Gioacchino Crisafulli era un appuntato dei carabinieri in quiescenza quando il 27 aprile del 1983 fu ucciso nei pressi di casa a Palermo. Per anni l’omicidio restò ad “opera di ignoti”, relegato in un polveroso archivio della procura palermitana. Un omicidio di cui si parla poco. Una vittima di mafia che pochi conoscono. Nella ricorrenza del 35° anniversario abbiamo contattato il figlio Carmelo, anch’egli carabinere in quiescenza, per farci raccontare l’accaduto e come si pervenne alla soluzione del caso.
Carmelo, tu come sapesti dell’uccisione di tuo padre?
“Lo seppi perché rientravo a casa e vidi le macchine che bloccavano il traffico qua vicino, nei pressi del luogo dove fu ucciso, e capii subito che era successa qualche cosa perché a 20 metri di distanza, vent’anni prima, avevano ucciso un’altra persona che era un vicino di casa. Avevo immaginato che si trattasse di mio padre, sai la sensazione… il mestiere. I colleghi mi hanno bloccato con la macchina, io invece sono andato sul posto, mi sono avvicinato al cadavere, e quindi l’ho visto a terra, non era ancora arrivato neanche il magistrato di turno, non era arrivata la scientifica, non era arrivato nessuno. Arrivai nell’immediatezza dei fatti, ancora era caldo. Poi iniziò il calvario, perché passati i primi momenti di smarrimento cominciarono le domande, ce ne facemmo tante. Mio padre, tra l’altro, aveva fatto arrestare una settimana prima dei ladri di auto, perché stavano smontando una macchina qui nei pressi, quindi chiamò e li fece arrestare”.
Lui era in pensione da 6 anni…
“Sì, era in pensione dal ’77, quindi di primo acchitto pensammo fosse stato per quella denuncia che aveva fatto qualche settimana prima ma fu escluso subito perché la criminalità comune non risponde in quel modo. Poi cominciarono anni di domande. La cosa che mi diede più fastidio durante le prime indagini fu il fatto che volevano fare la perquisizione a casa mia. Li cacciai a pedate perché era inammissibile, perché la perquisizione tu la devi fare a casa del morto, non a casa del familiare. E poi arrivarono gli interrogatori, tutto il solito iter ma era buio totale perché il motivo dell’omicidio noi non lo sapevamo. Pensammo anche alla droga perché avevamo inseguito, io e mio padre, una macchina con la quale si stava spacciando. Mio padre, pur se pensionato, non si era mai fermato, anche a naso capiva queste cose. E si andò avanti così, con gli inquirenti che sospettavano che io sapessi e non volessi dirlo. E’ stato terribile vivere così e lavorare, tra l’altro, in polizia giudiziaria. E’ un sentimento particolare, si vive male, non sai la motivazione, però capisci che nell’ambiente pensano al contrario, per cui sei nel limbo. Continuai a fare il mio lavoro. Poi, a un certo punto, mi volevano trasferire, fu un inferno”.
Tu all’epoca eri carabiniere?
“Avevo 30 anni, ero all’ufficio di Polizia Giudiziaria alla Procura della Repubblica, ero il più elevato in grado di PG, Maresciallo. Ho indagato, senza avere delega, io ho indagato, nel senso che ho cercato di chiedere in giro, o quanto meno di sapere la motivazione e loro me la fecero trovare la motivazione: mi fecero trovare una cassa da morto trasparente con un pappagallo morto dentro e una croce sopra. È un segno particolare, a questo punto non mi sono fermato, ho chiesto ancora…”
Per quelli che non lo sanno, che significato aveva il pappagallo, la bara e il resto?
