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Ambiente: Donald Trump, tra cambiamenti climatici e veti

Il presidente USA non cambia idea, ma in tutto il pianeta continuano a essere pubblicati studi dal contenuto preoccupante

C.Alessandro MauceribyC.Alessandro Mauceri
Ambiente: Donald Trump, tra cambiamenti climatici e veti
Time: 5 mins read

Il presidente degli USA Donald Trump pare non voler cambiare la propria decisione di non rispettare gli accordi di Parigi sottoscritti e ratificati dal suo predecessore Barak Obama (incurante del fatto che l’iter per far ciò richiederebbe diversi anni per essere completato). Intanto, però, in tutto il pianeta continuano ad essere pubblicati studi che, non solo confermano che la causa dei cambiamenti climatici non è dovuta principalmente a fenomeni naturali (come pure avevano cercato di ribadire blasonati scienziati come Zichichi e perfino il già premio Nobel Rubbia), ma che anzi la situazione potrebbe essere addirittura peggiore di quanto si credeva.

Uno studio appena pubblicato e realizzato dai ricercatori di 13 agenzie federali americane ha confermato che, anche negli USA, le conseguenze del surriscaldamento globale sono evidenti:  i ricercatori affermano che dal 1880 al 2015 l’innalzamento delle temperature è stato di 1,6 gradi Fahrenheit (quasi 1 grado centigrado). Ma la cosa più rilevante è che è stato conseguenza dell’azione dell’uomo. Secondo il rapporto “ci sono evidenze che dimostrano come le attività umane, specialmente le emissioni di gas serra, sono le principali responsabili per i cambiamenti climatici rilevati nell’era industriale. Non ci sono altre spiegazioni alternative, non si tratta di cicli naturali che possano spiegare questi cambiamenti climatici”.

Come previsto [e come abbiamo ribadito anche nel nostro ultimo libro Guerra all’Acqua, n.d.r.], le cause “naturali” citate da Trump e dai suoi fedeli appena nominati alla guida dell’EPA non hanno alcuna giustificazione scientifica: il riscaldamento globale temporaneo causato da El Niño è terminato un anno fa. Invece il clima anche nel  2017 si sta rivelando incredibilmente caldo: secondo la National Oceanic and atmospheric administration Usa (Noaa), la prima metà del 2017 è stato il periodo gennaio-giugno  più caldo dopo il primo semestre del 2016 (che però era stato interessato da un  El Niño “mostro”, uno dei più forti ed estesi mai registrati). In una e-mail inviata a ThinkProgress il climatologo Michael Mann ha ripetuto: “Come se non fosse abbastanza sconvolgente vedere tre anni consecutivi di record mondiali, nel 2014, 2015 e 2016, per la prima volta stiamo ora vedendo temperature vicine al record anche in assenza del contributo di El Nino del quale ha beneficiato il record dell’anno precedente”. Altrettanto sorpresa Ahira Sanchez-Lugo, climatologa della Noaa:  “Dopo il declino del forte El Niño, mi aspettavo che i valori calassero un po’…. Quest’anno è stato estremamente sorprendente”. “Il fatto che si raggiungano continui record del riscaldamento climatico è una prova di quanto le temperature siano state influenzate dall’accumulo di gas serra legati all’uso di combustibili fossili”.

Un utilizzo smodato e scriteriato di combustibili fossili che potrebbe avere effetti devastanti nel medio periodo. Solo pochi giorni fa la Banca asiatica per lo sviluppo ha pubblicato un rapporto dal titolo “A Region at Risk: the Human Dimensions of Climate Change in Asia and the Pacific” nel quale si prevede che, per i paesi asiatici e per quelli che affacciano sul Pacifico, gli effetti dovuti al riscaldamento globale saranno devastanti: il numero di persone costrette ad abbandonare le loro case potrebbe raggiungere la cifra impressionate di un miliardo. Secondo lo studio, è possibile attendersi un aumento delle temperature non di un grado e mezzo ma di ben 6 gradi Celsius rispetto ai tempi pre-industriali (per alcune parti dell’Asia e del Pacifico entro il 2100). Aumenti che avrebbero drastiche conseguenze sui sistemi meteorologici, sull’agricoltura e sulla pesca. E di conseguenza sulla biodiversità, sul commercio e sullo sviluppo urbano.

