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Cinque anni di Francesco, tra aperture rivoluzionarie e qualche passo falso

Il 13 marzo 2013 sul soglio di Pietro si insediava un Pontefice venuto dalla "fine del mondo". Un Papa oggi amato, ma che fa anche discutere

Giulia PozzibyGiulia Pozzi
Cinque anni di Francesco, tra aperture rivoluzionarie e qualche passo falso

Papa Francesco (Flickr.com)

Time: 6 mins read

Era il 13 marzo 2013, quando Jorge Mario Bergoglio diventava il primo pontefice giunto, come disse lui stesso alla folla riunita in Piazza San Pietro, direttamente “dalla fine del mondo”. Sono passati cinque anni dalla sua elezione, i cinque anni – per certi versi – più rivoluzionari della storia recente della Chiesa. Rivoluzionari, nonostante proprio in queste ore il Papa emerito Joseph Ratzinger abbia voluto sottolineare la “continuità” tra il proprio magistero e quello di Bergoglio. Una precisazione finalizzata, principalmente, a placare le polemiche che hanno caratterizzato il pontificato di papa Francesco fin qui, polemiche che giungono, specialmente, dagli ambienti più conservatori.

Perché questo Papa giunto dalla periferia del mondo è sì amatissimo dai fedeli e molto apprezzato  tra i laici, ma è anche, per così dire, un Pontefice “divisivo”, forse suo malgrado. Più politico – nel senso etimologico del termine – dei suoi predecessori, le sue prese di posizione sui migranti, gli omosessuali, le donne, ma anche sull’economia e sulla geopolitica hanno contribuito ad alienargli le simpatie degli ambienti ecclesiastici e politici più conservatori. Ce ne si accorge anche semplicemente bazzicando sui gruppi di Facebook propendenti a destra, che spesso dichiarano il proprio dispregio per il Papa che ricevette in dono da Raul Castro un crocifisso con falce e martello, e la propria ammirazione, per contro, per il Papa emerito, noto per un discorso – quello tenuto a Ratisbona – passato alla storia come decisamente critico nei confronti dell’Islam.

Che quella “cesura” tra Francesco e i suoi predecessori ci sia stata o meno, è forse ancora presto per dirlo. Perché è vero, di dichiarazioni e gesti quasi rivoluzionari, da parte di Bergoglio, ce ne sono stati: si ricordi quel “chi sono io per giudicare” rivolto agli omosessuali, fino ad allora relegati dalla dottrina ecclesiastica come peccatori da censurare, ma anche l’apertura ai divorziati risposati e al Diaconato femminile, le scuse dopo la gaffe sulle vittime dei preti pedofili, le docce ai senzatetto in piazza San Pietro, gli appelli per l’accoglienza dei migranti (il suo primo viaggio fu a Lampedusa) e i tanti gesti che sembrano aver segnato una rottura con la tradizione, e, contestualmente, con il “pontificato teologico” di Benedetto XVI. Si può poi discutere su quanto, in effetti, quelle dichiarazioni  siano andate oltre la mera “cosmesi”, e abbiano potuto incidere sulla marmorea dottrina della Chiesa Cattolica, che su certi argomenti è tanto difficile da smussare. Francesco è un Papa rivoluzionario, sì, ma sotto alcuni aspetti è anche molto ordinario: perché dimostra, appunto, come un solo uomo, per quanto vicario di Cristo, possa relativamente poco nei confronti di quell’ingombrante e mastodontico apparato secolare che lo circonda.

Una precisazione d’obbligo che, tuttavia, non vuole sminuire la portata – anche rimanesse solo su un piano simbolico – di certe coraggiose prese di posizione di Francesco. Che non a caso, in un Occidente dove i partiti socialdemocratici vivono un po’ ovunque una crisi drammatica di consenso e di identità, qualche commentatore vede come unico leader di una “sinistra globale” superstite all’ondata delle destre. Così, addirittura lo definì Massimo D’Alema, che di sinistra dovrebbe intendersene. Bergoglio, in effetti, è portatore di una visione sociale che risente della vocazione francescana e anche delle sue origini sudamericane – dove un modello alternativo di socialismo pare essere resistito molto più che in Occidente (seppur anche lì, ultimamente, abbia mostrato i suoi limiti) -, una visione che è – passateci l’espressione – nettamente più “di sinistra” di quella di tutti i leader politici che ancora osano rivendicare per sé quella appartenenza ideologica così fuori moda. E lo è nel chiedere a gran voce la dignità del lavoro, nel riportare l’attenzione sulla grande questione – mai sopita – della giustizia sociale e nel ricordare certi obblighi di solidarietà da cui difficilmente una società che voglia dirsi civile può svicolare. Per non parlare, poi, di quel disgelo tra Stati Uniti e Cuba che, secondo molti esperti di geopolitica, sarebbe stato attentamente e strategicamente favorito dalla longa manus del Vaticano.