“Il significato? Ha parlato, ha visto, ha detto qualcosa. Già per me, questo, era un segnale importante, perché mi faceva incanalare verso un altro tipo di idea. Si può fare una selezione: ha visto, si è accorto magari di un latitante, perchè noi abitiamo in una zona periferica di campagna che si presta moltissimo a questo, quindi magari avrà visto qualche latitante; una serie di supposizioni che ci davano un certo conforto perché se ne erano dette di tutti i colori. Vedi, uccidere una persona in quella maniera dava adito a qualcuno di chiedersi in chissà cosa fosse immischiato, chissà di cosa si stava interessando, perché essendo trascorsi più anni dal congedo ti chiedi: quali interessi poteva avere la criminalità ad uccidere una persona? Gente che magari pensava che mio padre avesse le mani in pasta, e questo è terribile. Fin quando non arriva il collaborante Salvatore Cancemi”.
Ma quindi le indagini vere e proprie iniziamo quando c’è questo collaborante?
“Certo, perché il fascicolo dopo anni era ancora parcheggiato, contro ignoti, come tanti. A Palermo in quegli anni ce n’erano molti. Erano passati molti anni, poi con il pentimento di Cancemi, il quale asserisce che è stato il mandamento Porta Nuova e Pagliarelli, si incominciano a capire i fatti. A quel punto a noi viene in mente che due giorni prima dell’omicidio due giovani si erano avvicinati a casa chiedendo una bottiglia d’acqua, quindi questa cosa collima. Chiesero una bottiglia d’acqua, mio padre la diede, sembravano dei muratori di cantieri vicini. Poi mio padre trovò la bottiglia intonsa, 50 o 60 metri di distanza, posata in un condotto dell’acqua. Era per accertarsi, identificare chi era il bersaglio”.
I killer chiesero una bottiglia d’acqua?
“Sì, suonarono a casa di mio padre e chiesero una bottiglia d’acqua, evidentemente non lo conoscevano, quelli erano gli esecutori. E poi lasciarono la bottiglia senza toccarla, e mio padre questa cosa la raccontò, perché gli sembrò strana. Come mai chiedi l’acqua e poi la lasci? E poi lo abbiamo pensato che era per accertarsi del viso, per non commettere errori. Ci fu quel primo sopralluogo”.
Quindi tuo padre li aveva visti…
“Certo, lui non si rese conto, perché la stranezza fu questa. Il furgone, il camion uscì da un posto, dove non era solito che i camion uscissero, è una serie di giardini demaniali. Tra l’altro noi avevamo la chiave di quel cancello, ecco perché mio padre si era fermato per chiedere chi fossero e perché uscissero da lì. Nella zona ci conosciamo tutti, per cui era strano, una moto ape poteva entrare, un carretto, oppure a piedi si può entrare, ma questo mezzo così particolare che cosa portava? E infatti fu questa la domanda, lui interrogò queste persone, come si legge dagli atti del processo, e loro lo hanno pure preso in giro, sono riusciti ad andare via, e a quel punto, si chiesero: “Ma chi è? Ci ha visti, ci ha fatto delle domande, ci ha bloccati”. E il mandamento decise l’esecuzione. Perché avranno pensato: questo sbirro è, ha un figlio sbirro, quindi se non è oggi è domani. Infatti Cancemi ammette i fatti, nella deposizione poi dice che è il mandante e quali fossero gli esecutori. Cancemi, era il capo mandamento di Porta Nuova. Ecco perché dico che la risoluzione del caso è chiara e lampante, perché non era stato uno della manovalanza. La dichiarazione veniva dal capo mandamento che si assumeva l’ordine dell’omicidio. Lui nel mandamento se la poteva giostrare come voleva perché dipendeva da lui, e quindi mandò due che erano di Pagliarelli, tra cui Gioacchino Cillari che abitava nella zona”.
Ma le indagini non partivano? Cioè c’è stata una negligenza secondo te?
“No. Negligenza no, il cerchio si chiude. Quando succede un omicidio le indagini si fanno a 360°. Si interrogano gli eventuali testimoni, i vicini, chi ha visto e chi ha sentito, se c’erano discussioni fra parenti, così si allarga il cerchio Sono cerchi concentrici che vai ad esplorare, ma quando hai visto che qui non c’è niente, le famiglie sono queste, appartenenti alle forze dell’ordine, non è che c’è da andare oltre, non hai spunti”.
