Sovvertendo i capisaldi della politica estera statunitense degli ultimi settant’anni, Donald Trump ha avvertito l’Europa che potrebbero essere rivisti due aspetti dei rapporti interatlantici. Da un lato, partendo dalla soddisfazione per la decisione britannica di abbandonare le istituzioni unionali, Washington vellica i membri dell’Unione di più tiepido europeismo a seguire l’esempio di Londra, disfacendo i vincoli europei e avviandosi sul percorso della piena sovranità nazionale. Dall’altro, pone con forza la questione del contributo europeo ai costi dell’Alleanza atlantica, minacciando di uscita dalla Nato i paesi che non intendessero contribuire alla ristrutturazione del bilancio.
Trump detesta i meccanismi multilaterali, perché con evidenza vi vede limiti alla libertà di azione della grande potenza della quale è a capo. La questione è che non sempre gli interessi così cari ai nazionalisti (il Trump di America First! indubbiamente lo è) vengono meglio tutelati nei meccanismi bilaterali, dovendosi questi confrontare con gli interessi che il sistema internazionale, nei livelli globali e regionali, chiede siano tenuti in debito conto.
Sul primo punto si ricordi che Washington ha sempre considerato interesse nazionale statunitense l’avanzamento del progetto di Unione Europea. Su quell’obiettivo ha conseguentemente investito mezzo secolo di impegno politico, economico e strategico. Nella prima parte del Novecento lo scontro tra nazionalismi europei aveva costretto due volte gli Stati Uniti ad entrare in guerra e spedire i suoi boys oltre Atlantico con l’obiettivo di pacificare le nazioni e impedire la perdita della democrazia. Europa unita significava, per la dottrina strategica statunitense, un partner forte e affidabile, non più incline alla rissosità tra piccoli cortili nazionali che aveva caratterizzato la storia precedente. Significava anche soluzione al problema del sempre riaffiorante militarismo tedesco: la nuova Germania sarebbe stata incapsulata nella camicia di Nesso dell’Ue, dove il patriottismo germanico non avrebbe più potuto tracimare in nazionalismo aggressivo.
Tutto ciò risulta misteriosamente irrilevante all’attuale presidente e ai suoi consiglieri, forse preoccupati della capacità europea di competere finanziariamente, tecnologicamente e commercialmente, o forse angosciati dal contagio che potrebbe venire al Marte americano dalla “deriva” sociale e pacifica del patriottismo europeo.
Sul secondo punto, la cultura bottegaia del presidente, sta facendo premio sulle necessità di mantenere forte e allineata un’alleanza che è rimasta l’unico strumento di imposizione dell’ordine a disposizione del sistema internazionale. La capacità Nato nel contenimento della minaccia da est (Russia) e sud (taluni paesi arabi) va preservata nell’interesse americano, oltre che europeo. Fermo restando che i partner devono, tutti, versare il giusto per sostenere un’istituzione che è nell’interesse dei membri preservare e rafforzare, non può sfuggire al paese guida quanto diverse siano le sue responsabilità rispetto a quelle degli altri aderenti al patto multilaterale atlantico di difesa.
Si dà un’altra un’alternativa: l’Unione Europea potrebbe, come ha fatto per la moneta creando l’euro, dar luogo a uno strumento di difesa comune, autonomo dal tutelage statunitense. Gli Stati Uniti non ne guadagnerebbero affatto, ma a parte questa considerazione, la messa a regime di un meccanismo di difesa del genere richiederebbe decenni, le urgenti sfide da affrontare, come il terrorismo, pretendono invece da subito meccanismi multilaterali condivisi credibili e dissuasivi.
Se l’obiettivo della presente amministrazione è da un lato incassare qualche fattura emessa su Bruxelles e indebolire il meccanismo multilaterale che lega i membri di UE e NATO, va rilevato che nel caso detto modello avesse successo, si tramuterebbe, per le ragioni accennate, in un formidabile boomerang per Washington. Un alleato infiacchito e disunito non sarebbe di buon auspicio per la politica estera muscolare che Donald Trump ha in agenda.
