La regione cinese dello Xinjiang è un territorio enorme. Confina con otto stati (India, Pakistan, Russia, Mongolia, Kazakistan, Afghanistan, Tagikistan e Kirghizistan) ed è abitata da 19 milioni di persone in maggioranza uiguri, un’etnia di origine turca che pratica la religione musulmana (11 milioni di persone). Proprio la loro origine, secondo alcune indicazioni del governo cinese, sarebbe alla base delle recenti misure adottate per condurre un’indagine a tappeto e creare un database ufficiale contenente dati sulla popolazione della regione.
Non è la prima volta che, in Cina, si parla di queste misure. Agli inizi degli anni 2000, il Ministero della Pubblica Sicurezza cinese decise di creare un database nazionale del DNA, chiamato “Sistema di database del DNA di Forensic Science” (法庭 科学 DNA 数据库 系统) o “Sistema di database nazionale delle agenzie di pubblica sicurezza” (全国 公安 机关 DNA 数据库 应用 系统). Uno strumento che avrebbe dovuto essere parte di un più ampio progetto di informazione di polizia noto come Golden Shield. Nel 2003, venne pubblicato il rapporto “Regole sulla costruzione del sistema di database del DNA di scienza forense” (法庭 科学 DNA 数据库 建设 规范), dal MPS Forensic Center, dove veniva ribadito che la registrazione doveva essere effettuata utilizzando i dati di coloro che violavano la legge in alcuni casi (delineati successivamente da un documento del 2009 che indicava dieci tipi di casi e otto tipi di individui che possono essere target per tale raccolta).
A livello nazionale, queste misure sono ancora allo stadio larvale (è difficile anche solo accedere ai regolamenti attuativi ufficiali). Nello Xinjiang, invece, lo screening di tutta la popolazione procede a ritmi vertiginosi. Campioni di DNA, impronte digitali, analisi sanguigne e dati biometrici di tutti i residenti della regione occidentale. E poi scansioni dell’iride e gruppo sanguigno per tutti. Secondo il sito web del governo dello Xinjiang, i dati rilevati dovrebbero addirittura essere collegati alle carte di registrazione per la casa (hukou), che già limitano l’accesso dei residenti alla sanità, all’alloggio e all’istruzione. Un documento governativo, infatti, parla di regolamentare la gestione delle schede di identificazione e di un database di base della popolazione nella regione autonoma. Secondo l’agenzia di stampa cinese Xinhua, il programma dovrebbe riguardare quasi 18,8 milioni di persone di età compresa tra i 12 e i 65 anni. Ma c’è chi sostiene che questo sia solo il primo passo e che il governo intende controllare il DNA di ben 40 milioni di abitanti. Uno screening di massa che ha costretto le autorità cinesi ad uno sforzo non indifferente. Anche dal punto di vista economico e organizzativo: per raccogliere i dati biometrici di milioni di persone sarebbero stati acquistati sequenziatori di DNA da una società statunitense.
A denunciare la possibile violazione dei diritti umani è Sophie Richardson, direttrice cinese di Human Rights Watch: “Il databanking obbligatorio di una popolazione intera di dati anagrafici, incluso il DNA, è una grave violazione delle norme internazionali sui diritti umani”, ha affermato. “È ancora più inquietante se viene fatto di nascosto, dietro l’apparenza di un programma sanitario gratuito”.
“La parte allarmante è il possibile inganno con cui questi campioni vengono raccolti, e anche se non dimostrato che ci sia inganno, c’è sicuramente un ambiente nello Xinjiang che è coercitivo”, ha detto Henryk Szadziewski, ricercatore senior presso l’Uyghur Human Rights Project (UHRP).
La giustificazione delle autorità parla di una maggiore attenzione rivolta alla minoranza uigura resa necessaria dal pericolo terrorismo. Dal 2014, il governo centrale accusa gli estremisti islamici di questa regione di essere mandanti ed esecutori di numerosi attacchi e attentati a funzionari governativi. Per questo motivo, da allora, Pechino avrebbe attivato una serie di misure restrittive senza precedenti. In molte città truppe armate girano per le città e le autorità organizzano in tutto lo Xinjiang di continuo manifestazioni per sostenere la lotta al terrorismo. Forme di lotta alla delinquenza che in alcuni casi appaiono esagerate. Come i controlli sulla vendita di coltelli (arma usata in alcuni attentati): prima della vendita, sul coltello, è obbligatorio incidere con il laser un “QR code”, cioè un codice identificativo per risalire all’acquirente.
Misure a volte esagerate e inaccettabili: le persone spesso vengono sottoposte a controlli di polizia più volte al giorno; prima di accedere ai distributori di benzina, agli hotel e alle banche è necessario il riconoscimento facciale; le autorità hanno il potere di registrare in maniera arbitraria tutte le telefonate provenienti dall’estero e di obbligare privati cittadini a installare sul telefono un’app per controllare tutti i messaggi in entrata e in uscita. Una situazione che ha portato un giornale americano a definire lo Xinjiang “uno dei posti più sorvegliati al mondo”. Omer Kanat, direttore di Uyghur Human Rights Project, ha detto in una recente intervista: “È una prigione a cielo aperto. La Rivoluzione culturale è tornata e il governo non prova nemmeno a nasconderla”. “La raccolta di massa di DNA da parte della potente polizia cinese non ha niente a che vedere con efficaci protezioni della privacy o un sistema giudiziario indipendente; è una tempesta perfetta per gli abusi”, ha detto Richardson di Uyghur Human Rights Project.
La provincia dello Xinjiang è spesso oggetto di violazioni dei diritti umani e pressioni politiche. Misure che spesso hanno poco a che vedere con la sicurezza: da qualche anno nelle scuole, le lezioni devono essere tenute solo in mandarino (invece che nelle lingue uyghur e kazako, come prima).
“Penso che il superamento dello stato qui in termini di sorveglianza sia un altro settore in cui dobbiamo essere preoccupati e penso che lo stato qui stia implementando un programma di controllo che è certamente contrario alle norme internazionali che conosciamo” ha detto Szadziewski.
E mentre i media occidentali parlano di ciò che avviene in Myanmar, lo Xinjiang appare essere sempre più la nuova frontiera della perdita dei diritti civili (lo stesso nome, Xinjiang, significa “Nuova Frontiera”). Un posto dove la decisione del governo centrale di controllare ogni centimetro di territorio e le pressioni dispotiche sulla popolazione locale potrebbero non avere niente a che fare con i problemi razziali o religiosi e le controversie tra gli uiguri e gli han cinesi.
Ma qui, in questa semisconosciuta regione della Cina, i veri motivi di tanta ostinazione, di tante pressioni potrebbero essere altri: strategici prima di tutto (si trova al centro dell’Asia, al confine con molti stati da nord a sud); e poi, e forse ancora di più, economici, legati alle risorse del territorio ricchissimo di gas e petrolio. E i soldi, in India (dove qualche anno fa è stato avviato un progetto analogo per lo screening del DNA di alcune minoranza etniche) o in Cina, nello Xinjiang, non hanno razza né religione né colore politico…