Come ha sconvolto la vostra vita quell’omicidio?
“La vita è sconvolta perché da un momento all’altro tu ti ritrovi con due famiglie sulle spalle, non più una. Perché devi badare a una mamma e a una sorella che sono in casa, e poi la mia famiglia formata per i fatti miei, pensare a tutto. Tu ti sostituisci al capo famiglia, dover badare a tutta quella che è la vita di due famiglie, con tutto quello che ne consegue. Mia madre era una donna molto forte e l’ha superata in brevissimo tempo ma mia sorella non l’ha mai superata. È rimasta colpita, perchè lei ha sentito i colpi”.
Lei è andata a testimoniare al processo. Disse che aveva visto una motoretta
“Sì esatto, vennero con un vespino e lei si accorse di questi uomini con la coppola, il motorino che andava via. Sentì i colpi, si affacciò e li vide fuggire. Lo shock per una ragazza, studentessa, è grande. Non ha elaborato il lutto nonostante sia un medico, non è riuscita, è rimasta colpita. Nonostante siano passati tantissimi anni ancora non riesce, non va nemmeno al cimitero”.
All’epoca in procura lavoravano uomini come Falcone e Borsellino. Nel momento in cui avvenne l’omicidio chi era competente quel giorno, chi si occupò immediatamente del caso?
“Il giudice istruttore fu Di Lello per l’esattezza. Di Lello avocò a sé il processo, glielo diede Chinnici. Di Lello fece tutte le indagini, quando mi chiamò lui pensava che io fossi uno degli agenti operanti invece ero stato chiamato nel procedimento. Falcone non si occupò all’epoca del delitto perchè esso non fu inquadrato come delitto di mafia. Le indagini si arenarono perchè non c’erano spunti, nulla. Il processo fu a binario morto, ad opera di ignoti, si concluse con una ordinanza del giudice istruttore a carico di ignoti. Finché non è venuta fuori quella storia del pentimento, hanno riesumato il processo. Fummo fortunati in questo senso perchè quando passa tanto tempo poi gli omicidi finiscono sempre così. Invece nel momento in cui Cancemi iniziò a parlare disse che nella zona ci fu un omicidio di un carabiniere. Tirarono di nuovo fuori il fascicolo, che peraltro era stato fatto molto bene. Rilessero tutto: l’autopsia, le foto, il sopralluogo. Ricordo che quel fascicolo era alto 20 centimetri. La nostra fortuna fu questa, l’ammissione dei fatti da parte del collaborante. Da quel momento in poi combaciava tutto”.
Sono ancora in carcere?
“Sì, il killer è ancora in carcere. Anche perchè allora mi interessai io delle notifiche dei provvedimenti del mio avvocato, ho affiancato il mio avvocato, mi costituii parte civile”.
Quante prove si perdono nel percorso quando un omicidio viene risolto ad anni di distanza?
“Tante. C’è il rischio che non vada a buon fine. Perchè ci sono tante prove che poi non puoi più trovare o che comunque non puoi dimostrare se pure hai degli indizi. È molto difficile, io stesso ho risolto un caso quando lavoravo a Milano dopo tanti anni. Ho trovato l’arma del delitto, una sbarra abbandonata in campagna. Non è facile”.
Tuo padre con quale grado si era congedato?
“Appuntato. Ma solo il mese scorso gli hanno conferito la medaglia d’oro alla memoria. Io classifico i morti in quattro categorie. A,B,C,D. Dopo tanti anni mio padre è arrivato alla A, dalla D. Si vive male a causa di queste etichette. Io oggi mi affaccio e c’è qui vicino lo spiazzo dove è stato ucciso, a lui intitolato. Il riconoscimento secondo me serve moltissimo perchè ti dà la forza di andare avanti, altrimenti si vive molto male. Non conoscendo le motivazioni, sei in un limbo. Se però c’è la commemorazione ti fa capire che quell’uomo era perbene”.
