Organizzare a Trento quest’anno la 91esima Adunata degli Alpini è sembrata a molti una sfida, se non una provocazione. Una sfida raccolta, in primis, dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ha assistito, domenica 13, alla grande parata finale, assieme al ministro della Difesa uscente Roberta Pinotti, a Maria Elisabetta Alberti Casellati, presidente del Senato, e al capo di Stato maggiore della Difesa, generale Claudio Graziano. In definitiva una sfida vinta.

Se parliamo di sfida non ci riferiamo ovviamente alle questioni organizzative, che sono state comunque notevoli: perché, secondo il dato ufficiale dei partecipanti all’Adunata, portare in una città di 100.000 abitanti ben 450.ooo persone non è certo cosa banale, neanche per i volonterosi trentini e per i disciplinatissimi (almeno fino all’inizio delle libagioni) alpini. Né ci riferiamo agli attentati dimostrativi – pare di matrice anarchica – ai danni di tre centraline ferroviarie, che hanno interrotto per qualche ora il traffico dei treni sulle linee del Brennero e della Valsugana, nella prima delle tre giornate dell’evento.

Ci riferiamo invece alle questioni “politiche”, di quella politica, però, che impatta sulla memoria, sul sentire della gente comune, sui ricordi coltivati dalle famiglie. Questo 2018 è infatti il centenario della fine della Prima guerra mondiale. Ora, non occorre avere letto Lussu per sapere che quella guerra – la prima combattuta con modalità “moderne” – ha portato sofferenze e lutti inenarrabili sia tra le fila degli eserciti che fra la popolazione civile. Il Trentino è stata certamente una delle terre che ha pagato di quel conflitto il prezzo più alto. Innanzitutto, sulle sue montagne, sui nevai e sui ghiacciai dell’Adamello, così come sull’Altopiano di Lavarone-Folgaria, si è combattuta la cosiddetta “Guerra bianca”, una guerra che metteva in gioco, oltre ai soldati, ai muli, alle armi, alle trincee, anche la durezza degli elementi: la neve, il gelo, le valanghe, i pendii impervi.
Ma c’è di più: la gran parte dei trentini vestirono – ovviamente – le divise dell’Austria, non dell’Italia, essendo all’epoca il Trentino parte dell’Impero austroungarico. Di loro l’Italia si è occupata poco o nulla. Eppure furono quasi 60.000 quelli che combatterono per l’Imperatore Francesco Giuseppe (sì, proprio il marito della principessa Sissi). E, per tragica ironia, non nelle trincee che correvano a pochi chilometri da casa loro, ma molto più a nord, in gran parte in Galizia, fra le attuali Polonia e Ucraina, contro i russi, perché gli austriaci non si fidavano di loro, li consideravano, dopotutto, troppo italiani. Per contro, gli irredentisti, che combatterono con Cesare Battisti e per il Regno d’Italia, furono meno di 700. E non è ancora tutto: poiché, come abbiamo detto, in Trentino passava la linea del fronte, una fetta consistente della popolazione civile venne sfollata, in quello che fu un vero e proprio doppio esodo: 75.000 persone, in gran parte donne, bambini, vecchi, furono trasferite in campi profughi di Austria, Boemia, Moravia. Altre 35.000 in Italia, un’Italia ancora meno preparata ad accoglierle.
Bastano questi pochi dati, che i trentini conoscono e custodiscono nei loro cuori, per capire che se l’Adunata di quest’anno avesse calcato l’accento sulla retorica nazionalista e bellicista, o peggio sulla celebrazione della “vittoria italiana”, le cose si sarebbero messe male. Così non è stato. Fin dall’inizio, Associazione nazionale alpini, autorità civili e militari, sia locali che nazionali, e non da ultimo anche quei pochi intellettuali e studiosi che ancora si occupano di queste vicende (per la verità attualissime, in un’Europa che rischia di perdere per strada anche la poca unità di intenti e di azione che ha accumulato in questi anni) sono stati concordi nel sottolineare come l’Adunata del centenario sarebbe stata una celebrazione della pace e della riconciliazione. Pronostico rispettato. Mattarella ha reso omaggio ai caduti di entrambe gli eserciti, quello italiano e quello austroungarico, accompagnato fra gli altri anche dal Console Generale d’Austria Wolfgang Spadinger. Un gesto non banale, considerati i venti “sovranisti” che spirano su Vienna, e ora a quanto pare anche su Roma.

