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Il Garante dei detenuti alla Voce: “Il carcere? Non sia luogo di buio isolamento”

Dopo il picco di suicidi dietro le sbarre, abbiamo intervistato Mauro Palma su pene alternative, diritti dei detenuti, retorica e indirizzi del nuovo Governo

Giulia PozzibyGiulia Pozzi
Il Garante dei detenuti alla Voce: “Il carcere? Non sia luogo di buio isolamento”

Carcere (AlexVan / Pixabay)

Time: 8 mins read
Mauro Palma.

7 suicidi nelle carceri italiane nelle ultime settimane, 34 dall’inizio dell’anno. Sono solo numeri, freddi dati che fanno notizia ciclicamente, per poi finire nel dimenticatoio non appena i riflettori intercettano un’altra “emergenza”. Eppure, dietro a quei numeri, ci sono storie, nomi. Come quello di Hassan, 21 anni, morto qualche giorno fa nell’ospedale di Belcolle, provincia di Viterbo, dopo essersi impiccato in una cella della sezione di isolamento del carcere cittadino, da dove sarebbe uscito il prossimo 9 settembre. Vicende che dovrebbero stimolare una riflessione seria sul delicato argomento della detenzione, tema, in Italia, di perenne attualità ma ciclicamente accantonato nel dibattito pubblico. Era il 2004, quando il compianto Alessandro Margara, già capo dell’amministrazione penitenziaria e magistrato di sorveglianza, constatava come il carcere fosse divenuto una “discarica sociale”, ricettacolo di disperazione e marginalità.

E per far sì che la detenzione sia luogo di riabilitazione e recupero sociale, e non abbia soltanto una funzione meramente custodiale, si adopera ogni giorno Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Si è speso, in questo senso, nel corso di tutta la sua carriera, che lo ha visto, tra le altre cose, fondatore e primo presidente dell’Associazione Antigone, componente prima e presidente dopo del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, nonché al vertice del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Con lui abbiamo parlato dei recenti casi di suicidio, ma anche di pene alternative, nonché degli indirizzi del nuovo Governo sul tema della detenzione e dell’immigrazione.

Palma, stiamo vivendo un’estate drammatica per i suicidi nelle carceri italiane. Quali sono le sue considerazioni in proposito?
“Più volte mi è capitato di sottolineare che il suicidio di una persona è sempre dovuto a una molteplicità di fattori e che proprio per rispettare la decisione estrema presa occorra astenersi da facili interpretazioni. Con questa premessa occorre però notare che sempre più i suicidi in carcere riguardano persone socialmente e forse individualmente fragili, che non hanno trovato ascolto nel sociale, che hanno realizzato una serie di successive esclusioni e che compiono questo gesto finale all’interno del punto di arrivo di tale percorso di esclusioni. Gli ultimi casi hanno riguardato persone con condanne lievi, talvolta prossime all’uscita. Comunque persone che neppure in carcere hanno trovato un momento di ascolto, di connessione con le loro difficoltà. Piuttosto che interrogarsi – seppure doverosamente – sull’effettiva sorveglianza realizzata durante la loro permanenza in carcere, facendo così ricadere la responsabilità su chi aveva il compito di controllarle, occorrerebbe chiedersi se a tali persone sono state offerte possibilità di contatto umano, di osservazione dei bisogni psicologici, di effettiva sensazione di non abbandono”.

Lei ha fatto appello alla società civile e alle istituzioni perché ci si interroghi “su quali presidi sociali il mondo esterno offra a tali disperate giovani vite e su come implicitamente tale disinteresse non finisca col gettare tutta la responsabilità su quell’approdo tragico e finale rappresentato dalla reclusione in carcere”. Quali provvedimenti andrebbero presi per ovviare a questa situazione, a suo avviso?
“Innanzitutto occorre ricostruire “luoghi” sociali di non emarginazione e capacità delle amministrazioni locali di intercettare i bisogni delle persone che non possono autonomamente contare su solide reti di protezione, familiari, amicali, lavorative. Questi presìdi sociali sono stati smantellati negli ultimi anni. E le vite disperate nelle strade, abbandonate alla sola azione caritatevole di organizzazioni spesso religiose, confluiscono spesso nella continuità con l’ambiente dei reati di strada e finiscono inesorabilmente in carcere, anche perché non possono contare su solide difese legali. In secondo luogo bisogna riequilibrare i rapporti tra le diverse professioni che operano in carcere: da quella relativa alla sicurezza a quella relativa al supporto psicologico, alla mediazione culturale, al recupero sociale. Questa ultime professioni hanno ormai numeri esigui: si sono perse a totale vantaggio della sola funzione custodiale. In terzo luogo va accentuata la trasparenza del carcere: non deve essere luogo di buio isolamento – spesso proprio nelle sezioni di isolamento avvengono i suicidi – ma luogo di totale apertura a contributi esterni, al mantenimento dei rapporti con lo scorrere del mondo oltre le mura, ovviamente senza diminuire la sicurezza”.

