Ci siamo incontrati quattro anni fa, io e Baryali, a Roma, nel piccolo tinello di un vecchio appartamento situato nella parte Est della città, dove all’epoca alloggiava. Da quel momento, io per lui sono diventata – proprio come per i tanti “romani de Roma” incrociati lungo il mio percorso – semplicemente “Giu”. Ero una giovane studentessa di una scuola di giornalismo della Capitale, laureanda in Lettere, con tanti sogni e altrettante speranze; lui, mio coetaneo o poco più, era un ragazzo venuto dall’Afghanistan a cui la vita aveva già inflitto tante ferite, e che già troppe volte aveva visto la morte in faccia. Ma che aveva saputo reagire, combattere, e lottare per cambiare radicalmente il suo percorso, come io – mi sono ritrovata spesso a pensare – non avrei mai avuto la forza di fare.

Per me, Baryali Waiz è sempre stato, sin dalle prime parole che ci siamo scambiati, un modello, un esempio. L’esempio di un ragazzo, giovane, sulle cui spalle grava tanta esperienza in più rispetto a quella normalmente accumulata in un ventennio di vita. Un’esperienza che gli si legge impressa sul viso, in uno sguardo profondo che non è mai completamente spensierato, in qualche ruga di troppo rispetto alla sua età anagrafica.
Ma quella di Baryali è una storia a lieto fine. Una storia da raccontare, ad alta voce, in un’Italia in cui, con le elezioni che si avvicinano, i venditori di paura e di capri espiatori sono all’ordine del giorno, all’angolo di ogni strada, pronti a dirci che sì, il nostro problema sono gli immigrati, anzi i “clandestini”, lo ius soli (legge di civiltà lasciata, dopo qualche tentativo, miseramente incancrenire in Senato), l’Islam e quant’altro.
Baryali è arrivato in Italia da “clandestino”. E’ arrivato otto anni fa, da un Paese incastonato nell’Asia centrale, grande due volte la Norvegia. Un territorio fatto di monti e alteterre, che al centro fanno parte del sistema himalayano, ma anche di pianure che si estendono a Nord, nella regione delle steppe, per più di 100mila km quadrati. Ma quando gli chiedo che cosa ricorda del suo passato in Afghanistan, la memoria di Baryali restituisce subito un’impressione uditiva: “il rumore delle bombe”, quelle che sentiva esplodere da bambino a pochi passi da sé, e che lasciavano “strade e città completamente distrutte”. L’Afghanistan che abita nella mente del ragazzo è un “Paese senza presidente, senza elettricità, senza internet, senza leggi e regole né università”. Un Paese che, tuttavia, rimaneva “bellissimo” perché “mi sentivo a casa mia”: “ero nel mio Paese”.
Per Baryali, la sua non è stata una “fuga”: “Non direi di essere scappato”, mi corregge, quando gli chiedo se ricorda il preciso momento in cui ha preso quella difficile decisione. Solo pochi giorni fa, in Afghanistan, due attentatori suicidi a Kabul seminavano ancora 40 morti, in una strage poi rivendicata dall’Isis. “Questa, laggiù, è diventata la normalità delle cose”, constata. Ed è proprio in questo concetto mai del tutto afferrabile per noi nati e cresciuti nella “bambagia” – l’estrema anormalità della guerra e della violenza, che diventa quotidianità – che si annida la ragione profonda per cui Baryali ha deciso di partire. Ma non è stato solo quello: poi c’era la mentalità dominante, chiusa, mai aperta al confronto, rigidamente temprata dal verbo totalitario dei Talebani. E poi, certo, l’urgenza di scampare la morte: “Ho tantissimi amici che sono morti, e non solo per la guerra: ho quindi preferito venire in Europa per rifarmi la mia vita da capo, proprio quella vita che mi sto costruendo adesso, qui”.