Poi certo: “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”. Ma sarebbe da ingenui dimenticare che il Vaticano è, prima di tutto, uno Stato sovrano. E anche in questo senso, Francesco si è presentato come il “riformatore”, il “modernizzatore”. Per lui, modernizzare uno Stato quale quello pontificio – tanto piccolo quanto ingombrante – significava agire su due livelli: oltre a quello dottrinale – di cui per sommi capi abbiamo già parlato -, quello amministrativo e fiscale, nel tentativo di ridimensionare il potere vaticano e curiale nei suoi arroccamenti di privilegi, e di trasformare le finanze d’Oltretevere all’insegna della trasparenza, dopo i terribili scandali che hanno macchiato lo reputazione dello Ior nei decenni precedenti, addirittura sotto il pontificato del tanto amato Giovanni Paolo II. In questo senso, i passi verso la trasparenza – un impulso già dato da Benedetto XVI – possono dirsi apprezzabili, soprattutto in termini di adeguamento agli standard internazionali sull’introduzione di leggi che regolino la lotta al riciclaggio e al finanziamento al terrorismo. Certo: tanta strada c’è ancora da fare, ma il cambio di passo rispetto al passato è evidente. Altro conto è il capitolo sulla “povertà” della Chiesa, opposta al lusso sfrenato – tanto contrario al verbo del Vangelo – che domina nei Sacri Palazzi: un capitolo coraggiosamente aperto da Francesco, sul quale, però, i risultati (suo malgrado) appaiono ancora modesti. E incerta resta anche la riforma della curia, anche (si può immaginare) per le tante resistenze che lo smantellamento di certi apparati comporta.

Luci ed ombre, è il caso di dirlo, nella battaglia contro la pedofilia, una vera e propria piaga che la Chiesa Cattolica non può più sottrarsi dal guardare in faccia. Ed è vero che Francesco ha introdotto una task force specifica (fuor di metafora una commissione pontificia), con il compito di arginare l’emergenza degli abusi sessuali ai danni di bambini nella Chiesa di Cristo. Eppure, dal 2013 ad oggi, non sono mancati i passi falsi. Tutt’altro. Tra i più macroscopici, la scelta di nominare, nel 2015, vescovo di Osorno (in Cile) il monsignor Juan Barros, nonostante fosse fortemente sospettato di aver insabbiato tanti casi di pedofilia da parte del suo padre spirituale. Uno scivolone, peraltro, non isolato: perché lo stesso fece Francesco con il cardinale George Pell, oggi incriminato per violenze sessuali su bambini, nominato prima capo della Segreteria dell’Economia del Vaticano, con il compito – duole dirlo – di “ripulire” la corrotta curia romana, poi membro del gruppo dei nove cardinali più influenti della Chiesa. Una nomina avvenuta nonostante già fioccassero le denunce da parte di alcune vittime e di alcuni coraggiosi giornalisti a proposito della condotta perlomeno ambigua dell’australiano. La nomea di Pell era nota a tal punto che lo stesso Ratzinger si trovò costretto a ridimensionarne le ambizioni, nonostante un primo processo a suo carico, nel 2002, si fosse chiuso per insufficienza di prove. La “buona” (per così dire) notizia è che, a scandalo esploso, dal Vaticano si sono affrettati ad assicurare che Pell non troverà riparo Oltretevere dalla giustizia australiana. Altri casi di “promozione” di soggetti assai chiacchierati, almeno quello dell’arcivescovo di Santiago del Cile Ricardo Ezzati, prima messo alla guida della Congregazione per l’educazione cattolica e nel febbraio 2014 nominato cardinale, e soprattutto del suo predecessore Francisco Javier Errazuriz, chiamato anche lui nel C9: insieme al sopranominato Barros, entrambi protagonisti del più grande scandalo della storia del clero cileno.

Altra macchia nei cinque anni di pontificato di Bergoglio, il processo a due giornalisti – Gianluigi Nuzzi e Emiliano Fittipaldi -, “colpevoli” di aver pubblicato due libri-inchiesta (rispettivamente Via Crucis e Avarizia) sui discutibili comportamenti terreni di alcune propaggini della Chiesa di Cristo. Processo fortunatamente risoltosi in un’assoluzione, ma solo per “difetto di giurisdizione”: motivazione che, in effetti, ha mostrato tutti i limiti di una anacronistica giustizia vaticana che non sembra ancora riconoscere il diritto di informazione – invece solennemente tutelato, lo ricordiamo, dall’art. 21 della Costituzione italiana -.

Luci e ombre, aperture e inciampi, dichiarazioni coraggiose di cui ancora, però, non si conosce l’esito fattuale: di tutto ciò si sono composti questi cinque anni di papa Francesco. Una figura certamente carismatica, che ha avuto e ha il merito di promuovere un dialogo sui tanti arroccamenti – di dottrina e di privilegi – che nei decenni hanno talvolta macchiato l’immagine della Chiesa. Poi certo, l’umanità si rivela tutta nei passi falsi, inevitabili per qualsiasi creatura terrena. Inevitabili anche – e la storia lo dimostra in maniera inappellabile – al (per chi ci crede) vicario di Cristo in terra.

 

 

 

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Giulia Pozzi

Giulia Pozzi

Classe 1989, lombarda, dopo la laurea magistrale in Filologia Moderna all'Università Cattolica di Milano si è specializzata alla Scuola di Giornalismo Lelio Basso di Roma e ha conseguito un master in Comunicazione e Media nelle Relazioni Internazionali presso la Società Italiana per l'Organizzazione Internazionale (SIOI). Ha lavorato come giornalista a Roma occupandosi di politica e affari esteri. Per la Voce di New York, è stata corrispondente dalle Nazioni Unite a New York. Collabora anche con "7-Corriere della Sera", "L'Espresso", "Linkiesta.it". Considera la grande letteratura di ogni tempo il "rumore di fondo" di calviniana memoria, e la lente attraverso cui osservare la realtà.

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