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Falcone 25 anni dopo: i siciliani hanno visto e hanno ragione

L’Anniversario sul palco, la morte sulla strada. Come sempre in Sicilia

Fabio CammalleribyFabio Cammalleri
Falcone 25 anni dopo: i siciliani hanno visto e hanno ragione

Il luogo dell'omicidio di mafia oggi a Palermo (Foto da Twitter @MonicaPavone3)

Time: 4 mins read

Naturalmente, nessuno sa niente. E non nel senso in cui certo facile sussiego, certo impavido senso civico conto terzi, certa aneddotica da cabaret di quart’ordine, di fronte ad un omicidio in Sicilia, sempre allude, e spesso accusa, censura, disprezza. Nessuno sa niente dell’omicidio di Giuseppe Dainotti, uomo d’onore di rango, secondo quanto assicurano sentenze definitive, (condannato all’ergastolo per l’omicidio, nel 1983, del Capitano dei Carabinieri di Monreale, Emanuele Basile), perché gli investigatori che ancora possiedono arnesi del mestiere: fiuto, qualche contatto, occhio vigile e analisi di luoghi, tempi e modi dell’azione, come si dice propriamente, sono al lavoro da poche ore, e perciò, ammesso che abbiano un’idea, la tengono per sè.

Ma una cosa noi la sappiamo già, il giorno prima del venticinquesimo anniversario della Strage di Capaci: e più che saperla, la sentiamo. Il grumo allo stomaco è tornato. Quello. Si può sperare che sia tornato per poco: ma è tornato.

Una memoria criminosa antica; due colpi, asciutti, “puliti”, sparati da uno scooter, o forse una motocicletta, ad un obiettivo che andava in bici; in pieno giorno, in pieno centro, risuonano sordi e ridestano cupe inquietudini fra le donne e gli uomini che vivono in Sicilia.

E’ possibile che l’imminente ricorrenza sia solo una coincidenza, oppure no. Certo amplifica, e il clamore supplementare, o segna precise volontà, ignote, e perciò, preoccupanti; o segna indifferenza, quindi ritrovata sicurezza: e sarebbero ancora più preoccupanti. Chi osserva, per ora rimane (e ce ne sarebbe comunque d’avanzo) di fronte ad un interrogativo di metodo, diciamo.

Quel grumo allo stomaco subito avvertito (per chi lo ha avvertito) suggerisce che l’Apparato Antimafia ha ragione? Che l’estensione di indagini e di processi in direzioni sempre più rarefatte, alla ricerca di “aree” incruente, ma ritenute perniciose quanto le prime (e anzi più); che l’assidua dedizione a campi d’intervento storico-investigativo; la diffidenza sistematica verso le forme e i modi della politica democratica, costantemente stimate (cioè disistimate) a rischio di essere possedute, e soggiogate da forze vaste quanto indefinite, sia la giusta via?

O, invece, quel grumo, ci dice che l’Apparato Antimafia, proprio in quanto fattosi Apparato, ha torto; che la fissazione di priorità, auto qualificate culturali, all’insegna di conflittualità di tipo bellico: presentate come “attività”, “fenomeno”, “presenza”, e non come azione delittuosa, volta a volta attaccata ad una traccia empiricamente riconoscibile, e sostenibile da un ragionamento, non estenuata in assidue sublimazioni ermeneutiche, in sintassi per pochi, in linguaggio veritativo cifrato e incontrollabile, di cui potersi solo “fidare” o “non fidare”, rispetto al quale potersi dire solo “fedeli” o infedeli”, ha torto?

Temo che quel grumo dica che l’apparato Antimafia, così come si è venuto configurando dopo le Stragi, abbia torto. Torto marcio.

Non ci si deve illudere. Gli uomini e le donne che vivono in Sicilia hanno visto; pure se quello che hanno visto non interessa (non si vuole che interessi) i talk show, gli “esperti”, i cultori di una omertà di Stato su cui, invece, ogni velo non è mai di troppo.

Hanno visto i maneggi, parentali, amicali, “relazionali”, sui sequestri, sulle confische, nati nei Palazzi di Giustizia: a Palermo, ma non solo.

Hanno visto portatori di Nomi nobili della Repubblica, come Franco La Torre, figlio di Pio, espulso per SMS dall’Alma Mater dell’associazionismo antimafia, Libera, dire, quanto a Palermo, a quelle Misure di Prevenzione, di cui poco i suoi associati avevano sentito: “si sturino le orecchie”.

