Robert Mueller vuole sottoporre a interrogatorio Donald Trump, e per convincere il Presidente – decisamente restio a passare sotto il “metal detector” del Procuratore speciale – sarebbe pronto anche a emettere un mandato di comparizione davanti al Gran Giurì. La notizia, lanciata dal Washington Post la scorsa settimana, è poi rimbalzata di quotidiano in quotidiano, di testata in testata, e ogni giorno si arricchisce di nuovi particolari, scenari, ipotesi. Non da ultima, la possibilità che Trump si giochi la carta del licenziamento del Procuratore speciale, per sfuggire alle sue domande indiscrete.
Domande che il New York Times ha pubblicato – 48, di preciso – la scorsa settimana, suddividendole per argomenti e tipologia. Alcune riguardano Michael Flynn, già consigliere per la sicurezza nazionale di Donald Trump in seguito licenziato; altre James Comey, ex direttore dell’Fbi licenziato anche lui; altre ancora hanno a che fare con Jeff Session, già procuratore generale finito sotto torchio davanti a una Commissione al Senato sul Russiagate e autoesclusosi dalla stessa inchiesta dopo essere stato accusato di aver mentito; altre ancora sul presunto coordinamento russo della campagna.
Domande certamente scottanti, a cui Trump, consigliato dai suoi avvocati, farebbe di tutto per non rispondere. Anche licenziare Mueller? Questa, intanto, è la domanda che la stampa si pone, una domanda che per ora non ha una risposta certa. Intanto, gli avvocati di Trump, secondo le ricostruzioni della stampa, avrebbero più volte ricordato che il Presidente non è obbligato a rispondere alle domande nell’ambito del Russiagate.
Lo ha ripetuto anche Rudy Giuliani – rappresentante legale di Trump ed ex primo cittadino di New York -, comparendo alla trasmissione ABC “This Week”. “È il presidente degli Stati Uniti”, ha ricordato, “e possiamo avvalerci dello stesso privilegio di cui si sono avvalsi altri Presidenti”. Il riferimento è alla tenace resistenza di Bill Clinton a comparire in giudizio ai tempi dello scandalo Monica Lewinsky. Ma, alla fine, Clinton si presentò suo malgrado di fronte al Gran Giurì e il suo colloquio durò ben 2 ore e mezzo.
Ad ogni modo, il team di Mueller, secondo ben quattro fonti citate dal Washington Post, avrebbe ribadito che, in caso di diniego, farà emettere un mandato di comparizione ufficiale. Ma perché tanta paura dell’interrogatorio se, come il Presidente ripete come un mantra, “no collusion”, non vi fu collusione? Secondo Giuliani, il Commander-in-Chief sarebbe anche disposto a comparire, ma sono i suoi legali a consigliargli ardentemente di non cedere. Perché, afferma Giuliani, temono che il Presidente non riceverebbe un “trattamento equo”. “È perseguibile solo se hanno prove costruite e manipolate”, afferma Giuliani. Come a dire: stanno cercando di fare di tutto per incastrarlo, e con l’interrogatorio Trump potrebbe finire nella loro rete. Soprattutto perché, si sa, il Presidente non è noto per la prudenza e l’accuratezza delle proprie affermazioni.
Il timore, insomma, è che il Commander-in-Chief possa inciampare in un tranello, e finire per tradirsi. Giuliani non ha neppure escluso che Trump possa fare appello al Quinto Emendamento, che tutela il diritto a non auto-incriminarsi. Ma soprattutto, l’ex sindaco di New York ha cercato di minimizzare la portata di quei 130mila dollari pagati dall’ex legale di Trump Michael Cohen per tappare la bocca a Stephanie Clifford, attrice di film hard nota come Stormy Daniels. “So che può suonare divertente alle persone a casa, ma non ho mai pensato che 130mila dollari fosse un vero pagamento”, ha detto. “È un pagamento da scocciatura, perché quando devo risolvere una questione, quando c’è un reale problema, allora si tratta di un paio di milioni di dollari, non 130mila. Le persone non spariscono per 130mila dollari, quando hanno una rivendicazione credibile”.
Eppure, c’è chi ritiene che, interrogatorio o no, Mueller o no, l’incredibile storia del Russiagate non si fermerà qui, ma sarà destinata a gonfiarsi sempre di più. Scrive Darren Samuelsohn su Politico: “Il Presidente Donald Trump riuscirà forse a togliere di mezzo il procuratore speciale Mueller, ma di certo non può far sparire l’indagine sulla Russia”. Anche perché il licenziamento dell’avversario avrebbe conseguenze politiche enormi. E le domande pubblicate dal New York Times dimostrano che, anche se Mueller finisse fuori gioco, le questioni da lui sollevate non si sgonfierebbero di certo, e l’inchiesta sarebbe destinata ad andare avanti. I funzionari del Dipartimento di Giustizia e gli agenti dell’FBI potrebbero semplicemente continuare da dove Mueller aveva lasciato. E gli stessi rappresentanti legali degli stati potrebbero portare le loro accuse contro Trump e il suo team. Persino da privato cittadino, Mueller sarebbe in grado di pubblicizzare le sue scoperte davanti al Congresso. Anche l’eventuale tentativo di sostituire gli ufficiali del Dipartimento di Giustizia potrebbe non riuscire a proteggerlo. Ad esempio, secondo Politico il Commander-in-Chief avrebbe più volte meditato di licenziare il supervisor di Mueller, Rod Rosenstein, ma anche un suo sostituto più gradito alla Casa Bianca potrebbe non avere modo di silenziare l’investigazione sul Russiagate, perlomeno non senza scontrarsi con l’apparato di giustizia. È questo il punto di vista, tra gli altri, dell’ex direttore dell’FBI James Comey, che Trump licenziò nel 2017 e che, durante una sua apparizione a Washington, disse che il licenziamento di Mueller sarebbe “totalmente inefficace nella pratica” e che, in ultima istanza, “non farebbe alcuna differenza”.
Attenzione, però: perché, proprio mentre scriviamo, giunge la notizia delle accuse di molestie e atti violenti a carico di Eric Schneiderman, procuratore generale di New York. Accuse che lasciano basiti tanto più che Schneiderman si è sempre posto come campione della difesa dei diritti e della dignità delle donne, e ora rischia di essere travolto proprio da quel movimento #MeToo che ha sempre, pubblicamente, sostenuto. Dopo la pubblicazione dell’inchiesta del New Yorker, Schneiderman ha rassegnato le sue dimissioni, riconoscendo le accuse come incompatibili con la carica da lui ricoperta. E da questa incresciosa vicenda, Trump ha tutto da guadagnare: perché il Procuratore Generale lavorò lo scorso anno con il team di Mueller per indagare su Manafort e le sue transazioni finanziarie. E sebbene sia rimasto un passo indietro a Mueller nell’attivismo contro Trump, di recente alcune fonti a lui vicine hanno testimoniato che Schneiderman era impegnato a monitorare gli sviluppi sul Russiagate, preparandosi a fare da barriera al Procuratore Speciale.
Proprio lo scorso mese, Schneiderman invitò i legislatori a cambiare uno statuto dello stato di New York che impedisce ai destinatari della grazia presidenziale di essere perseguiti per un reato simile. Una mossa letta come una risposta al timore che Trump possa decidere di graziare Cohen o Manafort. Ma che fine farà questa riforma ora che il Procuratore se la deve vedere con accuse tanto infamanti?