Nel dibattito sulle alternative al carcere, spesso si impone una certa retorica securitaria, molto di moda in ampi settori della politica, che invoca superficialmente e genericamente la “certezza della pena”. Ci aiuta a fare un po’ di chiarezza in proposito?
“La confusione che il dibattito attuale, fatto con toni volutamente alti, quasi gridati, è tra la “certezza” della pena e la sua “fissità” nel tempo. Ogni sistema penale democratico richiede che le pene siano proporzionate alla gravità del reato commesso e alla rilevanza del bene giuridico aggredito con la sua commissione; che corrispondano a leggi, che quest’ultime ne definiscano tassativamente le condizioni per la loro applicazione e le modalità per la loro esecuzione. Quindi principi di legalità, tassatività e proporzionalità costituiscono la “certezza” della pena: nulla lasciato all’arbitrio. Ma, accanto a questo le pene devono avere una finalità e, così come afferma la Costituzione italiana, la finalità è il ritorno positivo al contesto sociale, in sintesi la rieducazione. Ovviamente non di rieducazione “etica” si tratta: se questa si realizzerà, sarà un bene ma non è compito dello Stato avere funzioni etiche. Si tratta invece di rieducazione “sociale”, cioè di un reinserimento che eviti la nuova commissione di reati. Quindi, occorre che l’esecuzione della pena sviluppi un percorso positivo che tenda a restituire alla società un soggetto in grado di interagire positivamente con essa, così riannodando quel filo che la commissione del reato ha reciso. Perché ciò avvenga l’esecuzione deve essere a “tappe”, modulata, non può essere fissa: da qui le progressive misure alternative che nella loro progressione sono tappe verso il ritorno alla società. Sono misure da dare sempre seguendo parametri fissati dalla legge e non arbitrariamente e secondo la decisione del magistrato che si avvale della valutazione di chi segue il percorso della persona detenuta all’interno del carcere. Quindi, per riassumere, pena “certa”, ma non “fissa””.

L’indirizzo dell’attuale Esecutivo sembra incentrato sull’approccio prettamente detentivo, ma qualche settimana fa Beppe Grillo invitava a privilegiare le misure alternative. A giudicare da quello che ha visto fino ad ora (compreso il recente Decreto in materia penitenziaria), che cosa si aspetta da questo Governo? La proposta di Grillo sarebbe auspicabile e realizzabile a suo parere, e in che termini?
“Partiamo dall’approccio abolizionista di Grillo: è bene misurarsi sempre con tale ipotesi che, nell’ambito giuridico, ha una scuola minoritaria ma importante di sostenitori: anni fa un movimento di discussione sul carcere si volle chiamare “Liberarsi dalla necessità del carcere”. Questa denominazione indicava il doppio aspetto della linea utopica, tendenziale e della necessità attuale. Se non possiamo abolirlo, possiamo però ridurlo. Per gli autori di molti reati minori la detenzione è un’inutile sottrazione di tempo che certamente non aiuta a quel loro reinserimento di cui si accennava precedentemente: meglio sarebbero pene alternative diverse dal carcere di tipo risarcitorio, interdittivo o di lavoro sociale. Accanto a questa discussione, restano però le incongruenze di un linguaggio politico che predica soltanto chiusura, inflessibilità, con affermazioni che determinano anche sconcerto all’interno degli Istituti di detenzione e, contemporaneamente, provvedimenti in corso di approvazione che recuperano parti della discussione sviluppata negli anni recenti – i cosiddetti Stati generali dell’esecuzione penale – ma che non riescono a cogliere il senso complessivo di quella discussione. In sintesi, provvedimenti parziali, anche condivisibili, ma assenza di un’idea complessiva sulla detenzione. Naturalmente il compito del Garante nazionale non è entrare nel dibattito sulle politiche che il Governo intende perseguire, in questo come in altri campi, ma valutare gli effetti che esse determinano sul piano della tutela dei diritti delle persone ristrette. In fondo, valutare anche il clima che ne consegue. Attualmente il clima è di un’attesa delusa”.

