Giusto cinque anni fa, per i tipi di Random House, Rober Kaplan pubblicava un libro dal titolo profetico, The Revenge of Geoghraphy, ancor più esplicito nel sottotitolo: “What the Map tells us about coming conflitcts and the battle against fate”. Bisticciando con le teorie dei conflitti basati su culture e religioni, e con quelle del buonismo salvifico della globalizzazione, l’autore, scandagliando e narrando il tempo degli umani, mostrava la rilevanza della geopolitica nel formarsi e nel cadere di domini e imperi. Nel richiamare la natura degli stati, il loro inossidabile e feroce bisogno di sfiducia negli altri e di egoismo per sé, Kaplan avvertiva che le nuvole che apparivano all’orizzonte di quell’avvio di secondo decennio del nuovo secolo, si sarebbero presto trasformate nel nero temporale del ritorno ai nazionalismi e alle politiche dell’interesse nazionale.
Pensare che arrivavamo, in quel 2012, da almeno trent’anni di lezione sulla deterritorializzazione della politica e dell’economia internazionali, ovvero sulla progressiva e inevitabile irrilevanza di distanze, climi, fiumi oceani e montagne, in un globo raccorciato e impicciolito dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, dai satelliti, dai vettori che coprono migliaia di chilometri in decine di minuti. E che avremmo presto assistito a come i paesi arabi e la Russia, nelle loro scelte strategiche, fossero ben in linea con la teoria “geocentrica” di Kaplan e di come, al contrario, Stati Uniti ed Europa fossero incapaci di reazione di fronte al rigurgito ottocentesco di quei paesi vecchi e autoritari. Pensare che avremmo anche visto i governi e le popolazioni di piccole isole del Pacifico minacciate di estinzione dall’innalzamento delle acque oceaniche, chiedere rifugio in luoghi vicini meno sottoposti agli effetti del riscaldamento globale. Avremmo visto milioni di esseri umani espulsi dai territori che abitavano vagare verso altri territori, non altrettanto accoglienti, in fuga da guerre miseria e oppressioni.
Avremmo, libro di Kaplan in mano, (ri)ascoltato la lezione eterna della storia: che la scarsità delle risorse incluse quelle climatiche, con le fissazioni culturali ed etniche, determinano gli spazi occupati e retti dai popoli. E che i comportamenti di questi sono anche effetto di quella dinamica, che nella geografia trova uno degli elementi propulsivi.
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Inevitabile pensare alla lezione del più intenso giornalista globetrotter dei nostri tempi, nel leggere la raffica di provvedimenti assunti dal nuovo presidente statunitense nella sua prima settimana di imperio. La sua ossessione UScentrica, il suo non cale per le esigenze delle nazioni, a cominciare dalla più vicina, quella messicana, stanno perfettamente dentro molte avvertenze fornite da Kaplan. Si prenda la seguente: “Whereas borders indicate passport controls and fixed divisions of sovereignty, frontiers indicate a pre-modern world of vaguer, more informal, overlapping divisions”.
Dovremo, in questa seconda parte degli anni dieci, adattarci al “The Brave New World” che forze rilevanti nella famiglia delle nazioni vogliono fondare, iniziando dal ristabilire frontiere là dove i primi decenni del dopo-bipolare le avevano abbattute giungendo anzi sino alla cancellazione dei confini almeno sotto il profilo del libero attraversamento delle linee frontaliere nazionali. Fu il caso degli accordi di Schengen: il 14 giugno 1985, in quella minuscola località del granducato di Lussemburgo, Benelux Germania e Francia firmarono l’accordo che avrebbe dato luogo, cinque anni dopo, alla Convenzione sul sistema comune di circolazione delle persone nell’Unione Europea.
Il messaggio lanciato dall’incontro al vertice anglo-statunitense del 27 gennaio, sulla leadership del mondo va, con evidenza in questa nuova direzione, che poi, a dirla tutta, è vecchia quanto il cucco, non essendo che la riedizione dell’ambizione di dominio a fondamento razziale, che ad ogni curva della storia questo o quel reggitore di nazioni si propone di realizzare. E’ capitato persino a Mussolini, con la rivendicazione dei diritti storici della stirpe latina su Mediterraneo e Africa, figurarsi se non possa capitare a potenze ben più forti e armate, di esprimere propositi del genere.