L’assenza di politiche concrete per ridurre le emissioni di gas serra avrà conseguenze che non riguarderanno solo gli USA e i paesi asiatici. Anche i paesi europei saranno soggetti a cambiamenti epocali che nemmeno le previsioni più catastrofiste avrebbero fatto prevedere.  A subirle le conseguenze, entro fine del secolo, saranno i due terzi della popolazione europea. È quanto emerge dallo studio Increasing risk over time of weather-related hazards to the European population: a data-driven prognostic study pubblicato sull’autorevole rivista scientifica The Lancet.

Lo studio prevede che, solo per le ondate di calore, si passerà da 2700 morti l’anno a 151.500 decessi l’anno. Il problema riguarderà soprattutto il Sud dell’Europa dove entro fine secolo per tutti i problemi meteo presi in esame sono attesi 700 decessi l’anno per milione di abitanti. “Il cambiamento climatico è una delle minacce globali maggiori per la salute umana del XXI secolo e il suo pericolo per la società sarà sempre più connesso a eventi legati a condizioni meteo estreme”, ha detto Giovanni Forzieri, ricercatore del Joint Research Centre della Commissione Europea e coautore dello studio. senza misure drastiche per ridurre il riscaldamento globale, “circa 350 milioni di europei potrebbero essere esposti a condizioni meteorologiche estreme su base annuale entro la fine del secolo. Questo sostanziale aumento del rischio di pericoli legati al clima è dovuto principalmente ad un aumento della frequenza delle ondate di caldo. Altri fattori dietro l’aumento previsto dei rischi legati al clima sono la crescita della popolazione e l’urbanizzazione”.

E ad essere più colpita sarà proprio l’Europa meridionale. L’Italia risulta tra i paesi più a rischio, in particolare in regioni come il Veneto e l’Emilia Romagna: “Gli estremi climatici potrebbero diventare il maggior rischio ambientale per le persone della regione, causando più morti precoci da inquinamento atmosferico”. Cambiamenti climatici non saranno il solo problema per i paesi europei. Proprio a causa dell’innalzamento delle temperature, il numero dei profughi ambientali crescerà in modo insostenibile: come ha detto il professor Schellnhuber anche paesi ricchi e ben organizzati come la Germania potrebbero non essere in grado di far fronte ai flussi migratori. Ancora peggiore la situazione per i paesi meno sviluppati in Asia che potrebbero non avere la capacità di assumere grandi afflussi di migranti che fuggono dagli effetti del cambiamento climatico. Paesi come il Bangladesh, l’arcipelago delle Filippine, la Cina, e molti altri potrebbero essere costretti ad affrontare problemi legati alla sicurezza alimentare. I cambiamenti climatici infatti avranno un impatto significativo sull’agricoltura, un settore in cui dipende la maggioranza dei poveri delle regioni.

Bianca Moebius-Clune, direttrice del dipartimento americano per la salute del suolo

Problemi di dimensioni mai viste prima ma che evidentemente non interessano molto a chi lo scorso anno ha basato la propria campagna elettorale sulle promesse alle imprese del petrolio e del carbone. Lo stesso che nei giorni scorsi come riportato (dal Guardian e dalla CNN) ha fatto scrivere alla direttrice del dipartimento per salute del suolo, Bianca Moebius-Clune, una lettera nella quale sono elencati i termini che il personale dovrebbe sostituire e quelli dovrebbero essere evitati. Stranamente, nella categoria “da evitare” le parole “cambiamento climatico” devono essere sostituite con “situazioni meteorologi che estreme” e  “adattamento ai cambiamenti climatici” dovranno diventare “resilienza agli estremi atmosferici”.

Come dire: visto che non si è riusciti a negare la realtà, si cerca almeno di non parlarne. Almeno fino a quando non sarà più possibile negare le conseguenze dei cambiamenti climatici in atto.

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C.Alessandro Mauceri

C.Alessandro Mauceri

Sono nato a Palermo, città al centro del Mediterraneo, e la cultura mediterranea è da sempre parte di me. Amo viaggiare, esplorare la natura e capire il punto di vista della gente e il loro modus vivendi (anche quando è diverso dal mio). Quello che vedo, mi piace raccontarlo con la macchina fotografica o con la penna. Per questo scrivo, da sempre: lo facevo da ragazzino (i miei primi “articoli” risalgono a quando ero ancora scolaro e dei giornalisti de L’Ora mi chiesero di raccontare qualcosa). Che si tratti di un libro, uno studio di settore o un articolo, raramente mi limito a riportare una notizia: preferisco scavare a fondo e cercare, supportato da numeri e fatti, quello che c’è dietro. Poi, raccontarlo.

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