In merito della vicenda della Asso 28, che potrebbe configurare, secondo alcuni organi di stampa, un caso di respingimento collettivo, lei, in base al proprio mandato, ha chiesto informazioni alle Autorità competenti. Cosa pensa di questo episodio? Chi nega la tesi del respingimento collettivo si aggrappa anche alla recente controversa definizione di una zona SAR libica.
“Come è noto le zone SAR vengono notificate dallo Stato interessato agli Organi di controllo internazionale: e la Libia ha indicato quell’area come area di proprio intervento SAR. Da questo punto di vista le autorità italiane non hanno impartito – stando a quanto comunicato al mio Ufficio – alcun ordine di comando all’equipaggio della nave “Asso 28” e l’operazione è stata tutta di responsabilità libica. Restano però, a mio parere e su un piano più generale, alcuni interrogativi. Il primo riguarda la qualificazione del porto di Tripoli che, stando a un factsheet dell’Unione europea del 28 giugno 2018 (Migration: Regional Disembarkation Arrangements) non può essere considerato “porto sicuro” verso cui far convergere le persone soccorse. Il secondo, riguarda il fatto che le persone soccorse sono state a bordo di una nave italiana e che in quella loro posizione avrebbero dovuto godere di tutti i diritti che il nostro Paese assicura nel proprio territorio. Il terzo riguarda l’effettività del diritto di asilo per tali persone: sulla nave, appena recuperati e in un contesto non attrezzato a ciò, non hanno certamente potuto porre richiesta di asilo, né lo hanno potuto fare approdati a Tripoli perché la Libia,non è certo luogo ove tali presidi siano agibili in concreto. Infine, data la conoscenza del rischio a cui sono esposte le persone migranti irregolari in Libia – la realtà dei centri di detenzione libici, soprattutto quelli che sfuggono a ogni controllo centrale è nota – si pone una questione di violazione in sé del principio di non refoulement“.   

La ricetta del ministro dell’Interno in merito alla gestione dell’immigrazione – oltre alla chiusura dei porti alle navi delle Ong battenti bandiera straniera – comprende anche un aumento delle espulsioni e dei centri per i rimpatri. Entrambi questi contesti sono soggetti al monitoraggio da parte del Garante Nazionale. Qual è lo stato dell’arte e quale evoluzione si aspetta di vedere? Nota delle criticità nell’approccio alla questione migratoria prefigurato dal capo del Viminale?
“Al di là degli annunci, più o meno impressionistici, il piano relativo ai CPR (Centri per il rimpatrio), prosegue secondo quanto previsto dal decreto-legge del febbraio 2017 (convertito in legge 46/2017). È stato riaperto il Centro di Bari – sulle cui condizioni il Garante nazionale ha espresso molte riserve – e un centro vicino Potenza (Palazzo San Gervasio). Sono iniziati i lavori per il Centro di Macomer (riadattando un ex carcere mandamentale) e sono stati annunciati lavori per riadattare/risistemare vecchi Centri. Vedremo: certamente i parametri che la legge definiva (massima capieza di cento persone, layout ben diverso da un carcere, possibilità effettiva di godimento dei diritti che l’ordinamento prevede) dovranno essere rispettati e il Garante nazionale eserciterà il proprio potere di controllo, con visite non annunciate, raccomandazioni sugli elementi non corrispondenti alla tutela della dignità delle persone e verifica della realizzazione dei cambiamenti che tali raccomandazioni indicheranno. Credo – ed è mio dovere essere attento, ma anche ottimista – che, al di là di una comunicazione “a effetto” la situazione non stia peggiorando rispetto al passato. Questo, appunto, al di là delle dichiarazioni e dei post sui social: rimarcando però che tali dichiarazioni e tali post hanno una valenza culturale grave, soprattutto se provengono da chi ha ruoli istituzionali”.

Fratelli d’Italia ha di recente presentato una proposta di legge per abolire il reato di tortura, che, a suo avviso, avrebbe “mortificato gli agenti”. Che ne pensa?
“Ogni tanto qualcuno azzarda qualche ritorno al medioevo. Lasciamo che parlino. Piuttosto facciamo in modo che le Procure – qualora sciaguratamente ce ne fosse bisogno – rendano effettiva tale previsione di reato che per molto, moltissimo, tempo è stata discussa nel nostro Paese”.

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Giulia Pozzi

Giulia Pozzi

Classe 1989, lombarda, dopo la laurea magistrale in Filologia Moderna all'Università Cattolica di Milano si è specializzata alla Scuola di Giornalismo Lelio Basso di Roma e ha conseguito un master in Comunicazione e Media nelle Relazioni Internazionali presso la Società Italiana per l'Organizzazione Internazionale (SIOI). Ha lavorato come giornalista a Roma occupandosi di politica e affari esteri. Per la Voce di New York, è stata corrispondente dalle Nazioni Unite a New York. Collabora anche con "7-Corriere della Sera", "L'Espresso", "Linkiesta.it". Considera la grande letteratura di ogni tempo il "rumore di fondo" di calviniana memoria, e la lente attraverso cui osservare la realtà.

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