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Di “buonismi” e magliette rosse. Non facciamoci fregare dalle parole

L'uso e l'abuso del termine "buonismo" e simili per screditare cause condivisibili è un modo per offuscare le coscienze

Giulia PozzibyGiulia Pozzi
Di “buonismi” e magliette rosse. Non facciamoci fregare dalle parole

Dizionario.

Time: 4 mins read

C’è tra la potenza della parola e la disposizione dell’anima lo stesso rapporto che tra l’ufficio dei farmaci e la natura del corpo. Come infatti certi farmaci eliminano dal corpo certi umori, e altri, altri; e alcuni troncano la malattia, altri la vita; così anche dei discorsi, alcuni producono dolore, altri diletto, altri paura, altri ispirano coraggio agli uditori, altri infine, con qualche persuasione perversa, avvelenano l’anima e la stregano.

A parlare, in questo breve brano tratto dall’orazione “Encomio di Elena”, è il retore Gorgia da Lentini, il primo pensatore, vissuto nel V secolo a.C.,  a teorizzare il maestoso potere della parola. Il logos, diceva, è un “gran dominatore”, che può funzionare come medicina e veleno. Può curare gli animi, può ferirli; può raccontare la verità, può far passare per verità la menzogna. Banale, si dirà, ai tempi delle fake news. Non troppo. Perché anche se siamo stati ormai svezzati dal web e dai social network, quell’incredibile potere della parola, della retorica, continua a renderci fragili, se non abbiamo strumenti per difenderci. La dimostrazione è qui, sotto i nostri occhi.

Era il 1938, quando, a quella parte di opinione pubblica che si ribellava contro la campagna denigratoria che montava nei confronti degli ebrei, e che cominciava a produrre risultati disumani, altra parte di opinione pubblica rispondeva opponendo l’argomento retorico tanto di moda oggi: il buonismo. Allora, però, si chiamava pietismo, e, anziché ripetere come un mantra: “E allora i terremotati?”, “E allora gli esodati?” o simili, si opponevano alle condizioni degli ebrei quelle delle “povere operaie italiane”, alle quali, si diceva, nessuno pensava. L’idea sottesa a questa retorica, in qualunque modo venga declinata, è sempre la stessa: quella di rendere poco credibile chi denuncia un’ingiustizia, chi si oppone a un clima di discriminazione od odio, tacciandolo di ipocrisia o, con una sapiente trasposizione semantica, facendo passare per “buonismo” la sua sincera preoccupazione per il destino di una certa categoria di esseri umani.

Non è tutto: a questa tecnica retorica se ne aggiunge un’altra, ancora più subdola, sapientemente usata dall’attuale ministro dell’Interno in tutti questi anni, e che potrebbe essere definita “razzismo al contrario”. Tradotto in parole povere, significa instillare il dubbio che “voi, buonisti, difendete gli immigrati invece che parlare degli italiani. Voi pensate più agli stranieri che ai vostri connazionali. Voi siete anti-italiani”. Così facendo, si oppone povero a povero, essere umano a essere umano, si caratterizza l’uno come oggetto delle attenzioni dei “radical chic” e l’altro come bistrattato da tutti; si gioca biecamente sull’antipatia, vero segno dei tempi, per tutto ciò che non è “popolo” e “del popolo”, fino all’estremo per cui l’ignoranza e gli istinti più irrazionali vengono preferiti, in quanto più “veraci”, ad argomentazioni ponderate, frutto di ampia documentazione e approfondimento.

Da qui a tacciare di “radical-chicchismo” chi persegue una campagna contro le discriminazioni, ma lo fa con un orologio vistoso al polso, il passo è breve. Per carità: assolutamente legittimo pensare che quel testimonial non sia proprio il più azzeccato per il messaggio che si vuole trasmettere. Ma, altro segno dei tempi, anziché limitare la critica a quella scelta, si finisce per screditare l’intera campagna, di per sé legittima se non doverosa, fatta passare per l’ultima fissazione di qualche signorotto ipocrita di sinistra.

