Si può restare stupefatti o scandalizzati di fronte a modi e contenuti dell’incontro di venerdì 17 tra il presidente statunitense e la cancelliera tedesca Angela Merkel. Si può, al contrario, esprimere soddisfazione per come Donald Trump le abbia “cantate chiare” e abbia fatto stare “al suo posto” la leader dell’Europa in visita.
Da ambedue le posizioni, si concorderà che ci si trova, per alcune cose dette e fatte nel corso dell’incontro, di fronte a un inedito, destinato ad avere conseguenze per ora solo intuibili.
Sorvoliamo sulla maleducazione e totale incultura politica che l’inquilino della Casa Bianca insiste nell’esibire con tracotanza, specie quando lo fa con leader di paesi amici e alleati, verso i quali l’America ha assunto di fronte alla storia compiti e statura ben precisi. L’uomo è quello: peraltro si è circondato di gente della sua stessa specie che non lo aiuta certo a cambiare, anzi. Viene persino da pensare che, per molti versi, si tratti di una posa politica, adottata in campagna elettorale e che continuerà ad essere esibita coerentemente al successo incassato presso fan e follower.
Sorvoliamo anche sugli aspetti di cerimoniale, anche se qualche parola sulla sceneggiata virale della mancata stretta di mano va detta. Come da abitudine, gli operatori hanno chiesto ai due di lasciarsi fotografare e riprendere mentre si stringono la mano nello studio presidenziale. Merkel reitera gentilmente al presidente ma questi l’ignora deliberatamente. Riprovevole e cafona quanto si voglia, l’esibizione di muscoli di fronte alla cortese signora in visita, ha contenuto politico, visto che da sempre il cerimoniale è epifania di segnali politici, concordati sin nei dettagli prima di ogni incontro. Nel gesto per niente cavalleresco si afferma la propria presunta supremazia, lo spregio per chi non si allinea, la distanza che si vuole interporre con chi risulta estraneo. Qualcosa del genere fece Justin Trudeau, timoroso di sporcare le proprie mani accostandole a quelle trumpiste. Poi cedette, come peraltro ha ceduto Trump, fotografato mentre stringe le mani di Merkel prima e dopo la scenetta virale. Però il segnale di Trudeau resta agli atti, e così quello di Trump. Sugli aspetti personali e politici dell’episodio fa ben giustizia the Epoch Times, quindi avanti su questioni più serie.
Modalità e contenuti del bilaterale alla Casa Bianca, confermano la solidità del rapporto transatlantico. Al tempo stesso fanno capire che questo è sottoposto agli aggiornamenti richiesti dalla presidenza americana già in campagna elettorale. Si aprono pertanto scenari inediti sui quali riflettere. Come capita in certi trattati internazionali nei quali, al testo sottoscritto dalle parti, fa seguito una serie scritta di postille, riserve, eccezioni, puntualizzazioni unilaterali, ma note all’altra parte, Stati Uniti ed Europa tendono a sottolineare talune diversità nel modo di stare all’interno dell’indiscussa alleanza.
E’ innanzitutto una questione di valori. Le comunità europee e l’attuale Unione nascono su una serie di negazioni e di affermazioni.
Dicono no al militarismo e al bellicismo. No a tortura e pena di morte; no ad ogni discriminazione basata su genere, religione, cultura. No al bilateralismo e alla diplomazia muscolare. No all’affermazione dell’interesse proprio contro l’interesse delle altre nazioni. No alla chiusura verso le altre nazioni, in particolare quelle che dagli europei sono state colonizzate nei secoli.
Dicono sì al multilateralismo interno ed esterno; alle libertà economiche piene per i paesi membri e quanto più possibile aperte per i paesi esterni; sì alle azioni di pace e di collaborazione per lo sviluppo; sì allo stato sociale, al potere dei sindacati dei lavoratori, alla società del welfare. Non casualmente l’attuale Unione Europa è premio Nobel per la pace e il primo blocco al mondo per contributi finanziari e assistenza tecnica allo sviluppo.
Il vecchio continente, dissanguato da due guerre civili crudelissime e distruttive, ha scelto un percorso mai prima seguito a memoria d’uomo: unire economicamente e forse politicamente dal basso e consensualmente, popoli da sempre in guerra per la supremazia reciproca, non per affermare supremazia su altre nazioni, ma per collaborare e creare insieme la pacificazione universale. E’ un processo che inizia grazie anche alla ferma volontà statunitense di sostenerlo e spingerlo, e che nei momenti critici torna a trovare spesso nei presidente americani (ultimo caso, il viaggio del presidente Obama in Europa con il pressante invito ai britannici a non lasciare l’Unione e il caldo saluto alla nuova Berlino) appoggio non solo politico.
Non tutti questi valori sono condivisi dagli Stati Uniti d’America, certamente non in questa fase della loro storia, e comunque non con la stessa intensità. Molti dei cosiddetti American Values, consegnati a noi dai vari Thomas Jefferson, Abraham Lincoln, Franklin Delano Roosevelt, Dwight Eisenhower, John Kennedy, non sembrano essere più ritenuti tali da troppi americani, certamente non dagli elettori di Donald Trump.
