Non erano ancora passati tre giorni dal suo durissimo intervento contro tutti. Dalla Corea del Nord al Venezuela, fino all’Iran. La prima volta di Donald Trump all’Onu era andata così. In occasione della 72esima Assemblea Generale delle Nazioni Unite, aveva scelto parole dure. Una dopo l’altra.
E a poche ore da quel discorso incendiario a Palazzo di Vetro, il Presidente ha usato toni altrettanto forti. Questa volta in Alabama. Questa volta parlando di sport.
Il 22 settembre li ha chiamati “figli di puttana”, davanti a un microfono, di fronte a centinaia di persone. E ha invitato gli spettatori sugli spalti ad andarsene se ne avessero visti altri rifiutarsi di alzarsi in piedi durante l’esecuzione di “The Star-Spangled Banner”.
“Non vi piacerebbe vedere uno dei proprietari di quelle squadre (NFL, ndr) dire, quando qualcuno manca di rispetto alla nostra bandiera, ‘Prendete quel figlio di puttana e toglietelo subito dal campo. Fuori. È licenziato’?”. Trump ha scelto di attaccare così i giocatori che, durante l’inno nazionale suonato prima di ogni partita, hanno deciso di inginocchiarsi. Per protesta, contro le condizioni degli afroamericani e contro le discriminazioni e le violenze che le minoranze sono costrette a subire da parte della polizia di alcuni stati. A poche ore dalle sue parole, il sindacato NFL ha criticato duramente le dichiarazioni del Presidente. Lo stesso ha fatto Roger Goodell, il suo più importante rappresentante. Trump, su Twitter, ha risposto al commissario, suggerendogli di dire ai suoi giocatori di alzarsi in piedi e portare rispetto al proprio Paese e alla bandiera.
Il 23 settembre, Stephen Curry, considerato tra i migliori cestisti americani e uno degli sportivi più influenti al momento, aveva dichiarato ai giornalisti la sua probabile intenzione di non presenziare all’appuntamento alla Casa Bianca con la squadra, i Golden State Warriors (negli Stati Uniti, per tradizione, la squadra di basket vincitrice del campionato visita la residenza presidenziale). Si era detto indeciso e così, Trump aveva revocato il suo invito.
E a rispondere direttamente all’azione del Presidente, è stato LeBron James. Con un tweet: “Prima del tuo arrivo, andare alla Casa Bianca era considerato un grande onore”. Poi, in un video pubblicato su Instagram, ha accusato il Presidente di utilizzare lo sport per dividere gli americani: “Questo è intollerabile”.
Nello stesso giorno, per la prima volta nella storia, un giocatore della MLB (Major League Baseball, il più importante campionato di baseball americano), ha scelto di fare lo stesso, protestando sul campo. Si tratta di Bruce Maxwell, degli Oakland Athletics, che si è inginocchiato poco prima di una partita contro i Texas Rangers. Un gesto ritenuto da tanti molto coraggioso, vista la giovane età del giocatore. Che poche ore dopo ha dichiarato di averlo fatto per protestare contro le dichiarazioni del Presidente.
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) 25 settembre 2017
“La questione dell’inginocchiarsi non ha nulla a che vedere con la razza. Riguarda, invece, il rispetto che si deve al nostro Paese, alla nostra bandiera e all’inno nazionale. NFL deve rispettarlo”, ha detto Trump, prima su Twitter e poi ad alcuni giornalisti.

Ma il primo fu Colin Kaepernick, il 26 agosto 2016. Il quarterback afroamericano della squadra di football dei San Francisco 49ers, prima di una partita amichevole in preparazione al campionato, era rimasto seduto durante l’inno nazionale. Il suo gesto non passò inosservato. Così come non rimasero inascoltate le sue dichiarazioni: “Non starò in piedi per dimostrare il mio orgoglio per la bandiera di un Paese che opprime i neri e le minoranze etniche”, aveva detto durante un’intervista a NFL Media, spiegando le ragioni del suo gesto. Rimase senza squadra.
Nei mesi successivi, altri giocatori lo avevano imitato. E una protesta partita quasi per caso un anno fa, oggi, ha coinvolto decine di sportivi e personaggi pubblici. Come Stevie Wonder, che durante un suo concerto a New York, con l’aiuto del figlio, si è inginocchiato sul palco. O come Eddie Vedder e Pharrell Williams. Che hanno fatto lo stesso.
Adesso Trump, furioso, si lancia a testa bassa nella polemica, sperando sempre che il suo zoccolo duro di elettori gli dia sempre ragione, come ha sempre fatto anche se lui “sparasse a qualcuno sulla Quinta avenue”. Trump continua a dimostrarsi un presidente che punta a “dividere” gli americani e ci riesce anche col pretesto della bandiera americana, simbolo d’unità. Ma questa volta i “nemici” non sono i messicani “illegali e violentatori” appoggiati da coloro che non vogliono costruire il Muro. Questa volta sono le star degli sport più amati dagli americani, compresi quei cittadini USA che hanno votato per lui. E soprattuto, questa volta Trump si ritrova ad attaccare un pilastro della democrazia americana, il Primo Emendamento della Costituzione, il più importante dei “Bill of Rights”, che difende il diritto di tutti a protestare contro l’autorità. Trump, nella sua smania di stare sempre al centro delle polemiche, di credere che “molti nemici” portino “molto onore” alla sua causa, trascina i suoi supporter anche nel campo minato del rispetto della Costituzione. Sguazzare sui proclami dei muri anti immigrati, o minacciare “Rocket Kim” con fuoco e fiamme, possono essere una strategia anche ammiccante nei confronti di chi lo ha eletto. Appiccare il fuoco alla colonna più importante della Costituzione americana, può diventare invece l’ultima partita. Una partita fatale forse per i giocatori che protestano? O addirittura per la democrazia USA? Molto più probabile che lo diventi per il 45esimo Presidente degli Stati Uniti.