Il terrorismo centra il suo obiettivo quando, lo dice la stessa parola, “terrorizza” il nostro quotidiano. Qui a Cannes ne tocchiamo con mano la vittoria: edizione faticosissima, questa post-strage di Nizza. Si aggiungono al caldo, alle code, alle proiezioni che si accavallano e all’organizzazione non proprio sempre impeccabile – marchi di fabbrica del brand Festival de Cannes – le tonnellate di controlli e la “zona Palais” trasformata in un labirinto dalle onnipresenti barriere anti auto.
Sia chiaro, paghiamo questo scotto volentieri se è ciò che serve a “proteggerci”, ma non si può fare a meno di notare che il “labirinto” di barriere di cui sopra sia lo specchio dell’inestricabilità del tempo in cui viviamo. Difficoltà rispecchiata, ovviamente, anche dai film, che sembrano accentuare il discorso già emerso lo scorso anno, quello di un senso di “disordine” generale, di un’indecifrabilità simbolica, di un cortocircuito del senso.
Sabato, però, a mettere ordine ci ha provato l’ispettore Calaghan: Clint Eastwood è approdato in Salle Debussy e ha presentato la versione restaurata de Gli Spietati (The Unforgiven, 1992). Terrà nei prossimi giorni una lezione di cinema: chissà se in quel frangente qualcuno avrà il coraggio di chiedergli una prima valutazione dell’era Trump, di cui sul regista di Mystic River è stato un convinto sostenitore.
Comunque, al cuore selvaggio dell’elettorato di Trump allude il primo dei film che raccontiamo in questo secondo episodio del nostro diario, Wind River.
Un Certain Regard – Wind River, di Taylor Sheridan
Nel “concorso b”, Un Certain Regard, sbarca il thriller Wind River scritto e diretto da Taylor Sheridan, autore degli script di Sicario di Villeneuve e di Hell or High Water di David Mackenzie. Proprio con quei due titoli, Wind River va a formare, nelle intenzioni dell’autore, un’ideale trilogia di neo-western. A Sheridan interessa raccontare in un certo senso lo spostamento della frontiera, non più – come nel vecchio West – una barriera geografica che separa “dall’altro”, bensì una faglia etica e interna che divide in modo molto poco chiaro le regole morali e la loro percezione comune.
L’America di Sheridan è quella dei romanzi di McCarthy, lontana dalle città e persa nel buco nero culturale e ideologico delle desolate lande di provincia.
In Wind River, che è l’esordio di Sheridan alla regia, c’è, come in Sicario, una strana cooperazione tra una giovane recluta dell’FBI (Elizabeth Olsen) e un cacciatore dai modi spicci e spesso “oltre il limite” (bravissimo Jeremy Renner), che, spinti – anche – da ossessioni personali, tentano di risolvere un terribile caso di omicidio. L’ambientazione è quella della riserva indiana di Wind River appunto, ricca di petrolio e di compagnie di uomini bianchi che lo estraggono, uomini bianchi la cui presunta supremazia ha confinato i nativi americani, . Nel nulla, nel silenzio, nel bianco delle montagne del Wyoming si sviluppa questo thriller che sembra provenire dai Seventies, per compattezza e rigore morale.
Concorso – Le Redoutable, di Michel Hazanavicius
Une année studieuse (Un anno cruciale, edito in Italia da E/O Edizioni) è il libro autobiografico che Anne Wiazemsky ha dedicato al suo matrimonio con il maestro della Nouvelle Vague Jean-Luc Godard. Il regista francese Michel Hazanavicius torna in concorso a Cannes tre anni dopo il deludente The Search e a distanza di sei dal successo planetario di The Artist proprio con la problematica storia d’amore raccontata dalla Wiazemsky, una liaison che cade in un anno davvero “cruciale”, quel Sessantotto francese che metterà vari mondi sottosopra: quello di Anna, quello di Godard, del cinema e della società francese intera.
