crisi, decido d’immatricolarmi a Giornalismo. E riesco pure a laurearmi in tempo. E a vincere qualche borsa di studio. A vivere Washington, New York, Arezzo, Milano, Roma, Lussemburgo. Anni che scorrono tra poche ore di sonno e la costante smania di scovare storie che meritino di essere raccontate; interminabili recall per piazzare comunicati, pezzi mancati perché “la grande firma non si può scavalcare”; reperibilità h24, perché “solo così puoi sperare in un vero contratto”; tanti “non mollare, tieni duro, pronta a mordere!”, pacche sulle spalle perché “l’azienda è in difficoltà, ma una collaborazione non te la nega nessuno, sia chiaro!”.

Passano appena un paio di giorni dal servizio sui mammoni e il Tg parla ancora di noi diversamente “giovani”, incredibile! Toh, gli ennesimi dati Istat sull’esercito di cervelli in fuga: in cinque anni, l’Italia ha perso oltre 156mila tra laureati e diplomati: soltanto nel 2017, quelli che hanno lasciato il Belpaese con la laurea sottobraccio sono stati 28mila, il 4% in più rispetto al 2016. Tra loro, anche diversi miei amici. Chi vive in Francia e dopo tre anni di lavoro è pronto ad acquistare casa Oltralpe. Chi fa il ricercatore negli States, lavora per la Nasa o per atenei tra i più prestigiosi al mondo. Chi è partito con niente e ha aperto persino una sua attività. Roba che in Sicilia te la sogni, se non sei nessuno e sei onesto, senza intrallazzi o pacchetti di voti a questo o a quel politico.
Intanto, il governo giallo-verde fa sapere che destinerà 3,9 miliardi alle pensioni, 7,1 al reddito di cittadinanza . I principali programmi d’informazione si sbizzarriscono in interviste ai più autorevoli economisti: come inciderà questa manovra sulla crescita? Tutti concordi o quasi nel dire che sulla produttività del Paese impatterà poco o niente. L’esecutivo degli slogan del cambiamento – più lavoro per i giovani, più investimenti per il Sud – sa tanto di gigantesca presa per i fondelli: l’ultima di Matteo Salvini è che la mafia sarà cancellata “entro qualche mese o anno”. Sospiro e faccio qualche raffronto col mondo reale.
Per andare da Trapani a Catania in treno ci vogliono 9 ore e 44, più due cambi. Per passare da ricercatore a docente ordinario all’università, i santi in paradiso o per meglio dire i baroni (e il pensiero qui non può che andare al povero Norman Zarcone, che peraltro si ricorda questo weekend). La mia amica sta per ricevere il benservito dall’hotel 4 stelle dove si è fatta in quattro negli ultimi tre anni: le hanno detto chiaro e tondo che al suo posto assumeranno altri stagisti a tempo determinato e licenzieranno anche loro, per evitare di convertirne i contratti in tempo indeterminato (alla faccia del Decreto Dignità targato Di Maio). La mafia ha un indotto di centinaia di miliardi e la mentalità mafiosa è radicata capillarmente in ogni strato della società, tanto a Sud quanto a Nord.
Mi affaccio alla finestra: vedo le colline e, oltre la distesa verde, il mio azzurrissimo mare, è una luminosa giornata di metà dicembre. Mia madre mi chiama a tavola, il pranzo è pronto. Forse sono anch’io una mammona, chissà, non ho mai cambiato residenza, non mi sono ancora emancipata dal nucleo famigliare. Faccio il pieno di bellezza e bontà, prima o poi – lo so – dovrò ripartire. Chissà per dove, o per quanto tempo. M’illudo di poter fissare il momento un po’ più in là, provo a imprimere nella memoria solo il bello di questa terra, che dà così poco… Quel poco che sa di tutto, ma che ti lascia con niente.
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