Si aggiunga che la gran parte dei paesi UE attraversa la delicata fase di riqualificazione delle maggioranze di governo. Le elezioni in paesi come Olanda, Francia, Germania, la stessa Italia, per fare alcuni esempi, potrebbero tramutarsi anche in momenti di destabilizzazione politica interna e di crisi del governo delle istituzioni comuni europee. Si pensi a quanti programmi elettorali dei partiti nazional-populisti prevedono l’uscita più o meno mascherata dai comandi militari e operativi della Nato e dalle cooperazioni rafforzate dell’Unione come l’euro e Schengen. Se il presidente statunitense continuasse a soffiare sul fuoco dei nazionalismi, attuerebbe non tanto o non solo un comportamento irresponsabile, ma puro autolesionismo, perché indebolirebbe la capacità americana di tutelare la propria sicurezza e scalerebbe la capacità di partenariato commerciale industriale e finanziario interatlantico che tanto arricchisce l’America.
Qualche avvisaglia di come potrebbe iniziare a smembrarsi, per ricomporsi in altro modo, l’UE che abbiamo conosciuto, può essere raccolta nell’intervista che Romano Prodi ha rilasciato a Repubblica, meno di una settimana fa, echeggiando la posizione sull’UE a due velocità espressa, per la prima volta in sede istituzionale unionale, da parte della cancelliera tedesca Angela Merkel. Romano Prodi vi afferma: “Ma come? Trump fa la rivoluzione, annuncia scompigli, attacca la Germania e cerca di dividerla dal resto d’Europa, mina la difesa europea. Le Pen predica la morte della Ue e perfino della Nato. Siamo di fronte ad un doppio attacco coordinato: dall’estero e dall’interno. Trump e Le Pen sono i due volti dello stesso pericolo: non capisco come mai non si siano ancora sposati. E finora non era arrivata nessuna reazione. Questa è la risposta che aspettavo, anche se avrei preferito che nascesse da un più ampio dibattito politico. Finalmente la Germania sembra cominciare ad assumersi quel ruolo di leadership che non aveva mai voluto esercitare. Va bene così”.
Va bene così anche perché, paradossalmente, con un ragionamento colorito che lo stesso Prodi propone nell’intervista, l’azione trumpiana sull’Europa potrebbe stimolare le nazioni più versate sul piano dell’integrazione, a riprendere a tessere la tela di una più stretta Unione, con un’azione che si è praticamente arrestata con l’allargamento ad est (promosso con intempestività colpevole proprio da Prodi, allora presidente della Commissione). “Lo scossone dato da Trump sta diventando un acceleratore della politica mondiale. Prima, l’America era il fratello maggiore e la Germania era il più grande dei fratelli minori che ubbidivano al primogenito. Con l’arrivo di Trump, l’America non è più un fratello maggiore, ma un cugino dispettoso. E i fratelli europei adesso si trovano a dover reagire”.
Si ammetterà che, se avesse ragione l’ex primo ministro e presidente della Commissione Europea, all’ascesa della leadership germanica su un’Europa dove, libero dalla zavorra di britannici e altri europei non inclini alla via federale, un nocciolo duro rilanciasse i processi di integrazione, non potrebbe che far da contrappeso la discesa di quella statunitense.
Tanto più che al confine orientale europeo la pressione armata russa si è fatta molto forte, e che il Mediterraneo, dalla Siria alla Libia sta diventando casa (anche) russa. La durezza espressa su Libia e Palestina dalla rappresentante degli Stati Uniti al Consiglio di sicurezza Nikki Haley dice che forse nella sala ovale qualche ragionamento di senso comune lo cominciano a fare, e che nell’amministrazione vi è chi comincia a porsi la questione delle ambizioni strategiche di Putin. Se si trattasse di un effettivo cambio di rotta, potremmo assistere a qualche resipiscenza trumpiana anche sul teatro europeo. Se così non è, stringiamo le cinture di sicurezza perché a breve entreremo dentro spesse perturbazioni.