Spesso partecipi ad incontri sulla legalità con giovani ai quali racconti la tua esperienza come vittima della criminalità organizzata. Cosa ti ha spinto a ciò?
“Il 1° ottobre 1978 durante l’irruzione in un covo delle BR a Milano venni gravemente ferito da Antonio Savino, brigatista della colonna Walter Alasia a Milano. Venni raggiunto da tre colpi di arma da fuoco, in un conflitto a fuoco da distanza ravvicinata, circa 50 cm. Io facevo parte degli uomini del Generale C.A. Dalla Chiesa. Quel giorno cambiò la mia vita, come cambia quella di un uovo che sopravvive ad uno scontro a fuoco mortale. Quando poi, a Palermo mio padre venne ucciso dalla criminalità organizzata mi resi conto che bisognava fare qualcosa per insegnare alle giovani generazioni a ribellarsi alle mafie. Ho impiegato ben 34 anni per raggiungere la verità, perché, come ho sempre asserito e come ti accennavo, in Italia le vittime della criminalità organizzata si dividono in quattro categorie: 1. I caduti per cause ignote e che rimangono tali per sempre, ai quali nessuno potrà ma rendere onore 2. I caduti che ottengono il riconoscimento, ma che per vari motivi non ottengono il Decreto Ministeriale, per cui non vengono mai ricordati. 3. I caduti che ottengono il Decreto Ministeriale, ma rimangono relegati in una specie di limbo perché nessuno si prende la briga di perorare il loro ricordo, per cui sbiadisce dopo pochi anni. 4. Infine I caduti che oltre al decreto ottengono tutti gli onori, con strade e piazze a loro intitolate e la concessione di medaglie “alla memoria”. Ecco, la morte di mio padre ha attraversato tutti e quattro questi stadi, finalmente con la concessione e la consegna quest’anno della Medaglia d’oro al M.C. l’intitolazione di un largo, nei pressi di dove fu ucciso e l’intitolazione di una strada in territorio di Monreale, territorio che mio padre conosceva bene fin da quando era al C.F.R.B. agli ordini dell’allora capitano Carlo Alberto dalla Chiesa. Diciamo pure con tanta stanchezza, ma con orgoglio, che l’iter si è concluso.
Nel 1997 anch’io raggiunsi il traguardo della pensione e riprendendo gli studi decisi di laurearmi in Sociologia, scienze dell’Amministrazione, e Giurisprudenza. Affinai la mia preparazione con i Master di Filosofia e Storia del Diritto – Bioetica – Dottrina Sociale della Chiesa e per ultimo Psicologia Forense e Criminologia. Durante la mia formazione mi pervenivano continue richiesta da parte di alcuni plessi scolastici, che volevano una testimonianza del mio vissuto e di quello di mio padre. Io non volli aderire a queste richieste atteso che non avevo i decreti di riconoscimento del mio status di Vittima della mafia. Soltanto dopo il processo e le condanne decisi che fosse giunto il momento di trasferire le mie conoscenze agli studenti. Su invito delle varie associazioni, che nel territorio si occupano del fenomeno mafioso, cerco di soddisfare le numerose richieste che mi pervengono. In particolare avendo comandato la scorta del Consigliere Rocco Chinnici, deceduto in via Pipitone assieme agli uomini che tante volte avevano diviso con me quel particolare servizio (M.llo Trapassi, App. Bartolotta, il portiere Li Sacchi mio cugino, Paparcuri come autista giudiziario sopravvissuto miracolosamente e i 19 feriti, che quel giorno pagarono innocentemente), avvenne la definitiva trasformazione del mio carattere, fino ad allora riservatissimo. Faccio del mio meglio coinvolgendo gli studenti, in questo aiutato dalla mia formazione e devo dire che i ragazzi rimangono affascinati, ascoltano in religioso silenzio e quando do loro la possibilità di farmi domande, emerge l’interesse e il loro coinvolgimento. Credo sia questa la strada, la formazione attraverso la testimonianza”.