Baryali ha percorso 5000 km, quasi tutti a piedi, varcando i confini di Afghanistan, Pakistan, Iran e Turchia. Quindi, la traversata in Grecia, dove il giovane è stato detenuto illegalmente perché privo di documenti. Poi, l’arrivo in Italia, a Bari, nascosto sotto un tir. Un viaggio che definisce “difficilissimo e pericoloso”, dove ha perso tanti compagni, e dove anche lui ha rischiato grosso: “Ho subito delle violenze da parte di un trafficante e per questo, per un periodo, non vedevo da un occhio e non riuscivo a muovere metà volto”. Ecco perché, di fronte ai migranti di oggi, non può che provare empatia: anzi, lui, più precisamente, parla di “rispetto”. Quel rispetto che spesso viene a mancare da parte dei mezzi di informazione che li trasformano in numeri ed “emergenze”, da parte dei politici che ne strumentalizzano il dramma per un pugno di voti, e da parte di chi, più in generale, li vede prima come un “problema” che come esseri umani.
Eppure, prima di partire, Baryali non immaginava lontanamente quanto difficoltoso sarebbe stato il viaggio. “Spesso non si sa cosa si dovrà affrontare, perché i trafficanti all’inizio sono molto tranquillizzanti e garantiscono che avverrà tutto in sicurezza, in macchina, in autobus e così via. Invece, una volta usciti dall’Afghanistan, gli spostamenti diventano pericolosissimi”, assicura. E quando gli chiedo se, a posteriori, consiglierebbe a un suo giovane coetaneo di imbarcarsi in questo viaggio per cercare la libertà, risponde senza esitazioni: “No, non lo consiglierei a nessun essere umano sulla faccia della terra”.
Un’esperienza, quella del viaggio attraverso le rotte dei trafficanti di uomini senza scrupoli, che ho l’impressione sia destinata, per Baryali, a rimanere in gran parte ineffabile, come se a parole non fosse possibile descrivere quelle carovane notturne, a volte accompagnati da animali, quelle botte violente, quell’equilibrismo disperato che ci vuole per tenersi aggrappati sotto un tir per ore e ore, fino a non sentire più i muscoli, quella vertigine che ti prende a vedere la distesa del mare davanti a te, e a separarti dall’abisso solo un gommone da quattro soldi. Ma dopo l’approdo nel porto sicuro, inizia un’altra odissea: quella dell’integrazione. Un’odissea un po’ darwiniana, perché solo i più tenaci, i più determinati, i più coraggiosi – come Baryali – ce la fanno. C’è chi, invece, rimane sovrastato dal peso troppo soverchiante del passato, dei pregiudizi, della stanchezza. Ma Baryali mostra uno straordinario spirito pragmatico: “Ho dovuto compiere molti passi per costruirmi una vita, perché, come dico io, se non muovi le mani non muovi neanche la bocca”. Un pragmatismo che l’ha aiutato, negli anni, a capire di doversi porre in una disposizione d’animo di apertura e apprendimento continui: “Qui sono ospite, perciò devo accettare le regole di un altro Paese che mi ha ospitato, mi ha accolto e mi ha dato tutto quello che ho adesso”. Ed è proprio con questo spirito che, appena arrivato, “ho cercato di conoscere le nuove persone che incontravo, comprendere la loro mentalità, la loro cultura, la loro religione”. “Ho dovuto aprire la mente, mettere in discussione le idee che avevo prima per crescere e avere una vita migliore”, mi spiega, lasciando trapelare nella voce una punta di orgoglio.

Ed è così che, giunto clandestinamente, Baryali non solo ha ottenuto lo status di rifugiato, ma si è anche diplomato, e ha lavorato, dai 19 anni circa, in diversi centri di accoglienza come mediatore culturale, collaborando con molte istituzioni importanti – tra cui Croce Rossa Italiana, UNHCR, OIM –. Non solo: ha partecipato a una puntata speciale di XFactor (iniziativa in collaborazione con l’Alto Commissariato ONU per i Rifugiati) e, come foto profilo su Facebook, ne ha una che lo ritrae abbracciato a Fiorello scattata per la campagna UNHCR #WithRefugees. Attualmente, studia e lavora alla John Cabot University di Roma, grazie a una borsa di studio integrale. Baryali non fa sconti a chi, come lui, arriva a bordo di un barcone, lasciandosi alle spalle un mare di sofferenze, e poi non lotta per farcela: “Siamo noi immigrati a dover avere un progetto, siamo noi a doverci integrare, siamo noi a dover accettare la diversità: altrimenti, saremo destinati a restare isolati nella nostra comunità, per sempre stranieri”.
