È già stato ribattezzato “il Trump dei Tropici” e non è difficile capire il perché. Il 63enne esponente dell’estrema destra brasiliana Jair Bolsonaro a gennaio sarà ufficialmente alla guida dell’ottava economia del mondo. Un risultato elettorale, quello che si è delineato qualche ora fa, che restituisce sì l’immagine di un Paese diviso – 55.2% dei voti contro il 44.8%, andato all’altro candidato, di sinistra, Fernando Haddad –, ma soprattutto che aggiunge una nuova, autorevole voce alla lista dei Paesi che si affidano alle ricette delle destre più estreme ed aggressive.
Sì, perché Bolsonaro, ex capitano dell’esercito e da 25 anni deputato di uno dei tanti piccoli partiti che affollano il congresso brasiliano, si è presentato senza filtri con una raffica di affermazioni contro donne, omosessuali, minoranze etniche un po’ sulla scia di ciò che fece, due anni fa, quell’improbabile candidato politicamente scorretto che poi è diventato il presidente degli Stati Uniti d’America. Da qualche ora, gira in rete un video breve ma intenso che unisce alcune delle dichiarazioni più clamorose di Bolsonaro, un concentrato di affermazioni discriminatorie, di sproloqui in difesa della tortura, e veri e propri insulti. Tra le più scioccanti, la sua difesa, avvenuta in passato, dell’uccisione di opponenti politici da parte del precedente regime militare, e il suo “endorsement” alla dittatura. In proposito, nel briefing quotidiano con i giornalisti, il portavoce del Segretario Generale delle Nazioni Unite, rispondendo alle domande dei giornalisti, non si è sbilanciato più di tanto e ha marcato l’importanza di proseguire sulla strada della cooperazione con il Brasile, Paese di grande influenza al Palazzo di Vetro.
Eppure, l’elezione di Bolsonaro è giunta in ore calde di tensione e violenza da un lato all’altro dell’Oceano, indicative del clima politico che si respira in Occidente. A Pittsburgh, un uomo armato apriva il fuoco in una sinagoga, uccidendo 11 persone, attacco – pare – a certo “globalismo” sponsorizzato dall’ebreo George Soros. Giorni prima, alcuni ordigni sono stati recapitati contro i simboli americani e internazionali di certo mondialismo e di un establishment democratico-progressista, come lo stesso Soros, ma anche Barack Obama, Hillary Clinton e la sede newyorkese della CNN (mentre scriviamo, un altro ordigno pare sia stato rinvenuto presso la sede della emittente ad Atlanta). A migliaia di km di distanza, a Predappio, comune italiano della provincia di Forlì-Cesena, andava in scena un raduno fascista nel quale una militante di Forza Nuova mostrava a favor di telecamere una maglietta con la scritta «Auschwitzland», inneggiante a una delle più spaventose catastrofi della storia dell’umanità. Qualche ora dopo, si ventilava l’abolizione, da parte del Governo del Cambiamento made in Italy, degli assegni pensionistici in favore delle vittime delle leggi razziali. Allarme rientrato poco dopo, con rassicurazioni da parte del Quirinale e dell’Esecutivo stesso. Intanto, alle prime notizie della vittoria di Bolsonaro, Matteo Salvini festeggiava sui social, inscrivendo la vittoria del brasiliano nell’ampio e trasversale movimento anti-establishment, anti-globalista di destra in cui la Lega si riconosce.
Ed è proprio tale contesto internazionale che suggerisce l’urgente necessità di non derubricare risultati elettorali come quello brasiliano a uno degli “scherzetti” che può giocare la democrazia, ma, piuttosto a interrogarsi sulle cause profonde. Che, anche nel caso brasiliano, vanno ricercate nella profonda delusione della popolazione rispetto alle risposte che politici a prima vista ben più presentabili del prossimo Presidente hanno fornito alle nuove sfide dei nostri tempi. Nel caso del Brasile, il Paese, negli ultimi quattro anni, è stato consumato da un’inchiesta, nota come “Operation Car Wash”, che ha svelato un capillare fenomeno di corruzione di massa. Nell’ambito di tale indagine, circa una dozzina di politici ed esponenti del mondo del business locali sono stati arrestati. Tra loro, l’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva, escluso sulla scia dello scandalo dalle elezioni.
I fattori da considerare sono diversi. Da un lato, certamente l’elettorato del Paese si è dimostrato pronto a recepire politiche più conservatrici anche per via della rapida crescita delle confessioni evangeliche, sensibili a temi come omosessualità, aborto, diritti civili. Non a caso, Bolsonaro si è astutamente presentato come difensore di certi valori legati alla famiglia tradizionale, e come fortemente contrario alla “propaganda omosessuale” nelle scuole, che, a suo avviso, minaccia la corretta crescita dei bambini. È anche un forte oppositore della decriminalizzazione dell’aborto e delle droghe.
