Se nei quarant’anni di guerra fredda, ogni scenario di guerra totale ipotizzava l’avvio delle ostilità a Berlino, nell’attuale sistema internazionale in molti affermano che zona strategica per eccellenza sia diventata l’Asia, in particolare il fascio di acque ed isole incastonato tra Asia di sud est (Vietnam, Filippine, Thailandia, Taiwan, in particolare) e i grandi attori locali (Cina e Giappone). A calmare o ad agitare quelle acque, a seconda delle loro convenienze, le potenze nucleari bifronti USA e Russia, per gli interessi strategici che le oppongono nel Pacifico. Talune notizie circolate nelle ultime settimane confermano la tensione sotterranea che potrebbe scatenare, più avanti nel tempo, un autentico tsunami dalle conseguenze incalcolabili.
In questo ambiente, l’annuncio, giovedì 28, delle esercitazioni aeronavali congiunte russo cinesi di settembre, nel mar Cinese Meridionale. Faranno seguito a quelle che Stati Uniti e Giappone hanno tenuto in zona non molto tempo fa. A quel punto, tutti i quattro maggiori attori del teatro marittimo pomo della discordia regionale, avranno mostrato muscoli che si spera non abbiano intenzione di utilizzare. Si noti il nome delle manovre: “Sinergia Marittima 2016”, con quel “sinergia” che la dice lunga sull’itinerario che gli alti comandi delle due potenze hanno in mente di esplorare. Lo precisano in un documento: “rafforzamento della partnership strategica, approfondimento pratico della cooperazione, consolidamento della capacità di rispondere alle minacce alla sicurezza in mare”. Lo scorso agosto le due marine avevano realizzato un’esercitazione congiunta nel golfo di Pietro il Grande, sotto Vladivostok, con ventidue unità di superficie, una ventina di mezzi aerei, un bel numero di effettivi da sbarco. A maggio si erano presentate insieme in mar Nero e Mediterraneo: in quell’occasione il partner russo aveva tirato la volata ai vascelli della Marina di liberazione popolare, mai prima esercitatasi a tanta distanza dalle acque territoriali della Repubblica Popolare.
Se si fanno manovre miliari è perché molti sono gli elementi antichi di crisi sullo sfondo, e uno, recente, in primo piano.
Sullo sfondo la mai sopita rivalità cino nipponica, la questione di Taiwan, la saldatura politica ed economica tra Russia e Cina, i dissapori russo americani, il rebus nord-coreano.
Con la permanenza al governo del partito Liberaldemocratico di Shinzo Abe e il contestuale annuncio della volontà di abdicare dell’imperatore Akihito, il Giappone si trova ad affrontare revisione costituzionale e successione al trono. E’ una fase istituzionale delicata, con il governo che vuole correggere l’impostazione pacifista imposta alla costituzione postbellica dagli occupanti statunitensi. Il fantasma del militarismo nipponico, l’incubo delle devastanti occupazioni giapponesi nella regione, Cina inclusa, non consentono a nessuno di prendere alla leggera l’annuncio. Al tempo stesso, a Washington e in molte capitali, il timore che il nuovo potere cinese possa trasferirsi da commercio e finanza agli assetti strategici regionali dovrebbe prevalere sui timori che inevitabilmente susciterebbe l’eventuale riarmo nipponico. Diversa, evidentemente, sarà la reazione a Pechino, pronta a scatenare, alla prima occasione, come ha fatto più volte in questo secolo, il nazionalismo della memoria di massa contro la presunta vocazione aggressiva di Tokyo.
Taiwan, isola indipendente separata dalla madrepatria che la rivendica, ha da gennaio una presidente espressa dal partito Democratico Progressista, intenta a far dimenticare a Pechino le aperture degli otto anni di partito Nazionalista. La pressione cinese, anche militare, sull’isola non è mai venuta meno ed è presumibile possa tornare ora con più forza. Finché Washington riterrà strategico il suo impegno con Taiwan (in questa fase sta rifornendo l’isola di armamenti anche navali, per quasi 2 miliardi di dollari, provocando l’ira di Pechino che considera Taiwan “parte inalienabile del territorio cinese”), è impensabile che la situazione possa mutare ma, come mostra il colpo di mano russo verso l’Ucraina sul teatro europeo, non può escludersi che, se dovessero darsi certe condizioni, la Cina alzerebbe il livello delle pretese su Taiwan.
Nessuno può più dubitare che, dopo la caduta del comunismo a Mosca e il crollo del ruolo russo nel mondo, Putin abbia individuato Pechino come alleato di favore per la realizzazione del suo sogno di restaurazione della grandezza perduta. C’è probabilmente, nel progetto, anche il desiderio di contenere gli effetti perniciosi della pressione demografica cinese sulla frontiera siberiana, trasformando la porosità di questa in opportunità commerciale ed economica più che in rischio demografico e militare. Difficile che, per le caratteristiche culturali nazionaliste sino all’esclusivismo, i due paesi possano stipulare un’alleanza “di destino comune” eurasiatico, ma un’alleanza in funzione di contenimento antistatunitense può far comodo ad ambedue i regimi. Si pensi a quanto abbia ripagato la Russia in termini di libertà di azione pro Assad in Siria, lo schieramento della marina cinese in Mediterraneo. Si pensi a come gli acquisti cinesi stiano rattoppando i buchi nella bilancia commerciale russa causati dall’embargo occidentale dopo i fatti di Ucraina (crescita degli acquisti cinesi di circa 1,5% e istituzione del cosiddetto petroyuan, in concorrenza con il dollaro nelle quotazioni di petrolio). E’ un dato, che in molte occasioni Pechino e Mosca si muovano di concerto all’interno del sistema internazionale.