Come aveva fatto in The Artist, Hazanavicius si appropria della forma del suo “oggetto”: là l’era il muto raccontato attraverso i suoi stessi codici, qui è l’evoluzione del godardismo raccontato “alla maniera” di Godard e cioè a suon di Jump Cut, trovate grafiche, sguardi in camera e tutti gli espedienti linguistici del modo di fare cinema del maestro francese. Superficialmente il giochino funziona ed è impossibile non cedere al racconto di Hazanavicius: si ride e ci si diverte a canzonare bonariamente (ma neanche tanto) il regista francese.
Dall’altro, però, tra una forzatura e l’altra (vogliamo parlare degli improbabili ritratti di Marco Ferreri e Bernardo Bertolucci), affiora una domanda semplicissima e pericolosa: di che cosa, realmente, stiamo parlando?
Godard era ossessionato dal linguaggio e dal suo rapporto con il contenuto, tanto che per il regista di A Bout de Suffle la forma è contenuto, in quanto c’è sempre, nel suo cinema, una riflessione metalinguistica. Il sospetto è che anche per Hazanavicius, invece, al di là della forma non ci sia contenuto: grattato via il paraculismo acrobatico della forma e la seduzione del calco scintillante, nel suo cinema si spalanca una finestra sul nulla, un pericoloso elogio del “cialtrone” a scapito dell’intellettuale che suona un po’ inquietante. Intendiamoci: lungi da me l’idea di promuovere l’intoccabilità di Godard e di evitare di aprire un dibattito su linguaggi, modi, tempi della sinistra e sull’eredità di quegli anni. Il problema è che in Le Redoutable non c’è volontà di dibattito, manca totalmente una prospettiva, un punto di vista, qualcosa da dire su “quella” Parigi, “quel” mondo, quell’anno che non si risolva in una grossolana pacca sulla spalla.
Rimangono alcune gag divertenti: gli occhiali di Godard che si rompono continuamente a contatto con la folla, quasi fosse incapace di “guardare” il mondo reale, o il direttore del festival di Avignone che sbaglia in conferenza stampa il titolo de La Chinoise e poi si addormenta durante la proiezione. Attenzione al messaggio politico, però: in un’età di giullari populisti e di liberismo incolto, la sequenza finale del film, che accosta la troupe di Il seme dell’uomo di Marco Ferreri che canta Azzurro e la solitudine ermetica dell’intellettuale Godard qualche tavolo più in là assume il sapore sguaiato e inquietante delle peggiori battute di Berlusconi sui comunisti.
Concorso – The Meyorowitz Stories, di Noah Baumbach
Il cinema di Baumbach (Mistress America) si colloca a mezza via tra il classico Woody Allen e l’indie Alex Ross Perry: raffinato e piccolo borghese, hipster e intellettualistico. In The Meyorowitz Stories, Baumbach, con molta poca originalità, racconta una famiglia “disfunzionale” da manuale: il padre artista dall’ego smisurato, i figli che tentano di fare i conti con un senso di inadeguatezza cristallizzato nel profondo e sfociato in differenti tipologie di nevrosi. Un’improvvisa malattia del genitore (ottimamente interpretato da un Dustin Hoffman tornato in ottima forma e splendidamente affiancato da Emma Thompson) offre l’occasione ai tre di spezzare la coazione a ripetere.
Funziona tutto, nell’ingranaggio di Baumbach: le dinamiche tra personaggi sono “clinicamente” corrette, le battute sono quelle giuste, il ritmo anche, gli attori senza sbavature, funziona addirittura Adam Sandler. Eppure un senso opprimente di già visto e di “maniera” avvolge il film, sin dalla prima scena. Si ride davanti a The Meyorowitz Stories, e se ne ammirano molte cose, ma la scintilla, quella no, non scatta mai.
Ah, dimenticavo: è uno dei film Netflix, proprio uno di quelli attorno a cui si è sviluppata la sterile polemica dei giorni scorsi. Almodovar non dovrebbe fare troppa fatica a portare avanti la sua sterile crociata e a convincere i suoi giurati a ignorare The Meyorowitz Stories.