E’ qui che obiettivamente nasce lo scenario dei distinguo tra le due sponde dell’Atlantico, evidenziato nell’incontro alla Casa Bianca fra il maggior leader europeo e il presidente. Quando sugli immigrati Merkel richiama il dovere giuridico inappellabile, proveniente dalla Convenzione di Ginevra, a dare “protezione” ai rifugiati, e critica il cosiddetto “Muslim Ban”, e si sente dire che bisogna proteggere i cittadini nazionali e che fare entrare o non significa attribuire un “privilegio” volontario, l’inconciliabilità è evidente. Quando si opta per misure restrittive al commercio, in probabile violazione delle regole condivise dalle nazioni aderenti all’Organizzazione mondiale del commercio, di nuovo si oppone in modo apparentemente inconciliabile protezionismo a liberismo, bilateralismo a multilateralismo. Queste sono visioni del mondo opposte e vale forse la pena ricordare ai consiglieri del presidente che le guerre sono sempre nate da bilateralismi e protezionismi, anche perché ambedue hanno l’inconfessabile vocazione alla diplomazia segreta, quella contro la quale si batteva un altro grande (e sventurato) presidente americano, Woodrow Wilson.
Ovvio che, con queste premesse, non solo Donald Trump non si senta obbligato ad essere particolarmente amico dell’Unione Europea, ma che anzi possa, in talune circostanze, vederla come il fumo negli occhi, un ostacolo da rimuovere appena ve ne siano le condizioni, magari fomentando sue divisioni interne e lavorando per diminuire lo status riconosciuto alle istituzioni di Bruxelles. Ha provato a farlo con Angela Merkel, costretta a ricordare al suo interlocutore che certe materie, come il commercio internazionale, deve discuterle con la Commissione Europea, non con lei o altri capi di governo dei paesi membri dell’Unione. Ma non tutti i capi di governo europei avrebbero assunto simile fermezza di fronte al presidente degli Stati Uniti, una constatazione che non fa onore all’Europa.
Siamo purtroppo ai fondamentali di un dialogo transatlantico che stenta a ripartire. D’altronde è difficile dialogare con chi pretende di affermare la propria posizione, senza aprirsi a quella altrui. In questo, Angela Merkel ha avuto una davvero felice espressione, a Washington, nel confronto pubblico. Di fronte al bullismo declamatorio dell’ospite che ha iniziato ripetendo uno degli slogan preferiti, “l’America più forte è nell’interesse del mondo intero”, la cancelliera ha puntualizzato: “E’ meglio parlarsi l’uno con l’altro, piuttosto che parlare l’uno dell’altro”.
Detto dei valori, ci sono gli interessi legittimi, e questi o sono identificati come comuni o diventano fonte di contrasto. Se l’attuale presidenza dell’America First ha con evidenza chiarito che gli interessi americani vengono prima degli altri e possono quindi essere opposti a quelli degli altri, bisogna capire se essere alleati contempli o non, la reciproca solidarietà. Fino a ieri interessi nazionali e solidarietà atlantica puntavano ad essere resi armonici attraverso i vari piani multilaterali che proprio gli americani avevano edificato nel secondo dopoguerra: da Banca Mondiale a Osce, a Bers, NATO, ONU e sue agenzie, tanto per fare qualche nome. Se, come sembra l’America si appresti a fare per il settore dell’automobile, si opta per guerre commerciali, la solidarietà va in frantumi e resta la lotta per l’affermazione degli interessi, anche contro un diritto internazionale che lo consente solo entro certi limiti.
Diversa, per capirsi, la sacrosanta richiesta americana, agli europei, di spendere di più nel meccanismo comune di difesa, vecchia quanto il cucco ma non per questo meno giustificata. Anche qui, però, dovrebbe funzionare un minimo di solidarietà. Stati con finanza disastrata, dovrebbero diminuirla la spesa militare, altro che aumentarla: il primo a seguire questa linea dovrebbe essere la Grecia, che continua a spendere nel warfare risorse che dovrebbe destinare al welfare, soprattutto nella situazione nella quale è finito il suo sociale sotto i colpi della ristrutturazione del bilancio e del debito.
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Sabato 25 marzo a Roma gli stati membri dell’Unione celebreranno i 60 anni dalla firma in Campidoglio dei trattati istitutivi della Comunità economica europea, antesignano dell’attuale Unione.
E’ un’ottima occasione data agli europei per capire, anche attraverso il racconto di Merkel sul suo incontro di Washington, che il momento di riprendere il cammino verso la piena Unione non può essere rinviato, tanti sono gli attacchi che dall’interno e dall’esterno vengono scatenati. Si pensi a cosa è stato capace di fare il presidente turco Erdogan per influenzare il risultato elettorale a favore del nazional-popolista Geerd Wilders, e creare scompiglio nell’Unione alla vigilia delle celebrazioni di Roma. Si ricordi quale crisi abbia allestito Vladimir Putin pur di bloccare il cammino dell’Ucraina verso l’Unione Europea. Sono evidenti segnali della rilevanza attribuita, da chi ne teme l’influenza sui propri destini autoritari, a chi ha un’altra visione dello stato, dei cittadini, della democrazia.
E’ un’ottima occasione per Trump di riflettere su come gli Stati Uniti parteciparono all’inizio del percorso che ha portato all’Europa pace e prosperità, e all’America un alleato forte, tecnologicamente adeguato, economicamente pronto a sostenere le sfide. Potrebbe capire che è interesse americano, come rispondeva il presidente Truman al Congresso a chi gli chiedeva perché sostenesse finanziariamente e politicamente i primi vagiti europei, che quel progetto cresca ancora, e batta il ritorno di nazionalismi e revanchismi pronti ad allignare in territorio europeo.