Ho scoperto Anthony Bourdain per caso. Tanti anni fa una mia amica mi regalò Kitchen Confidential, un libro che, in maniera molto simpatica, condensava ciò che i miei amici chef mi avevano sempre raccontato: “E’ un mestieraccio”, “Non ci sono orari, non ci sono vacanze, non c’è famiglia”. E poi “Non puoi abbassare la guardia, se lo fai i tuoi incassi si riducono all’osso. Tutti cercano di fregarti”. Un coro di lamentele universali che, di sicuro, ha contribuito alla mia decisione di continuare a cucinare, ma solo per la famiglia e gli amici. Un libro che sottolinea l’enorme pressione psicologica che un cuoco prova nel preparare i piatti per i clienti, per avere il timing perfetto, che la bistecca al sangue e il risotto siano pronti allo stesso tempo senza distrazioni, senza soste mentre contemporaneamente ci sono altri venti piatti da preparare. E tra i miei amici chef professional ci sono alcuni denominatori comuni: la stanchezza, l’alcohol, la droga e la solitudine dopo che si spengono i fornelli. Tutte cose che Anthony Bourdain ha provato e scritto nel suo libro.
Ho mangiato nel ristorante dove lui aveva lavorato, la “Brasserie Les Halles” quando abitavo a Manhattan vicino a Union Square, ma lui non lavorava più in cucina. Aveva optato per le telecamere. Aveva deciso che cucinare comportava troppi sacrifici e quindi commentava o dirigeva programmi di gastronomia.
Di lui mi piaceva la sua semplicità del racconto, la sua schiettezza, la sua onestà narrativa. Per il canale televisivo “Food Network” era fuori dalla mischia degli altri chef. Si vedeva che era un cultore della purezza: considerava i piatti elaborati un “trucco”, una “finzione” per nascondere e confondere i sapori.
Passò poi al canale televisivo Travel Channel e qui, tra un volo aereo, un albergo di lusso e le inquadrature dei monumenti delle città, presentava i piatti preparati nei migliori ristoranti del posto. Ma era un “programma-vetrina” fatto da un canale che promuove i viaggi e lui, in quella presentazione, mostrava il lato gastronomico del viaggio. Un programma che lo portò alla notorietà nazionale, ma si vedeva che era uno scettico della cucina elaborata. Cercava una cucina buona ma semplice e soprattutto popolare perché lui, almeno in tv, era molto diretto, proprio come il cibo che mangiava. E voleva un programma dove indifferentemente si poteva mischiare sia tra i ristoranti che servivano cibo casareccio con tanti piatti tradizionali e pochi fronzoli, che nelle case della gente a cui piaceva cucinare e mangiare.

Il salto alla popolarità internazionale venne proprio con CNN dove curava la trasmissione “Parts Unkown” una serie che lo proiettò ovunque nel mondo venga mostrato il canale all news. E in questo programma Anthony Bourdain, con molta abilità creò una trasmissione in cui mostrava la simbiosi tra alimentazione e antropologia alimentare. Spiegava perché gli italiani mangiano la pasta, o perché le cucine nordiche usano il burro e non l’olio d’oliva. Con la sua voce profonda riportava come anche nei paesi “poverissimi” si possa mangiare con gusto. Era uno che “parlava” con il cibo. Esaltava la cucina popolare. Un misto di eno-gastronomia condita di scienza dell’alimentazione raccontata davanti ad un bicchiere di vino. Insisteva che la cucina povera non necessariamente deve essere meno buona della cucina ricca. E per questo con la telecamera entrava nelle case dove persone a cui piaceva cucinare avevano preparato i loro piatti. Un modo semplice per esaltare la quotidianità della buona cucina. Incontri che avvenivano nelle parti più disparate del mondo, da Santiago del Cile ad Hanoi, da Amsterdam a Palermo. E in Sicilia cinque anni fa ci fu forse il prologo alla tragedia maturata a Friburgo. Mentre preparava il capitolo dedicato alla cucina siciliana, uno chef locale, Turi, con cui avrebbe dovuto condurre la puntata, cercando goffamente di esaltare la pescosità del mare siciliano, gettò in acqua una decina di polipi pescati nei giorni precedenti. Anthony Bourdain se ne accorse e la puntata ebbe tutto un altro risvolto. Secondo quanto venne poi raccontato, al ritorno in albergo Bourdain ebbe una crisi isterica per la disonestà del suo collaboratore e in un raptus di ira svenne, rimanendo privo di sensi per alcune ore. L’episodio venne messo da parte. Alcuni parlarono delle conseguenze dell’alcol e droga dei suoi anni da chef, ma non successe più nulla.
Ricorderò sempre con molto piacere una delle numerose puntate di “Parts Unknown” dedicate a Roma dove prima di presentare un piatto fece un preambolo per me molto importante: disse che era nato negli Stati Uniti, ma se avesse potuto scegliere, sarebbe nato a Roma. Una frase che immediatamente me lo rese ancora più simpatico. E nella puntata mostrava come un piatto così semplice e popolare come i tagliolini cacio e pepe sia degno delle cucine più nobili. In un’altra puntata parlando della trippa alla romana disse: “E’ uno dei miei piatti preferiti, ma se non la si prepara a dovere puzza come un cane bagnato”.
La sua conoscenza gastronomica era universale, con molta disinvoltura passava dal foie gras o dall’escargots de Bourgogne della cucina francese al limboke, il pesce coperto dalle foglie di banana cotto al vapore, tradizionale della cucina congolese.
In un’altra serie di puntate dedicate alla cucina tipica di Puglia e Basilicata, Bourdain si ferma a Bernalda, il paese dei nonni di Francis Ford Coppola dove il regista ha comprato e gestisce un albergo con ristorante, prosegue per la Puglia per una cena salentina durante la festa della taranta e prosegue con un picnic sulla spiaggia a Monopoli tra lampascioni, braciole di cotenna di maiale, capuzzelle, cozze e ricci di mare. “Per me – dichiara – è importante la storia, il folklore, la religione di un Paese. Ma se mi chiedi cosa sia più importante la mia risposta è la cena perchè racchiude tutti questi concetti”.