La Walk Free Foundation ha appena presentato il rapporto annuale sulla schiavitù nel mondo. E le sorprese non sono mancate: secondo gli autori della ricerca la domanda pubblica di prodotti a basso prezzo consentiva alla schiavitù di prosperare in tutto il mondo.
Risultati preoccupanti in moltissimi paesi arretrati come Corea del Nord, Eritrea, Repubblica Centro Africana, Burundi e Afghanistan, tutti agli ultimi posti della classifica dei paesi per iniziative contro la moderna schiavitù. In Corea del Nord, secondo quanto ha riferito un testimone ai ricercatori, “ai bambini viene imposto un lavoro quotidiano in agricoltura o un mese di lavoro nel momento della raccolta. Ma a ricevere il compenso per questi lavori sono le scuole, non i bambini. E se i bambini si rifiutano vengono puniti e criticati all’interno della scuola stessa (unico modo per evitare ciò è pagando tangenti)”.
Il rapporto, complesso e articolato, è stato basato non solo su dati nazionali, ma anche su rilevamenti locali, sulle conseguenze della governance dei vari paesi sulla moderna schiavitù e soprattutto – e forse questo è il dato più importante in un’ottica geopolitica – sulle conseguenze delle politiche da parte dei paesi più sviluppati e industrializzati, quelli che fanno parte del G20. Il risultato principale dello studio infatti è che sono proprio i miliardi di dollari spesi per acquistare beni e prodotti commercializzati dalle multinazionali la causa della schiavitù moderna: spesso questi beni vengono realizzati in parte o in toto grazie a manodopera schiavizzata e, cosa ancora più grave, acquistati dai consumatori dei paesi “sviluppati”. “La prevalenza della schiavitù moderna è guidata dal conflitto e dall’oppressione, ma è anche una conseguenza dalla domanda dei consumatori dei paesi più sviluppati”, ha detto Fiona David, direttore esecutivo della ricerca presso Walk Free Foundation.
Beni o prodotti come computer e smartphone (provenienti da Cina e Malesia), cotone (proveniente da Kazakhstan, Tajikistan, Turkmenistan, Uzbekistan) e abbigliamento e accessori (realizzati in Argentina, Brasile, Cina, India, Malesia, Tailandia e Vietnam), zucchero di canna (dal Brasile, Repubblica Dominicana), oro (dalla Repubblica Democratica del Congo, dalla Corea del Nord, dal Peru), tappeti (da India e Pakistan) pesce (da Ghana, Indonesia, Tailandia, Taiwan, Corea del Sud, Cina, Giappone e Russia), riso da (India e Myanmar) e moltissimi altri.
È questo uno degli aspetti più gravi che emergono dalla ricerca appena presentata: l’aver consentito alle multinazionali di rilocalizzare la propria produzione in paesi lontani avrebbe permesso di produrre a costi molto bassi. L’altra faccia della medaglia è che queste “economie” spesso sono state possibili solo grazie a forme di moderna schiavitù (e grazie al fatto che in molti paesi è consentito produrre senza rispettare le norme di sicurezza e il rispetto dell’ambiente imposte nei paesi sviluppati). Tutto pur di accaparrarsi un mercato (spesso inutile e legato a forzature consumistiche) che vale centinaia di miliardi di dollari di prodotti venduti nei paesi del G20 incuranti delle conseguenze dal punto di vista sociale e umano.
A dirlo sono i dati riportati nel rapporto: lo scorso anno, solo nel Regno Unito sono state importate merci “a rischio” tra cui elettronica, indumenti, pesce, cioccolato e zucchero per un controvalore di ben 14 miliardi di sterline. Una cifra mostruosa ma niente se paragonata a ciò che è avvenuto negli Stati Uniti d’America che hanno importato merci simili per un valore di 144 miliardi di dollari (sono di gran lunga il più grande importatore mondiale di prodotti potenzialmente fabbricati dagli schiavi, seguiti da Giappone e Germania).
Ancora oggi, nel 2018, sono ancora milioni gli schiavi impiegati in lavori pesanti o pericolosi per la salute o sovrasfruttati. E questo anche nei paesi sviluppati. In Grecia ad esempio dove sono 89mila (su una popolazione di 11milioni 210mila persone). Pochi meno in Romania: 86mila su poco meno di venti milioni di abitanti. A ben guardare i dati pubblicati nel rapporto non c’è paese che si salva: Polonia (128mila lavoratori/schiavi), Repubblica Ceca (28mila), Francia (129mila), Germania 167mila), Spagna (105mila). Non si salvano nemmeno i paesi nordici: Sono 9mila i “moderni schiavi” in Norvegia, altrettanti in Finlandia e in Danimarca, pochi di più in Svezia (15mila). Neanche a dirlo, non si salva neanche il Bel Paese: in Italia sarebbero ben 145mila.
