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Altro che #MeToo: Eric Schneiderman, You Too!

Accuse di violenze a carico di Eric Schneiderman, già Procuratore Generale di NY: con lui, l'universo liberal (e anti-Trump) travolto dalle sue stesse battaglie

Giulia PozzibyGiulia Pozzi
Altro che #MeToo: Eric Schneiderman, You Too!
Time: 4 mins read

La storia è di quelle enormi. Di quelle di cui non si può non parlare, e di quelle che creano un uragano che rischia di radere al suolo molto più che la reputazione e la rispettabilità di una sola persona. La storia è quella di Eric Schneiderman, procuratore generale dello stato di New York, divenuto volto maschile e autorevole del #MeToo Movement, dopo che utilizzò la sua autorità legale contro Harvey Weinstein, potente produttore finito in disgrazia a causa delle accuse di sexual harassment e molestie ricevute da diverse attrici e donne del mondo dello spettacolo. Fu proprio Schneiderman a lottare perché le donne che avevano denunciato la vicenda ricevessero i giusti risarcimenti. È stato lui a congratularsi, tra i primi e più entusiasti, con New York Times e New Yorker insigniti del premio Pulitzer per la copertura della stessa vicenda di sexual harassment. Ma poi la vita è strana, e un giorno, aprendo il New Yorker, trovi l’affidabile volto di Schneiderman piazzato in apertura, macchiato irreversibilmente, a sua volta, da accuse di molestie e violenze contro alcune donne. E, in un attimo, il pirandelliano “cielo di carta” crolla miseramente.

Come per la più ovvia e insieme paradossale legge del contrappasso, quattro donne hanno accusato l’ormai ex Procuratore Speciale (che dopo la tempesta ha rassegnato le sue dimissioni) di averle sottoposte a violenza fisica, naturalmente in modo non consensuale. Tali donne avrebbero tutte avuto relazioni, più o meno romantiche, con il Procuratore, ma, come troppo spesso accade, sarebbero state a lungo riluttanti a denunciare, naturalmente per paura delle conseguenze. Poi, due di loro – Michelle Manning Barish e Tanya Selvaratnam – hanno raccontato la loro storia al New Yorker, pubblicamente. Per impedire, hanno affermato, che altre donne dovessero subire la loro stessa sorte. Così, hanno accusato Schneiderman di averle frequentemente picchiate, spesso dopo aver bevuto, anche a letto e senza il loro consenso. Addirittura, Selvaratnam ha imputato al Procuratore uscente di averle promesso che l’avrebbe fatta seguire e intercettare, mentre entrambe sostengono di aver ricevuto minacce di morte nel caso in cui avessero deciso di rompere con lui.

Secondo le due donne, un’altra ex partner dell’uomo ha sostenuto di essere stata costretta a subire violenza fisica da lui, aggiungendo di essere stata troppo spaventata per farsi avanti. Una quarta donna sarebbe un’importante avvocato che ha ricoperto ruoli legali di rilievo nella comunità di New York, e che ha dichiarato di aver subito delle avance da Schneiderman, salvo poi, a seguito del suo rifiuto, essere stata schiaffeggiata con violenza. La donna ha chiesto di rimanere anonima, ma avrebbe condiviso con il New Yorker una fotografia delle conseguenze delle percosse.

“Nel privato delle mie relazioni intime, mi sono dedicato a giochi di ruolo e altre attività sessuali consensuali. Non ho mai aggredito nessuno. Non ho mai praticato sesso non consensuale, che è una linea che mai attraverserei”, ha ribattutto Schneiderman. Salvo poi dimettersi dal ruolo di Procuratore Speciale, da lui stesso riconosciuto come incompatibile con le accuse infamanti ricevute. Certamente, queste storie aprono squarci dalle dimensioni ancora ignote sul mondo liberal di cui Schneiderman era esponente. Mondo a cui peraltro due delle accusatrici, Manning Barish e Tanya Selvaratnam, fieramente appartengono, visto che entrambe le donne, che vivono a Manhattan, sono femministe progressiste democratiche. Ed è proprio – sostengono – dopo che Schneiderman ha assunto il ruolo di paladino del #MeToo, che hanno deciso di smascherarlo.

In effetti, l’attivismo dell’ex Procuratore su cause di genere gli ha in passato facilmente guadagnato il consenso di molti gruppi di donne. Il primo maggio, il National Institute for Reproductive Health, situato a New York, lo ha onorato come uno dei tre cosiddetti “Champions of Choice” al tradizionale evento di fundraising. Con il senno di poi e alla luce di tali accuse – sulle quali la giustizia farà il suo corso -, tale onorificenza sembra ben più che paradossale. E se tutto fosse confermato, più che “campione della scelta”, Schneiderman risulterebbe un campione di ipocrisia.

L’incresciosa e gravissima vicenda rappresenta anche la tragica fine della carriera di Schneiderman, durante la quale si è battuto per i diritti delle donne in diversi campi, per esempio per il loro accesso alle cure mediche. L’uomo non può certo considerarsi estraneo alla politica, in senso lato e in senso stretto. Nel 1998 fu eletto senatore, nel 2010 Procuratore Generale dello stato di New York, carica che gli è stata riconfermata quest’anno. Si è spesso rappresentato come un outsider, nutrendo, molti dicono, l’ambizione di diventare governatore. A questo proposito, ha collaborato all’inchiesta sul Russiagate con Robert Mueller, e proprio in questo periodo si stava battendo per eliminare lo statuto che protegge, di fronte alla legge, gli individui che si sono avvalsi della grazia presidenziale, strumento, secondo alcuni, che Trump avrebbe potuto utilizzare con Cohen o Manafort per intralciare le indagini sul Russiagate.

Non solo: nell’ultimo anno ha nettamente aumentato la sua notorietà, portando nei tribunali, come ordine del giorno, le vicende di Trump, anche lui accusato di sexual harassment. In precedenza, aveva agito legalmente contro il travel ban del Presidente. Lo scorso giugno, introdusse un progetto di legge sulla contraccezione gratuita – simile a quello già previsto l’anno precedente -, dicendo che l’entrata di Trump alla Casa Bianca motivava l’urgenza di prendere tali provvedimenti. E ancora prima che il Commander-in-Chief si insediasse alla Casa Bianca, Schneiderman intentò una causa contro la Trump University. Tutte ragioni in più per sostenere che l’uragano che si sta abbattendo contro l’ex procuratore non potrà non avere pesanti conseguenze politiche sul campo liberale, progressista e, aggiungeremmo, anti-Trump. Che, tramite lui, rischia di vedersi travolto dalle stesse battaglie che combatte.

 

 

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Giulia Pozzi

Giulia Pozzi

Classe 1989, lombarda, dopo la laurea magistrale in Filologia Moderna all'Università Cattolica di Milano si è specializzata alla Scuola di Giornalismo Lelio Basso di Roma e ha conseguito un master in Comunicazione e Media nelle Relazioni Internazionali presso la Società Italiana per l'Organizzazione Internazionale (SIOI). Ha lavorato come giornalista a Roma occupandosi di politica e affari esteri. Per la Voce di New York, è stata corrispondente dalle Nazioni Unite a New York. Collabora anche con "7-Corriere della Sera", "L'Espresso", "Linkiesta.it". Considera la grande letteratura di ogni tempo il "rumore di fondo" di calviniana memoria, e la lente attraverso cui osservare la realtà.

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