E’ una notizia laterale, che a fatica si carpisce nella ridda nullificante di ammiccamenti, bizze, stizze, che corredano lo stanco e stiracchiato andamento delle consultazioni. Ma è una buona notizia. Il regista Gianni Amelio avrebbe deciso di dirigere un film su Craxi. Sull’artista qui non ci si azzarda ad interloquire; dei suoi film, e non tutti, I ragazzi di Via Panisperna, Il ladro di bambini, Lamerica, solo flebili ricordi di spettatore, grati e piuttosto epidermici.

Ma di uno, se ne può serbare più vivida impressione, e trarre non incauta speranza: per quello futuro (“Hammamet” pare potrebbe esserne il titolo), per le suggestioni, e il racconto, e gli scuotimenti che, si confida, ne potranno venire. Ed è, Porte Aperte.
E non solo per l’indiretto magistero di Sciascia, che, sappiamo, volle quel titolo a significare l’ingannevole beneficio di una pace sociale scaturita dall’impostura, dall’ingiustizia che si maschera di giustizia, dalla “sicurezza” che invece esige insicurezza: delle prove, dei giudizi, del diritto.
Né solo perché, in quell’opera, è testimoniata la forza di un giudice, che unicamente nella sua fuoriuscita morale dal “sistema giudiziario”, dalle convenienze, dagli equilibri, dall’autoreferenzialità dell’Apparato, trova le ragioni di una superiore dignità. E lì fu opposizione alla inflizione della pena di morte (obliquamente “auspicata” per bocca di un Procuratore Generale di Palermo, per l’occasione, latore confidenziale degli alti “desiderata”): ma che è emblema dell’abuso, perfetto di forma e ammorbato di sostanza, eternamente uguale a sè stesso: col suo rivelarsi eccesso superomistico, arbitrariamente volto a fondere, e a confondere, il “giusto” e il “legale” (l’imputato era, in effetti, colpevole di un triplice efferato omicidio).

Ma perché (o, anche perché) il solo aver concepito un pensiero, ampio e compiuto, dedicato a Craxi, e con l’ineffabile universalità di linguaggio che solo l’arte possiede, costituisce quello che, in tempi meno corrivi dei presenti, si sarebbe chiamato “gesto di civiltà”. Sicché, non essendo nota, ovviamente, nemmeno l’idea di un abbozzo, possiamo formulare qui solo il nostro auspicio: piccolo, ma certo più chiaro e diretto di quello istituzionalmente autorevole, ed immancabilmente autoritario, di un Procuratore Generale.
Che sia reso all’uomo, quello che fu dell’uomo; allo statista, quello che fu dello statista; alla sinistra politica, quello che fu della sinistra politica; alla modernità, quello che fu della modernità; alla memoria di tutti, quello che a tutti è stato violentemente, e abusivamente sottratto.
E tuttavia, l’opera di uno, per quanto riuscita (e l’augurio è fermo), nulla, o poco, potrà, senza la volontà di rivendicare a sé stessi l’onere dell’equilibrio, e della dirittura morale.
Quello spirito nefasto, le monete prima dell’esilio, il linciaggio nelle piazze prima di quello nei tribunali, sono stati una semina velenosa. Una pedagogia di massa pervertitrice, in grazia della quale, oggi, ci cimentiamo seriamente con la superstizione riattizzata dalla cenere dei secoli; con pubblici istigatori di nequizie legislative; con un sentimento della propria storia repubblicana in cui null’altro c’è, se non una sequenza ininterrotta di segreti crimini, di pubbliche grassazioni, di tenaci menzogne. E, insomma, cattedre, pulpiti, cartacei, televisivi e poi digitali, hanno insegnato a tre generazioni di fila che si doveva rimpiangere il sano spirito antiliberale, antiparlamentare e antirepubblicano che permetteva di lasciare le porte aperte.

Quelle sentenze furono una colossale bugìa; furono sentina di una coscienza collettiva spinta ad ubriacarsi di ipocrisia, e dello sdegno contrattuale con cui classi dirigenti economiche rotte ad ogni sorta di mercimonio morale e umano, si riciclarono a nuova vita, al modico prezzo di anodini memoriali propri, e laceranti suicidi altrui.
La fine politica e umana di Craxi è stata una storia sudicia, per quanti la imposero, ed un martirio civile, per chi la subì. Soprattutto, è stato lo svuotamento, fatto con l’arte dei contrabbandieri, cioè, con l’inganno e le falsificazioni “documentarie”, di regole e di presidi di libertà concepiti dai Costituenti per tutti.
In Francia, nemmeno 12 anni dopo l’infamia della sua condanna, Alfred Dreyfus, prima conseguita la formale revisione della sua condanna, fu infine insignito pure della Lègion d’honneur. Craxi, attende ancora un homme de lettres che pronunci il suo J’accuse.
Amelio come Zola? Non si può mai dire.