Diverse le cause di questo fenomeno: si va da problemi di governance alla carenza di soluzioni per i bisogni di base, dalle disuguaglianze ai conflitto interni.
Ma il rapporto ha voluto andare oltre e ha aggiunto altri aspetti, di cui si parla poco e si fa ancora meno. Ad esempio, sono stati inseriti tra i moderni schiavi quelli coinvolti nel traffico di organi: secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità il commercio illegale di organi riguarderebbe circa il 10% dell’attività globale di trapianto ben 126.670 trapianti di organi eseguiti in tutto il mondo (dato 2015). Un giro d’affari tra 840 milioni di dollari e 1,7 miliardi, ampiamente documentato in paesi diversi come l’India, Pakistan, Kosovo e Filippine.
Proprio le Filippine sono oggetto di un’altra forma di schiavitù moderna: quella dei bambini soldato. Secondo i ricercatori sarebbero almeno 4.000 i bambini reclutati e utilizzati in conflitti armati dalle forze governative e più di 11.500 da gruppi armati non statali, in particolare nelle Filippine ma anche in Africa, Asia e Latino America. Moltissimi i casi registrati in Afghanistan, nella Repubblica Centrafricana, in Colombia, nella Repubblica Democratica del Congo, in Iraq, in Libano, in Libia, nel Mali, in Myanmar, in Nigeria, in Somalia (paesi da cui provengono molti di quelli che cercano di arrivare in Italia), in Sudan, in Siria e, come detto, nelle Filippine.
Uno degli aspetti più gravi, come emerge da un confronto con i dati rilevati nell’ultimo rapporto, risalente al 2016, è che in molti paesi, anche europei, la situazione non è migliorata. Anzi “la prevalenza della schiavitù moderna in paesi ad alto reddito e altamente sviluppati, è maggiore”. Olanda, Regno Unito, Belgio, Svezia, Croazia, Spagna, Norvegia e Portogallo, tutti paesi ai primi posti sotto questo profilo anche due anni, non hanno avuto alcun miglioramento, non solo nel ranking ma anche nella classifica individuale legata alla governance. Lo stesso dicasi per paesi come Austria, Slovenia, Danimarca, Ungheria, Finlandia, Germania e molti altri paesi europei. Nazioni “sviluppate”, ma che non sembrano essere state capaci di migliorare realmente il proprio modo di gestire il problema.

Un problema che, in definitiva, pare essere proprio questo: nella maggior parte dei paesi sviluppati (quelli, come detto, che comprano di più dalle multinazionali che sfruttano le moderne forme di schiavitù) non si fa nulla per cambiare questo stato di cose. Nonostante alcuni (pochi) paesi del G20 abbiano approvato leggi riguardanti la schiavitù e lo sfruttamento di fatto non è stato fatto molto per impedire la vendita di beni e prodotti realizzati dai moderni schiavi. Nonostante le promesse del G20 di sorvegliare le violazioni dei diritti umani nelle catene di approvvigionamento e quelle contenute nei Sustainable Development Goals delle Nazioni Unite, ben 12 dei 20 paesi del G20 non hanno intrapreso alcuna azione per impedire alle imprese di approvvigionarsi di merci fatte da schiavi. “Dobbiamo chiederci perché non viene fatto di più per liberare milioni di persone in tutto il mondo che sono intrappolate, maltrattate e picchiate mentre vengono comprate e vendute per fornire beni per le aziende di tutto il mondo”, ha detto Kevin Hyland, del Regno Unito. “Il livello di azione che i paesi del G20 hanno assunto fino ad oggi per porre fine alla schiavitù moderna è limitato. Queste nazioni hanno la responsabilità di pioniere per porre fine alla domanda di beni importati prodotti da criminali”.
L’unica cosa certa è che nonostante le tante promesse, ancora oggi nel mondo almeno 40,3 milioni di persone (per oltre il 70% donne, altro punto in forte contrasto con i SDGoals) vivono in condizioni di “moderna schiavitù”.
Una sola cosa non ha detto il rapporto: che i paesi dove maggiore è il numero di schiavi moderni coincide “casualmente” proprio con quelli da cui maggiori sono i flussi migratori che caratterizzano tutto il pianeta (Burundi, Eritrea, Repubblica Democratica del Congo, Sudan, Chad, Somalia, Repubblica Centro Africana, per i flussi nel Mediterraneo; Siria, Afghanistan, Myanmar, Cambogia, Pakistan, Papua Nuova Guinea per l’Asia; Venezuela, Cambogia, Ecuador e Messico per gli USA).
Ma di questo, i grandi esperti delle maggiori organizzazioni internazionali che si occupano di sviluppo e flussi migratori (e molti dei governi dei paesi europei) pare preferiscano non tenere conto …