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Genova, i funerali senza Stato: a mezz’asta la fiducia nelle istituzioni

Molti, ed è la grande maggioranza delle famiglie delle 38 vittime, hanno rifiutato la cerimonia organizzata dalla Stato

Angelo PerronebyAngelo Perrone
Genova, i funerali senza Stato: a mezz’asta la fiducia nelle istituzioni

Il premier Giuseppe Conte ai funerali di Stato a Genova (Photo credits: Palazzo Chigi).

Time: 4 mins read

Le bandiere a mezz’asta in tutt’Italia, i rintocchi delle campane in città. Genova e il Paese si sono fermati per rendere omaggio alle vittime del ponte Morandi. Funerali di Stato, celebrati nella Fiera del capoluogo ligure alla presenza di Mattarella. Ma in tanti hanno detto no.

Non solo mancavano alcune delle persone travolte dal crollo del viadotto dell’autostrada A10 perché ancora disperse sotto la montagna di detriti e non ancora ritrovate. Molti, ed è la grande maggioranza delle famiglie delle 38 vittime, hanno rifiutato la cerimonia organizzata dalla Stato. Certo, a volte per il bisogno di vivere in modo privato e riservato il dolore; sarebbe sembrato altrimenti «fare una passarella», una cosa inappropriata. Ma più spesso per altro. «Quelle cose pubbliche non mi piacciono», ha detto una madre. «Non ho più fiducia in questo Stato», ha spiegato la sorella di un’altra vittima.

Ecco, la rabbia e la sfiducia verso le istituzioni, il collante di questa decisione così forte e preoccupante di fronte ad una tragedia tanto grande. Un sentimento diffuso e non nuovo emerso anche in altre occasioni recenti. Nel dramma si smarrisce il senso di unità, la percezione di una sentita partecipazione al dolore: affiora una divisione che rimarca il senso di distanza e contrapposizione tra la gente comune e il potere pubblico.

Sembra difficile pensare che il rifiuto dei familiari fosse rivolto verso chiunque si sia trovato, ora o in passato, a rappresentare lo Stato. Non certo i 320 vigili del fuoco che hanno scavato per giorni alla ricerca di sopravvissuti, o solo per ritrovare i corpi massacrati dal cemento. Applauditi calorosamente, in una loro rappresentanza, durante la cerimonia. Neppure quel poliziotto ripreso da un video di un passante mentre, fermamente ma con garbo, convinceva i proprietari delle auto rimaste in bilico sul viadotto a non mettere in pericolo la loro e altrui vita solo per riprendersi i loro mezzi. O ancora il personale sanitario che ha sostenuto e rassicurato i tanti superstiti o i parenti sotto shock. Tanto meno infine la figura che tutti rappresenta, il presidente Mattarella, al quale i familiari hanno ricambiato con affetto l’abbraccio di solidarietà umana.

Dunque ancora una volta la rabbia è rivolta verso la politica, che, anche in questa occasione sventurata, non ha mancato di dare prova della sua incapacità a gestire eventi traumatici. Un rimpallo di accuse tra gli esponenti del governo gialloverde e le precedenti maggioranze, l’ennesima scaramuccia propagandistica. Come se quella del ruolo dello Stato – controllo, indirizzo, vigilanza – nella vita pubblica e sociale del paese non fosse la questione irrisolta in economia come in ogni altro settore di interesse generale, dalla scuola alla sanità.

Periodicamente si fanno i conti, sempre più salati, con l’inerzia delle istituzioni – ognuna per suo conto e nel proprio ambito – e l’assenza di un’idea di progresso, come linea guida del fare politica. Da cui dipende tutto, la manutenzione dell’esistente, la riparazione dei danni, la prevenzione dei pericoli, in sostanza una capacità progettuale fondata su un’idea di società che sa scegliere e mettere in atto delle buone pratiche.

Immaginare un futuro. Non solo pensare a distruggere il passato, solo perché tale, a prescindere dalla qualità delle decisioni e dagli impegni già valutati e liberamente assunti. Oppure rispondere alle necessità contingenti con la logica della risposta immediata, ad effetto, capace di riscuotere facili applausi dalla folla giustamente arrabbiata, ma senza valutazione né delle cause dei disastri né dei modi per porvi rimedio.

I costi della spregiudicata esaltazione dell’incompetenza, e dell’assunzione dell’inesperienza come valore sociale si avvertono in tanti passi. Non sorprendono le parole sprezzanti di questi giorni (“Non ci servono codicilli, la giusta causa della revoca delle concessioni ad Autostrade sono i morti”, Di Maio), né quelle, allarmanti, dello stesso presidente del Consiglio, un avvocato (“Non possiamo aspettare i tempi della giustizia”). Una fuga dai compiti della buona politica, meglio le rapide scorciatoie e le confuse semplificazioni, che mettono ancor più in pericolo la coesione nazionale.

I “codicilli” sono gli strumenti del sapere oculato. I tempi della giustizia sono quelli del diritto, delle garanzie e del rispetto di valori condivisi. Senza gli uni e gli altri, difficile l’accertamento accurato dei fatti, e l’individuazione delle responsabilità, a tutti i livelli. Oltre, ci sono solo processi sommari: eccitano gli animi ma non risolvono alcun problema.

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Angelo Perrone

Angelo Perrone

Angelo Perrone è giurista e scrittore. È stato pubblico ministero e giudice. Si interessa di diritto penale, politiche per la giustizia, tematiche di democrazia liberale: diritti, libertà, diseguaglianze, forme di rappresentanza e partecipazione.Svolge studi e ricerche. Cura percorsi di formazione professionale. È autore di pubblicazioni, monografie, articoli. Scrive di attualità, temi sociali, argomenti culturali. Ha fondato e dirige “Pagine letterarie”, rivista on line di cultura, arte, fotografia. a.perrone@tin.it

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