È morto tra domenica e lunedì, dopo qualche giorno di agonia, in un ospedale di Baskerfield, in California. Poco lontano dalla prigione in cui ha vissuto gran parte della sua vita.
È morto a 83 anni, compiuti il 12 novembre. Di lui sono rimasti soltanto i capelli lunghi, la barba grigia e la svastica, tatuata in mezzo alla fronte, tra le sopracciglia. Era malato da tempo. Almeno da gennaio, quando venne ricoverato per gravi emorragie intestinali. Per salvargli la vita, in quella circostanza, sarebbe stato necessario un intervento chirurgico. Ma Charles Manson, nel corpo di un signore anziano, consumato dagli anni e dalla storia, risultò troppo debole. E i medici lo rimandarono nel carcere di Central Valley.

Nei penitenziari, Manson passò gran parte della sua esistenza. Soprattutto per essere stato il mandante di alcuni dei più brutali delitti della storia americana.
Lucido. Diabolico. Malvagio. Una specie di incantatore. Che, tra gli anni ’60 e ’70, plagiò decine di giovani. Ragazze, in particolare.
Non era ancora maggiorenne quando entrò in un penitenziario per la prima volta. Venne portato a Terminal Island nel 1954 per scontare una pena di tre anni. Ma in prigione si avvicinò all’esoterismo, alla magia nera e alla necromanzia. Imparò a suonare la chitarra.
Lo tormentava l’ossessione di diventare una leggenda della musica. O forse soltanto una leggenda.
Nel 1967 fu rilasciato su cauzione. E si trasferì a San Francisco dove raccolse, attorno a sé, un gruppo di giovani, completamente sedotti dal suo carisma. Una setta. Che qualcuno iniziò a chiamare “The Family”. Cinquanta ragazzi a bordo di un autobus scolastico dipinto di nero. Da ognuno di loro, Manson veniva considerato una sorta di divinità. Per lui compirono due degli omicidi più efferati del Novecento.

Il 9 agosto del 1969, a Cielo Drive, un ricco quartiere di Los Angeles, Charles “Tex” Watson, Susan Atkins, Patricia Krenwinkel e Linda Kasabian entrarono nella villa di Roman Polański. E assassinarono Sharon Tate, la moglie 26enne del regista, incinta di otto mesi. Oltre a lei uccisero anche quattro suoi amici, presenti all’interno della casa.

Eseguirono i suoi ordini. E sulla porta di ingresso scrissero, con il sangue della vittima, “pigs”, maiali. E, sullo specchio del bagno, “Helter Skelter”, che significa caos, confusione.
Il giorno seguente, il 10 agosto, fecero irruzione, insieme a Manson, anche nell’abitazione di Leno e Rosemary LaBianca. Che furono uccisi con più di 40 colpi alla testa. Con una forchetta. Sulla parete interna della casa, la scritta “Death to pigs”. Morte ai maiali.
Una scia di sangue. Corpi martoriati, oltraggiati e massacrati. A volte, anche tagliati a pezzi. Charles Manson venne fermato dal procuratore Vincent Bugliosi, che riuscì, dopo molte indagini, a incastrarlo. Inoltre, Linda Kasabian testimoniò al processo contro di lui. Venne arrestato per il caso Tate-LaBianca e fu accusato di essere il mandante degli omicidi.
Lo condannarono alla pena capitale, insieme ai suoi esecutori. Un esercito del male perfettamente collaudato. Ma una sentenza del 1972 della Corte Suprema della California giudicò la pratica incostituzionale. La condanna si tramutò, quindi, in ergastolo, con la possibilità della libertà condizionale. Che gli venne negata 12 volte. Fino alla fine dei suoi giorni.