Certo: neanche per lui è stato tutto facile, e non lo è neppure oggi: la lontananza della famiglia è un macigno che gli pesa costantemente sul cuore. “Sono preoccupato per loro”, mi confessa, estendendo immediatamente il suo timore a tutti gli afghani, grandi e piccoli, donne e uomini: “Sono sangue del mio sangue”. E, spiega, quando i governi europei praticano i rimpatri verso l’Afghanistan, “stanno mandando tanti ragazzi a morire”.
Ma quegli occhi scuri e profondi che hanno visto davanti a sé tanto sangue e violenza, oggi, sognano in grande: Baryali spera, un giorno, di lavorare alle Nazioni Unite, mettendo a servizio degli altri, nei Palazzi che contano, il suo bagaglio personale di dolore. Talvolta, scherzando, mi raccomando con lui di non dimenticarsi di me, umile giornalista sempre un po’ precaria, quando occuperà il seggio oggi di Antonio Guterres, e che è stato di personaggi del calibro di Ban Ki-Moon e Kofi Annan. Bary – come si fa chiamare affettuosamente dagli amici – sogna insomma una carriera internazionale in grande stile, ma desidera mantenere una base permanente in Italia, nella città che più di tutte gli ha dato l’opportunità della vita: Roma. Confesso di non capire del tutto questo suo viscerale amore per un Paese che unisce, troppo spesso, luce e ombra: la luce dei tanti salvataggi in mare, l’ombra di un accordo “della vergogna” per bloccare i flussi migratori in Libia; la luce delle sue bellezze, della sua cultura, della sua storia, l’ombra della disoccupazione e del precariato a cui riduce impietosamente i suoi giovani più brillanti; la luce dello spirito tutto italiano di accoglienza e ospitalità, l’ombra della xenofobia montante che sembra, ultimamente, farsi strada in ampi settori dell’opinione pubblica. Ma poi capisco: l’Italia è e resta, con tutte le sue criticità, il Paese che ha regalato a Baryali la chance di cambiare il corso della propria vita per sempre. Un’Italia di cui andare orgogliosi. “Roma mi ha fatto conoscere persone da 72 Paesi diversi nell’Università che frequento, mi ha dato questa opportunità che non dimenticherò mai”. Per lui, l’Italia non è razzista: “Dà sul Mediterraneo, che non è una piscina: è un mare che ha una storia, attraversato da migliaia di anni da tante popolazioni con tante culture diverse. Se l’Italia fosse stata razzista, avrebbe potuto chiudere i confini. Poi certo, ci sono gruppi e partiti politici che usano l’immigrazione per avere più voti, ma quello è un problema che c’è dappertutto, anche in Afghanistan: lì ci sono conflitti etnici e religiosi, ad esempio”, mi spiega con una lucidità disarmante.
Per Baryali, sono gli immigrati a doversi adattare alla cultura del luogo, e a convincere le persone delle loro potenzialità: “Penso che la migliore arma per combattere il razzismo ce l’abbiamo noi immigrati: ci dobbiamo integrare con la comunità italiana, dobbiamo conoscere le persone nelle loro diversità, entrare in contatto con tutte le culture e tradizioni locali, e dimostrare che noi immigrati non siamo qua per fare casino, ma per costruire qualcosa insieme”. E aggiunge: “Se io ce l’ho fatta, qualsiasi immigrato può farcela. L’importante è aprire la mente e accettare l’italianità, perché noi non siamo un altro Paese, siamo un Paese solo”. A suggello di quanto “italiano” sia ormai, mentre parla Baryali inserisce qua e là qualche inflessione e modo di dire tipicamente romanesco: la Capitale è ormai la sua città, e, dopo diversi anni al Pigneto, oggi vive nella bellissima Trastevere, a pochi passi dall’Università che frequenta. Sorrido pensando a quanto irrilevanti debbano sembrare, a lui abituato a vedere la propria città distrutta dalle bombe, i ritardi, i guasti, gli immancabili contrattempi macinati dai mezzi pubblici, il traffico, la sporcizia e tutti quei disagi di cui chi bazzica per Roma tanto si lamenta. Per Bary, la Città Eterna è e rimane la più bella del mondo. Forse, a pensarci bene, la seconda, subito sotto la sua indimenticabile Kabul.