C’un giudice e c’è un imputato. Ma questa volta non siamo in Italia. Siamo negli Stati Uniti, in Michigan, Tribunale della Contea di Lansing. Lei, il giudice, si chiama Rosemarie Aquilina; lui, l’imputato, Larry Nassar. Già medico della nazionale di ginnastica USA, è stato condannato per avere commesso abusi di natura sessuale a danno di 160 atlete. In sette casi erano ragazzine, una di 13 anni. In un altro processo era stato già condannato per pedopornografia.
Nel diritto penale statunitense ogni reato è punito con la pena per esso prevista; che sia unico reato, o che integri una più vasta serie di reati commessi dallo stesso autore. Perciò, a differenza che in Italia (dove, a certe condizioni, più reati vengono considerati un reato unico, e la pena è quella del solo reato più grave, aumentata sino al triplo) negli Stati Uniti ha luogo la pura e semplice somma delle pene. Ecco perché è consueto apprendere di condanne che possono giungere oltre il limite biologico, per es., “fino a 175 anni”, come in questo caso. O comunque ad una misura ad esso equivalente, per es., 60 anni, come nella precedente condanna per pedopornografia. E’ l’effetto di un diverso congegno normativo, non una bislaccheria.
Non è invece parso effetto di una necessità propria del diritto il contegno del giudice Aquilina. Nel corso di questo processo, l’imputato, che già aveva confessato e riconosciuto le sue colpe, aveva manifestato una certa insofferenza per la durata dell’istruttoria dibattimentale. Inopportuno, visto che il processo formalmente è inteso a sua garanzia.
Tuttavia, il giudice non si è limitata a spiegarglielo; ma ha dichiarato in aula: “nulla è più duro di quello che hanno subito le sue vittime nel corso di centinaia di ore… passare quattro o cinque giorni ad ascoltare quello che hanno da dire non è nulla rispetto alle ore di piacere che ha passato a loro spese, rovinando loro la vita” .
Vale a dire, mentre i testimoni-persone offese deponevano (ed anche prima), aveva già deciso che l’imputato sottoposto al suo giudizio era colpevole. Che avesse confessato, nulla toglie o aggiunge ai doveri di un giudice. Proprio perché, sulla colpevolezza o meno di un accusato, non decide l’accusato stesso, ma, appunto, un giudice, dopo aver assunto le prove. Altrimenti, in entrambi i casi, ha luogo un pre-giudizio e non un giudizio.
Ad una delle testimoni, durante la testimonianza, ha detto: “Sei un’eroina, anzi una supereroina e la Mattel dovrebbe fare giocattoli che somiglino a te così che le bambine dicano: ‘Voglio essere come lei’.
Conclusa la superflua istruttoria, il giudice ha condannato. Si badi, nella realtà, potremmo anche essere moralmente certi della colpevolezza dell’imputato; come potremmo nutrire sentimenti analoghi a quelli espressi da quel giudice.
Ma se il criterio di accertamento legale non è più giuridico, cioè razionale, ma morale, cioè interiore e non oggettivato, si è azzerata all’istante la sede Giudiziaria come fondamento di civiltà democratica, cioè, controllabile. Che distingue la sanzione dalla vendetta. E che pretende serenità interiore ed equidistanza: se pensava che le ragazze fossero eroine, e poteva liberamente pensarlo, doveva semplicemente astenersi dal giudicare l’imputato che quelle ragazze accusavano.
Fedele al suo personalissimo ruolo, nel comunicare la condanna, la giudice Aquilino ha perciò aggiunto: “E’ un mio onore e privilegio condannarla. Ho appena firmato la sua condanna a morte, non ha il diritto di uscire di nuovo da una prigione”. Che potrebbe sembrare solo una rude traduzione di quel numero di anni (175); ma l’avere richiamato la loro indubbia equivalenza alla pena capitale, ha solo confermato un compiacimento squilibrato e ingiusto. Come “il privilegio di condannare”.
Mentre comunicava la sua decisione, il giudice ha preso i fogli recanti la memoria dell’imputato, ostentandone una scorsa inesistente; quindi, tenendoli come cosa impura, fra pollice e indice, li ha vistosamente lanciati in avanti, lontano da sè. Riferiscono le cronache, che la signora, per questo suo complessivo contegno, è diventata un’eroina dei social. Ecco: esattamente questo deve fare. Anche in Italia riscuoterebbe consensi. Per es. Vanity Fair (edizione italiana, appunto), ha titolato: “la giudice perfetta del caso Nassar” .
Se avesse invece curiosità di come si fa il giudice, e se non fosse troppo abbassarsi, può sempre dare un’occhiata ai filmati del Processo ad Adolf Eichmann: accusato di crimini contro l’umanità, costati la vita a sei milioni di prigionieri.
Vedrà un uomo, Moshe Landau, il Presidente del Tribunale Distrettuale di Gerusalemme, indossare la toga: anche lui. Vedrà quel giudice intervenire più volte ad interrompere l’interprete, correggendo e migliorando la sua traduzione; durante l’interrogatorio dell’imputato, benché non fosse obbligato, rivolse le sue domande solo in tedesco, perché voleva essere sicuro che l’imputato capisse le domande, e potesse difendersi pienamente.
Lo vedrà ascoltare testimonianze al limite dell’umano, con testimoni che svengono durante la deposizione, che si interrompono perchè sopraffatti da una folla di emozioni: uomini e donne a cui era stato sterminato ogni familiare, ogni conoscente, a cui era stato tolto tutto. Vedrà il Presidente Landau ascoltare in assoluto silenzio; mantenendosi vigile ma silenzioso anche prima, durante e dopo ogni suo intervento, teso a consentire che quelle infelicissime testimonianze riprendessero.
Durante il processo, in Israele fu aspramente criticato per tutto questo; ma lui era un giudice; non doveva fare l’eroino.
Non che non usasse interloquire con l’imputato: in un momento topico del processo, gli aveva detto: “un soldato deve anche avere una coscienza”.
Ma quando lesse la condanna a morte per impiccagione di Eichmann, quell’uomo fra due altri giudici in toga, chino alla lettura, ma presente agli altri e a sè, lesse, non aggiunse una sillaba, e uscì dall’aula. Perché era un giudice, e aveva coscienza di esserlo.