Inevitabile, tuttavia, pensare a quale fu, il 5 marzo 1946, la reazione di Truman al discorso al Westminster College di Fulton. Missouri dell’ormai ex primo ministro britannico Winston Churchill, sulla “iron curtain” che i sovietici stavano costruendo in Europa. Il presidente Usa volle essere presente e vicino all’alleato di guerra, ma rifiutò nettamente la prospettiva di Churchill sulla “special relationship” tra potenze dell’”English-speaking world”, per dirigere e controllare quel dopoguerra. Pur considerandoli validi alleati nella guerra fredda che iniziava, gli americani sapevano della progressiva irrilevanza che i britannici avrebbero avuto nelle relazioni internazionali, soprattutto se avessero continuato a sottrarsi al destino dell’Europa unita che la diplomazia americana dell’epoca stava tessendo (Churchill stava lavorando al modello alternativo alle idee federaliste circolanti in quell’Europa): come si scrisse sui giornali dell’epoca, gli Stati Uniti irrisero il progetto britannico di usarli come pedoni sulla scacchiera del mondo. Si aggiunga che Josip Stalin si ritrovò un ottimo argomento propagandistico per respingere la verità della “iron curtain”, tacciando giustamente la logica dell’“English-speaking world” come imperialismo “razzista”.
Le questioni che si pongono oggi, nell’ascoltare frasi del genere, sono di altro tipo, e partono, nel solco della lezione di Kaplan, dalla geografia dell’attuale mondo. Le aree dove, causa anche macroscopici errori commessi dalla diplomazia statunitense dalla caduta del comunismo, la “geografia” sta, in questa fase, imponendo le sue pretese, sono soprattutto tre: Medio Oriente e Golfo, mar cinese e Pacifico, zona ex sovietica.
Nel primo teatro, il territorio va tendenzialmente verso la bicolorazione Sunnistan – Sciastan. Cadono o si affievoliscono i confini fissati dal colonialismo europeo nel novecento, le popolazioni sono violentate e costrette a esodi su base etnico-confessionale (Sunna contro Scia islamiche; ambedue contro i cristiani), le masse geografiche si sommano e frammentano come effetto di eventi bellici dove i soggetti decisivi non sono più gli stati, ma le varie bande armate sostenute da potenze esterne che, eccezion fatta per Russia e Stati Uniti, agiscono su base etnico-religiosa (v. Arabia Saudita, Turchia, Iran).
Quando gli Stati Uniti spostassero su Gerusalemme la loro rappresentanza diplomatica in Israele, e aderissero alla tesi di negare lo stato ai palestinesi, aggiungerebbero carburante alla situazione già esplosiva.
La decisione di vietare l’ingresso negli Stati Uniti ai cittadini di sette paesi di religione islamica (Siria, Iraq, Iran, Libia, Somalia, Sudan e Yemen), non è solo odiosa e discriminatoria, in quanto fondata su base etnica e religiosa, ma errata politicamente e contraria agli interessi statunitensi. Dimostra l’incapacità di Washington a controllare alla fonte i richiedenti visto (pessima notizia per i residenti e per i visitatori degli Stati Uniti in tempo di terrorismo rampante), è l’opposto dei principi da sempre conclamati dalla democrazia statunitense sulla pari dignità degli esseri umani, penalizza oppositori democratici richiedenti asilo, s’inimica governi e paesi utili alla sicurezza statunitense, si presta a rappresaglie diplomatiche da parte dei paesi toccati dal provvedimento, fa salire la temperatura politica e quindi i rischi di conflitto nella regione mediorientale e del Golfo. Considerazioni simili possono farsi per le altre restrizioni emanate sui visti.
Nel mar cinese, la Cina sta compiendo i primi esercizi da grande potenza, in attesa di entrare pienamente nel ruolo nel corso del prossimo decennio. La dura reazione alla sentenza della Corte Arbitrale de L’Aja, su ricorso delle Filippine, dell’11 luglio 2016 sulla violazione della Convenzione ONU in materia di diritto del mare nel mar Cinese meridionale, con l’affermazione della preminenza del proprio diritto (Nine-dash Line, fissata nel 1947 da Chiang Kai Shek su quasi 3,5 milioni di kmq.) rispetto a quello internazionale la dice lunga su dove il dispotismo illuminato di Pechino potrà spingere la politica estera cinese.
Il Pacifico è pervaso da molte tensioni, la gran parte derivante da assetti geografici non condivisi. L’uscita statunitense dal Partenariato regionale, TPP, il neoprotezionismo commerciale statunitense, l’apertura di Trump al nazionalismo di Taiwan, non sono elementi che concilieranno gli spiriti in una regione dove il rischio nord-coreano, la profonda avversione di molte popolazioni contro il Giappone, il rampante nazionalismo non sufficientemente attutito dal ruolo di Asean (Associazione dei paesi del sud est asiatico), il militarismo al potere in più di un paese, con altri fattori, possono facilmente risultare in conflitti armati interni o internazionali.
Può essere decisione intelligente quella di lasciare agli asiatici di regolare i propri conflitti, salvo dover osservare che la geografia, certo ancora lei!, fa degli Stati Uniti un paese del Pacifico, e che potrebbe essere pagato a caro prezzo, anche a breve, sia il disimpegno sia la rottura di un partenariato commerciale e di investimenti creatosi nel quasi mezzo secolo di sviluppo asiatico export driven. La Cina avrà nuovo e maggiore spazio: è nell’interesse americano?