In secondo luogo, ha giocato a suo favore la crescita della disoccupazione e le difficoltà dell’economia, che hanno dato origine a una forte reazione contro le istanze di redistribuzione del reddito e, in generale, le politiche attuate dalle precedenti amministrazioni di sinistra.
Quindi, la domanda di ordine e sicurezza – con il “Progresso”, istanze rappresentante anche nella bandiera nazionale –, reazione all’impennata di violenza epidemica che ha reso il Brasile uno dei Paesi più pericolosi del mondo. In questo senso, le proposte di Bolsonaro di riportare in voga la tortura contro i criminali e le sue affermazioni a sostegno delle “squadre della morte” sono state interpretate più come una risposta a tali richieste che come spettri dei tempi bui della dittatura. Tutto questo, fortemente supportato da una campagna social di disinformazione e informazione poco accurata, alimentata tanto da destra quanto da sinistra.
Come altre volte è accaduto, Bolsonaro è stato percepito come l’unico candidato vicino al popolo, realmente impegnato ad ascoltare le sue esigenze, in un Paese dove la classe politica è stata ampiamente e profondamente coinvolta in scandali di corruzione. Ma al netto di queste congiunture, in diversa misura diffuse anche in altri Paesi dove la destra è al potere (come Italia e USA), da valutare è l’impatto che le politiche che questi “uomini forti” avranno sulla tenuta democratica. Trump, finora, lo conosciamo da presidente “vincente” che gode ancora dei frutti della vittoria del 2016. Eppure, dalla Casa Bianca, con il Congresso a maggioranza Gop, Trump twitta un giorno si e l’altro pure scuotendo le certezze costituzionali americane, come la libertà di espressione (vedi polemica sull’inno e gli sportivi in ginocchio) o i giornalisti “nemici del popolo”. Come reagirebbe un Trump se di colpo si trovasse perdente dopo il 6 novembre? Con il procuratore speciale Mueller alle calcagna? Speriamo ancora che la democrazia USA sia resistente abbastanza.
Quanto al Presidente brasiliano appena eletto, nonostante le simpatie espresse per la “dittatura”, subito dopo il voto ha promesso di ergersi a “difensore della democrazia”. Ma non c’è dubbio che, dal Brasile agli Stati Uniti, passando per l’Italia salviniana, quella propaganda divisiva, discriminatoria e aggressiva nei confronti di minoranze etniche e non solo, tesa a scovare un nemico e ad attribuirgli i contorni di capro espiatorio collettivo, sia già in sé e per sé un attacco alla base stessa su cui si regge ogni democrazia, soprattutto quando finisce per avallare le istanze di, o perlomeno strizza l’occhio a, settori dell’opinione pubblica nostalgici di regimi dittatoriali anti-libertari. In Brasile, Bolsonaro non avrebbe le stesse resistenze democratiche che negli USA.
Come frenare questa irresistibile avanzata delle destre estreme, che si avvantaggiano dell’incapacità delle sinistre di fare autocritica e rinnovarsi di conseguenza? Un detto francese recita: “à la guerre comme à la guerre”, come a voler intendere che non si può pretendere di combattere le battaglie più difficili indossando guanti di velluto. La sinistra che vorrà avanzare una proposta credibile e possibilmente vincente contro il populismo di destra dovrà essere in grado di riprendersi le istanze popolari, dovrà essere disposta ad alzare la voce per difendere la propria agenda, capace di utilizzare alcuni degli strumenti comunicativi e mediatici dei suoi avversari, per poi marcare, attraverso di essi, le specificità politiche e valoriali che la caratterizzano. Sembra esserne persuaso Michael Avenatti, celebre avvocato americano che ha rappresentato la pornostar Stormy Daniels nella sua causa contro il presidente Trump, deciso contestatore delle politiche di Donald Trump, dipintosi come difensore della working class e ideatore dello slogan “Make America decent again”. “Si potrebbe credere che il modo di contrastare Trump debba essere educato e di classe, e gentile”, ha detto a Politico. “Non credo che si possa essere più gentili… Se vogliamo un’America più inclusiva, tollerante, generosa e amorevole, allora dobbiamo essere disposti a lottare per questo”. In America, questo profilo potrebbe essere associato a quello di Bernie Sanders, il candidato alle primarie democratiche allora “sabotato” dallo stesso partito di Hillary Clinton. Ma il discorso è applicabile al Brasile, all’Italia e a tutti i Paesi dove le destre appaiono ad oggi pressoché incontrastate. Sarà la sinistra, e il mondo moderato e liberale in generale, in grado di cogliere questa necessità di trasformarsi – lasciando spazio alle correnti più “populiste” – per centrare l’obiettivo e salvare la democrazia? That is the question.