
In questi giorni, il presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump ha dato dimostrazione (l’ennesima) di come, nel suo caso, più che di “gestione del paese” sia corretto parlare di “sopravvivenza politica”.
Secondo l’inquilino della Casa bianca, il prossimo 5 marzo sarebbe dovuto scadere il termine per il Deferred Action for Childhood Arrivals (Daca), il programma che tutela i “Dreamers” (i “sognatori”), 800.000 persone arrivate negli Stati Uniti da bambini, ma con genitori immigrati illegali. Di altro avviso il giudice distrettuale William Alsup, giudice distrettuale di San Francisco, il quale con una sentenza di 49 pagine, ha bloccato tutto e rimandato tutto almeno fino a quando non saranno risolte le cause già avviate. Secondo il giudice la scelta di Trump sarebbe illegale in quanto basata su una “premessa legale imperfetta”. Durissimo il commento di Trump, che su Twitter ha definito “il sistema giudiziario guasto e ingiusto” e attaccato i suoi oppositori. La sentenza della giustizia americana ha colpito pesantemente l’immagine del presidente americano sul fronte dell’immigrazione, riportando la situazione alle norme dell’era Obama fino a quando le azioni legali avviate non saranno risolte.

La decisione del presidente degli USA di mandare i Dreamers fuori dagli Stati Uniti fa parte di una serie di “promesse” fatte dal tycoon della Casa Bianca sin da quando era in corsa per la presidenza, poco più di un anno fa.
Come per gli oltre 200mila salvadoregni entrati negli USA dopo il terremoto del 2001 quando diversi paesi dell’America Centrale vennero colpiti da un terremoto, con epicentro a San Miguel. I morti furono oltre mille (944 vittime il primo giorno e altri 585 nei giorni successivi a causa delle frane che si erano verificate nelle zone colpite) e migliaia i feriti (5mila). Ad essere colpiti furono principalmente El Salvador, Guatemala e Honduras. Per aiutare le centinaia di migliaia di persone in fuga da questi paesi venne apportata una modifica alla normativa sullo Stato di Protezione Temporanea (TPS), introdotta durante la presidenza Bush, nel 1990.
Una decisione malvista dal nuovo presidente Trump, che ha deciso di fissare un termine per il rimpatrio di tutti i salvadoregni: il 9 settembre 2019. La scelta del presidente Trump di porre fine al TPS sarebbe giustificata (come risulterebbe da una dichiarazione del Dipartimento di Sicurezza a firma del segretario Kirstjen Nielsen) dal fatto che sono mutate le condizioni geopolitiche del territorio.
Kevin Appleby del Centro per lo studio delle migrazioni di New York ha definito la volontà di Trump “particolarmente dannosa, non solo sradicherà famiglie e bambini che vivono qui da anni, ma destabilizzerà ulteriormente un paese già violento. È incredibilmente miope e mina il nostro interesse per un’America centrale stabile”.

Intanto, dopo la sentenza del giudice sui Dreamers, Trump ha organizzato in fretta e furia, un incontro fra Democratici e Repubblicani. In pochissime ore la vicenda ha assunto dimensioni non solo legali ma politiche. E per di più con un comportamento tutt’altro che chiaro da parte dell’inquilino della Casa Bianca. In un primo tempo, Trump ha adottato un atteggiamento duro, ribadendo la sua volontà di legare a tutti i costi il programma di rimpatrio al “muro con il Messico” (al quale i Democratici si oppongono duramente). “Il nostro Paese ha bisogno della sicurezza del muro alla frontiera meridionale e ciò deve essere parte di ogni approvazione del Daca”, ha scritto Trump su Twitter. Salvo poi parlare, in una riunione alla quale hanno partecipato entrambi i gruppi del Congresso, di un “bill of love”, un impegno d’amore, per risolvere i problemi dei ”poveri” centroamericani che vivono negli USA.
Un improvviso cambio di rotta che lascerebbe a bocca aperta anche il più bravo dei prestigiatori. Dal canto suo, il governo salvadoregno, che in un comunicato ufficiale aveva ringraziato quello americano per la proroga di 18 mesi del permesso di permanenza dei propri concittadini (il termine per lasciare gli Stati Uniti – o restare ma come immigrati illegali non autorizzati – era stato fissato), ha presentato un invito ufficiale al Congresso statunitense a cercare di trovare una soluzione congiunta al problema. Una soluzione che sia, però, un’alternativa al rimpatrio.
Il veto posto dal giudice, da un lato e, dall’altro, il rischio di vedere bocciata la sua proposta al Congresso, hanno costretto Trump ad un brusco cambio di rotta per evitare quanto già avvenuto lo scorso anno. Non è la prima volta, infatti, che le sue scelte vengono dichiarate sonoramente illegittime dalla magistratura o bocciate al Congresso: nel 2017, ad esempio, la Corte d’Appello del nono circuito di San Francisco decise di confermare la sospensione del “Muslim ban”, il divieto di ingresso negli Usa nei confronti dei rifugiati e dei cittadini di sette Paesi a maggioranza musulmana, voluto e sbandierato da Trump.
A questo si aggiungono alcuni “segnali” d’allarme legati a scelte sbagliate di politica interna. Come la sconfitta del “Candidato a Cavallo”, Roy Moore in corsa per un seggio al Senato, un segnale per Trump che lo aveva appoggiato a spada tratta seguendo i consigli del suo ideologo, Steve Bannon. A poco più di un anno dalla vincita (a sorpresa) delle elezioni presidenziali, i sondaggi parlano ancora di fiducia (forse) da parte degli elettori. Ma in molti cominciano a domandarsi cosa significhi davvero aver votato per Trump. Specie quelli che, fino ad ora, hanno confermato la propria scelta ma solo per la paura di ammettere di aver commesso un errore.