Hanno visto noti esponenti “Antiracket”, come Roberto Helg, già Presidente della Confcommercio, prendere quello che non dovevano.

Vedono tutt’ora altri e nuovi esponenti di un qualche altro “Antiracket”, intesservi rigoglio professionale, vigoroso e giovanile slancio politico.

Hanno visto processi, come il Borsellino uno e bis, infliggere la pena dell’ergastolo ad imputati che erano innocenti, perché la delazione, nei secoli sfuggente e infida, è diventata oggetto di “gestione”, delegata come materia seriale e protocollare a burocrazie potenti e sempre in grado di rendersi impersonali, inafferrabili, di fronte a responsabilità, a scelte, ad errori.

Hanno visto investigatori di prim’ordine, che si sono calati nella palude per noi, andando in avanscoperta in anni bui, quando agire nei quartieri non comportava indennità speciali, ma solo rischi, finire dileggiati, additati, anche formalmente, alla collettiva riprovazione, come traditori: e se non morti tragicamente, assolti una volta, accusati, una seconda; e assolti una seconda, accusati una terza, e così consumare un’irriconoscenza costruita su equivoci sorti, probabilmente, da suggestioni liceali mal digerite: che ignorano Eschilo e leggono Ciancimino.

Hanno visto le loro sofferenze anonime, quelle stesse ridestate da quel grumo di nuovo addensatosi oggi, alimentare un basso mercimonio paraletterario, diritti d’autore, intrattenimento, predicatori lustri di soldi facili, ammantati di barbette hipster, che parlano o scrivono di Zia Lisa (Palermo), di Fortino (Catania), di valle dello Jato, di Madonie, perché lo leggiucchiano sull’I-Pad: ma sempre saccenti, sempre sicuri di poter spiegare la mafia, i livelli, gli scambi, gli appalti, l’economia, tutto immancabilmente criminale, come in un fumetto mal riuscito. Perché loro sanno, e gli altri no. E mai fermarsi a discernere quanto, in una faticosa e complessa transizione storica ad una libertà di negozi e di merci, dopo otto secoli di latifondo (formalmente estinto solo nel 1950), imporrebbe di distinguere, di graduare, e non di appiattire sotto un’unica sferza: intollerante, comoda, pigra, vile e sterilizzante.

Hanno visto, le donne e gli uomini che vivono in Sicilia; e hanno sentito gli spari di stamattina; e hanno paura. E molti non andranno alla “Commemorazione del quarto di secolo”; perché non si fidano più di chi pretende di insegnargli a stare al mondo, ingrassando per questo: impinguandosi, di carriere, di stipendi e trattamenti di quiescenza, di parcelle e consulenze principeschi. In nome della legge, e della legalità: vecchi, immarcescibili arnesi del Palazzo, lui eslege, e sopraffattore.

Hanno visto. E si sentono ad un passo dall’essere, dal ritornare ad essere considerati, come sempre, per naturale privilegio, tutti mafiosi o mezzi mafiosi, tutti omertosi o mezzi omertosi; e così, senza indennità speciali, generosamente ammessi a vivere da eterni alunni somari dell’altrui civiltà.

Non si fidano più degli Apparati prepotenti, ciarlatani, e che non chiedono mai scusa.

E hanno ragione.

 

 

 

 

 

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Fabio Cammalleri

Fabio Cammalleri

Il potere di giudicare e condannare una persona è, semplicemente, il potere. Niente può eguagliare la forza ambigua di un uomo che chiude in galera un altro uomo. E niente come questa forza tende ad esorbitare. Così, il potere sulla pena, nata parte di un tutto, si fa tutto. Per tutti. Da avvocato, negli anni, temo di aver capito che, per fronteggiare un simile disordine, in Italia non basti più la buona volontà: i penalisti, i garantisti, cioè, una parte. Forse bisognerebbe spogliarsi di ogni parzialità, rendendosi semplicemente uomini. Memore del fatto che Gesù e Socrate, imputati e giudicati rei, si compirono senza scrivere una riga, mi rivolgo alla pagina con cautela. Con me c’è Silvia e, con noi, Francesco e Armida, i nostri gemelli.

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