Una precisazione: lungi da me difendere la classe politica e dirigente di sinistra degli ultimi decenni, che, se siamo arrivati a questo punto, ha la sua buona dose di responsabilità. Ce l’ha anche oggi, continuando a non capire che irridere Salvini da un pulpito perlomeno traballante non è certo un buon modo per costruire un’alternativa credibile. Il fatto, dunque, che sia così accreditata agli occhi dell’opinione pubblica l’immagine dei “comunisti con il Rolex” è perché questa classe ideologico-politica esiste davvero, eccome se esiste, e ha completamente smarrito per strada il contatto con chi avrebbe dovuto rappresentare. Persone che non a caso, oggi, votano Lega o Cinque Stelle.

Ma attenzione: un conto è dissociarsi legittimamente da questi rappresentanti politici poco efficaci; altro conto è farsi ipnotizzare dalla retorica dell’anti-buonismo, che vede “radical-chiccheria” ovunque venga espressa una posizione diversa dalla propria, o, peggio, che usa lo spettro del “radical-chicchismo” per annebbiare la propria coscienza di fronte a campagne umanitarie e d’opinione, di questi tempi, tanto scomode, quanto necessarie. E così si confondono le acque, si generalizza, si promuove l’equivalenza tra una legittima preoccupazione per una delle categorie più bistrattate di questi tempi – i profughi – e la cosiddetta “spocchia di sinistra”, spocchia di chi di quei profughi finge di preoccuparsi, ma poi mai li accoglierebbe a casa propria. Può anche darsi che sia così, per molti, non per tutti: ma ciò non toglie valore alla causa.

Attenti, dunque: chi persegue questa retorica controversa non sta pensando al vostro bene, non sta cercando di evitare che vi facciate impallinare dall’insopportabile “radical-chicchismo” di cui sopra: sta piuttosto facendo in modo che voi non pensiate nel merito, non interroghiate la vostra coscienza, non vi mettiate nei panni, ancora una volta, di una categoria di esseri umani ad oggi barbaramente strumentalizzata per avere il vostro voto, per avere la vostra lealtà, per controllarvi, per manipolarvi.

Non amo fare facili paragoni storici, non amo accostare Salvini a Hitler, né tantomeno gridare allo spettro di una nuova Shoah (ho troppo rispetto dei morti e dei vivi), e dunque non lo farò. Ma questo (ab)uso retorico e strategico del termine buonismo non può non ricordare l’uso altrettanto retorico e strumentale di “pietismo”, in un’epoca dove l’intolleranza e l’odio vennero davvero usati nel modo più criminale e becero possibile contro un’intera categoria di esseri umani, gli ebrei, dipinti come capro espiatorio di tutti i mali, fino al punto di essere ingiustamente perseguitati e puniti. Non c’è ancora ragione di credere che verrà un nuovo 1938. Ma, almeno in merito a come vengono usate le parole per plasmare le vostre, le nostre menti, per favore, aprite, apriamo gli occhi. Non lasciamoci fregare. Un’altra volta.

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Giulia Pozzi

Giulia Pozzi

Classe 1989, lombarda, dopo la laurea magistrale in Filologia Moderna all'Università Cattolica di Milano si è specializzata alla Scuola di Giornalismo Lelio Basso di Roma e ha conseguito un master in Comunicazione e Media nelle Relazioni Internazionali presso la Società Italiana per l'Organizzazione Internazionale (SIOI). Ha lavorato come giornalista a Roma occupandosi di politica e affari esteri. Per la Voce di New York, è stata corrispondente dalle Nazioni Unite a New York. Collabora anche con "7-Corriere della Sera", "L'Espresso", "Linkiesta.it". Considera la grande letteratura di ogni tempo il "rumore di fondo" di calviniana memoria, e la lente attraverso cui osservare la realtà.

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