D’altronde, la natura politica del regime al potere a Pechino, definibile come dispotismo illuminato, consente di chiudere uno o ambedue gli occhi di fronte ai comportamenti aggressivi (Ucraina, Crimea, Georgia) e autoritari (repressioni contro l’opposizione e l’informazione libera) del regime al potere a Mosca, cosa impossibile per i governi dei paesi democratici. Da qui i dissapori di Mosca con l’Occidente sui quali Pechino può agevolmente giocare per accrescere il suo spazio in Asia.
Una lettura non dissimile può essere proposta per il caso nord-coreano. E’ vero che Pechino tende a prendere sempre più le distanze dal ridicolo dittatore di Pyongyang, Kim Jong-un, ma è pur vero che, se le convenienze politiche e strategiche glielo consiglieranno, potrà tornare a sostenerlo con pienezza in qualunque momento.

Solo tenendo conto di tutti questi fattori, e dello straripante bisogno di affermazione dell’ego cinese nella presente fase storica, può comprendersi l’orchestrazione propagandistica e nazionalistica di Pechino prima e dopo il recente verdetto riguardante i diritti di sovranità nel mar Cinese Meridionale. Una reazione, manco a rilevarlo immediatamente condivisa dalla Russia, che ha identificato come vero autore della sentenza non i cinque giudici che l’hanno redatta, ma la cospirazione a guida statunitense mirante a ostacolare il risorgente ruolo regionale e mondiale cinese. E’ vero, tuttavia, che Washington ha dichiarato che la libera circolazione in quei mari è “interesse nazionale americano”.
Il verdetto dell’11 luglio, inappellabile, è stato emesso in base alla Convenzione ONU sul diritto del mare (UNCLOS), dalla corte Permanente Arbitrale dell’Aja, su ricorso delle Filippine del 2013, e afferma che non esiste nessun diritto storico cinese sulle isole del mar Cinese Meridionale. Manila lamentava la rivendicazione cinese della secca di Scarborough, conformazione rocciosa e sabbiosa di neppure due metri di altezza con alta marea, collocata a 250 km dalle coste filippine e a 900 dalle cinesi. I giudici dell’Aja hanno evidenziato, rispetto al caso di specie, l’illegalità di comportamenti che i cinesi applicano anche in altre situazioni: ostacolo all’esercizio di diritti di pesca ed esplorazione petrolifera, edificazione di isole artificiali, accesso di pescatori cinesi. Il tutto, secondo la corte, in palese violazione dei diritti sovrani sulla zona economica esclusiva filippina (200 miglia nautiche, ovvero 370 km.).
In risposta la Cina ha ribadito di aver diritto alla sovranità sul 90% delle acque del mare, basandosi sulla cosiddetta Nine-dash Line, fissata nel 1947 da Chiang Kai Shek su quasi 3,5 milioni di kmq., grazie all’intervenuta sconfitta giapponese nel Pacifico. Ha aggiunto di non aver intenzione di rispettare una sentenza che ritiene pilotata, benché sia consapevole che quell’enorme area di mare includa territori e isole la cui sovranità cinese è contestata da molti paesi del sud-est asiatico come Vietnam, Brunei, Malaysia, Taiwan, e appunto Filippine.
Peraltro, il caso della secca filippina non può essere automaticamente traslato su altre situazioni, anch’esse conflittive, come quelle negli arcipelaghi Spratly e Paracel, dove la Cina ha edificato strutture artificiali su barriere coralline o scogli a pelo d’acqua: porti, piste d’atterraggio lunghe fino a 3 km, infrastrutture militari. La Corte arbitrale ha delibato che Spratly, conteso tra Cina, Vietnam, Malaysia, Brunei, Filippine e Taiwan “non possa essere considerato nel suo insieme zona marittima unica”, come affermato da Pechino.
Al di là delle rivendicazioni politiche, sono evidentemente in ballo anche interessi economici, legati soprattutto alla fame di energia dello sviluppo asiatico. La cinese Cnooc, China National Offshore Oil Corporation, a giugno ha ricominciato a trivellare al largo delle coste vietnamite, con la piattaforma “Haiyang Shihou 981” pericolosamente in bilico tra acque cinesi e vietnamite. A febbraio, in zona probabilmente “più cinese”, Cnooc aveva dichiarato la scoperta di un giacimento di cento miliardi di metri cubi di gas. Si ricorderà la violenta ondata anticinese del 2015 in Vietnam, per la piattaforma petrolifera piazzata da Pechino al largo delle coste di Hanoi.
Non va dimenticato, inoltre, che in quel mare viaggiano annualmente cinquemila miliardi di dollari di merci: controllarne e/o garantirne la libera circolazione è fatto strategico per l’economia globale.