Ma per fortuna in Trentino i simboli di pace abbondano. Ad esempio la Campana dei Caduti di Rovereto, costruita nel primo dopoguerra fondendo il bronzo dei cannoni schierati sulle diverse trincee, che ha ospitato per l’occasione una cerimonia ai caduti davvero ecumenica (sia perché ha ricordato tutti gli eserciti che si sono dati battaglia lì, sugli altipiani insanguinati di cui ha scritto Hemingway, sia perché ha unito cattolici, ortodossi ed evangelici, ovvero le tre comunità cristiane che non hanno esitato a massacrarsi sui fronti della Grande guerra). Sempre a Rovereto, gli alpini hanno sfilato con gli Schützen, la tradizionale milizia di difesa territoriale operante ai tempi del Tirolo austriaco, che ancora qui sopravvive come associazione culturale. Piccoli, segnali? Forse. Ma di questi tempi non ci si può permettere di buttare via nulla, anzi. Persino il Papa se n’è accorto, e a mezzogiorno da Piazza San Pietro a Roma, durante l’Angelus, ha voluto a sua volta mandare un messaggio all’Adunata di Trento e agli alpini: “Li incoraggio ad essere testimoni di carità ed operatori di pace sull’esempio di Teresio Olivelli, alpino difensore dei deboli recentemente proclamato Beato”.
All’Adunata hanno partecipato anche 300 penne nere provenienti dall’estero. L’Ana infatti è presente oggi in Europa, Canada, Stati Uniti, Sud Africa, Sud America e Australia, con 1.549 iscritti ordinari e 1.280 sostenitori. Assieme a loro, migliaia di cittadini, perché le Adunate degli alpini (la prima si tenne nel 1920 sul monte Ortigara) sono anche delle grandi feste di piazza, dove si beve, si canta, ci si accampa con tende e camper nei parchi pubblici. Quasi giganteschi baccanali, dove le regole della vita di ogni giorno sono sospese, a cui partecipano tutti, anche tante ragazze, anche tanti immigrati che abbiamo visto fraternizzare con le divise per le strade di Trento. Questo magari fa storcere il naso a qualcuno, ma tant’è, gli alpini ispirano simpatia anche a chi è impermeabile al fascino delle divise e delle bandiere spiegate, anche perché, come ha detto il presidente della Provincia di Trento Ugo Rossi, dando voce al sentire di molti, “alpini è sinonimo di protezione civile”, cioè di impegno volontario e gratuito, quando e ovunque ci sia bisogno di aiuto.

Tutto bene, dunque? Ovviamente il discorso resta aperto. L’Italia non è un paese particolarmente bellicista. Chi frequenta le cattedrali o i musei di Inghilterra, Scozia, Francia, sa quanto maggiore è in quei Paesi l’esaltazione delle imprese militari e dei corpi che vi hanno preso parte. Semmai è un paese senza memoria, o con una memoria molto selettiva. Sulla Prima guerra mondiale forse abbiamo idee un po’ più chiare, complice tanta buona letteratura e tanta tenace storiografia (ma con “buchi” ancora enormi, nell’immaginario collettivo, come quelli che citavo all’inizio riguardo al Trentino). Sappiamo o ricordiamo assai meno della guerra d’Etiopia, ad esempio, o delle truci imprese che ci hanno visto protagonisti nei Balcani, assieme ai nazisti (che alimentarono l’odio poi scatenatosi sulle Foibe). Gli alpini, dal canto loro, sono stati senza dubbio soldati, e come tali hanno sparato e ucciso. Ad essere precisi le truppe alpine, che nel 1997 hanno ereditato la loro storia, sono anche oggi presenti in scenari di conflitto, in particolare in Libano, anche se come forza di interposizione sotto l’egida dell’Onu.
Ma gli alpini sono soprattutto altro. Sono un simbolo non-divisivo di un’Italia “montanara”, votata al fare assieme, in guerra e oggi soprattutto in pace. Sono anche, a volte, “il corrimano a cui ci si aggrappa quando l’autobus inizia a sbandare”, come ha detto Toni Capuozzo, anche lui un ex-alpino, pensando magari a qualche terremoto o a qualche alluvione che ha funestato l’Italia. Forse è vero che per gli alpini “non esiste l’impossibile”, come recitava il motto di questa adunata. Ma per la grande maggioranza di noi ciò non si traduce in una straordinaria capacità offensiva. Il supersoldato che certamente in qualche laboratorio nascosto del mondo sta venendo alla luce, il killer perfetto, geneticamente modificato, privo di sentimenti, armato ad intelligenza artificiale, non abita qui.