La Russia, intanto, ha furbescamente migliorato i rapporti con Pechino, spalleggiandone ad ogni occasione le pretese territoriali, e contestualmente stringendo rapporti militari, tradottisi in manovre congiunte in acque sulle quali si affacciano paesi che, per quanto se ne sa, risultano alleati e “protetti” degli Stati Uniti.
Nella zona già sovietica, le ferite in Georgia e Ucraina restano aperte, altre potrebbero comparirne, in particolare nel Caucaso e Baltico. Quando il governo statunitense facesse ciò che ha promesso, ovvero ritirare le sanzioni alla Russia di Putin, rallegrerebbe molti europei (gli italiani ad esempio) che fremono dalla voglia di riprendere gli scambi commerciali e turistici con gli ottimi pagatori russi. Resta da capire cosa verrà raccontato dalla democrazia americana ai popoli che soffrono la pesantezza del tallone russo. Le soluzioni sono poche: si va dall’ “arrangiatevi! Avete fatto male a fidarvi di noi e dei nostri proclami democratici.” ad un “Siete il cortile russo e dovete rassegnarvi! Lo dice la geografia, bellezza!”.
Attenderemo che qualcuno spieghi a noi europei, quale sia la differenza tra il tanto vituperato appeasement che Neville Chamberlain, con altri europei, ritenne di praticare nei confronti del sorgente nazismo e il cambio di politica che gli Stati Uniti propongono si attui verso la Russia attuale. Nel citato discorso di Churchill, vi era qualcosa da salvare. Nel richiamare l’espansionismo sovietico, il leader conservatore disse dei russi che non c’era: “nothing which they admire so much as strength, and there is nothing for which they have less respect than for military weakness.” Parole sante.
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La geopolitica racconta, in questo inizio di “Mondo nuovo”, che Europa e Stati Uniti non hanno nemici né alle frontiere né altrove. Non si dica che un nemico c’è ed è il terrorismo. A parte che si tratta di un nemico universale, che attacca tutti e ovunque, il nemico semmai è chi lo manovra e foraggia di armi e denaro. Peccato che quel “vero” nemico del quale a volte si ha la sensazione di conoscere il nome, non soffra alcuna rappresaglia, per ragioni evidentemente inconfessabili.
Coerente con la consapevolezza di non avere nemici, l’Unione Europea non fa guerre, apre le frontiere interne e socchiude quelle esterne pur nel tormentato confronto politico attuale sui diritti all’immigrazione, attua politiche di aiuto e cooperazione associando paesi poveri e di transizione. Il fatto che l’ UE riceva il premio Nobel per la Pace è testimonianza di un atteggiamento che anni fa le meritò da parte di Robert Kagan il titolo di Venere della politica internazionale (Marte, neppure a dirlo, sarebbero gli USA). Sbagliano, in questa logica, USA e Gran Bretagna, anch’essi senza nemici, nell’assumere misure e atteggiamenti di chiusura aggressiva come Brexit, innalzamento di frontiere e muri, riconduzione nel bilaterale di un mondo che, in altre epoche, hanno voluto multilaterale.
Russia e Cina hanno invece nemici, e ne hanno parecchi, soprattutto la Russia, anche all’interno in alcune sue repubbliche federate. Le due sono potenze economicamente povere, militarmente forti, culturalmente anomale in quanto depositarie di un grande passato ma incapaci di produrre un grande presente, per ragioni strettamente legate al rispettivo regime politico. Quelle nazioni fanno e potranno fare ancora guerre, e sono sufficientemente amiche da destare preoccupazioni in chi ama la libertà dei popoli. Occorre prevenire i rischi, alla peggio disporre di strumenti pere contenerli e regolarli.
Per regolare le conflittualità che la geografia e gli interessi nazionali proporranno, è fondamentale che restino a disposizione strumenti come le Nazioni Unite, la Nato e ogni altro tavolo multilaterale esistente. Si tratta degli unici strumenti credibili di sistemazione dei conflitti, purché siano efficienti e ben funzionanti, né vengano depotenziati. E’ nell’interesse di europei e statunitensi, di quella che un tempo si chiamava comunità atlantica, rafforzare soggetti come Nazioni Unite, Osce, Nato, e così via.
Si guardi al lavoro che, pur tra mille difficoltà, sta compiendo, sull’esempio dell’Unione Europea, nel continente nero l’Unione Africana. Impensabile decenni fa, quella organizzazione internazionale sta diventando riferimento per la pacificazione regionale. Il che diventa utile persino nella lotta contro il terrorismo, visto la rilevanza che l’Africa ha in quella maledetta faccenda.