Questa mattina Matteo Renzi parlerà a Harvard. Penso che abbia voluto venirci, oltre che per promuovere se stesso, per promuovere in Italia la sua riforma dell’università. Il premier italiano lo disse chiaramente, alcuni mesi fa: bisogna imitare il modello americano. E ora è venuto per far vedere ai suoi connazionali ed elettori che lui quel modello lo conosce. Harvard è la più prestigiosa università del mondo e questo gli basta: non si domanda con quali criteri e scopi siano stilate le classifiche di eccellenza o quali siano le condizioni e implicazioni di una simile preminenza (per esempio che Harvard sia una corporation con un capitale di più di 36 miliardi di dollari che ammette lo 0,04% degli studenti che ogni anno vanno al college) o tanto meno quale sia il livello delle altre 4139 università americane: no, lui tornerà tutto contento in patria e proclamerà che l’università italiana, la più antica del mondo, deve diventare come quella americana, convinto che se lo diventasse non sarebbe una scopiazzatura fuori contesto e fuori tempo (l’America sta cominciando a guardare all’Europa per rimediare ai disastrosi scompensi del suo sistema educativo) ma una sua grande innovazione. Un po’ come se gli riuscisse di aprire uno Starbucks in Piazza della Signoria a Firenze; o ancor meglio in Piazza della Repubblica a Rignano sull’Arno.
Ma non è per questo che stamattina non andrò a sentirlo. E neppure per via del mio radicale dissenso con il suo progetto di reaganizzare l’Italia (e per di più in ritardo, quando gli altri paesi stanno cercando rimedi): non andrò a sentirlo perché è venuto a Harvard con lo stesso spirito con cui sarebbe andato a inaugurare un centro commerciale o ad aprire il nuovo anno alla Borsa di Milano. Tutte cose che un primo ministro deve fare: ma accorgendosi che sono differenti e rispettando le loro differenze. Per Renzi invece sono la stessa cosa: occasioni di visibilità, interamente prive di contenuti.
Significativamente, non parlerà alla Kennedy School of Government, dove avrebbe avuto senso per il ruolo istituzionale che ricopre. E neppure a economia, in riconoscimento delle sue riforme liberiste. Parlerà in un museo, all’Harvard Museum. Scelto, immagino, per confermare l’immagine che dell’Italia hanno gli americani: il paese della cultura e della bellezza. Forse chi lo ha invitato ricordava la sua foto insieme a Angela Merkel sotto il David, al meeting di un anno fa alla Galleria dell’Accademia: senza accorgersi (o peggio: senza curarsi) di quanto non autentica fosse quella cornice: ambienti carichi di storia abusati per promuovere politiche globaliste, volte a distruggere proprio quell’identità culturale.
Più che un rottamatore Renzi è in effetti un disneyficatore: che banalizza tutto ciò che tocca riducendolo a evento mediatico, dunque equivalente a qualsiasi altro che attiri l’attenzione dei giornali e dei network televisivi, senza gerarchie, distinzioni, senza valori di riferimento. La sua dimensione è quella della pubblicità e dei reality, in cui si fa finta di essere veri ma facendo in modo di non essere davvero creduti, in cui ci si maschera ma mantenendo una distanza ironica che impedisca equivoci, guardandosi bene dal correre il rischio che possa diventare un’esperienza autentica e dunque cambiare qualcosa. In ciò Renzi è integralmente liberista, impegnato nella sistematica deregulation dei princìpi e specificamente dell’autenticità: contro la quale impiega collaudate tecniche come la cazzata, che toglie di significato (scrisse il filosofo Harry Frankfurt in un celebre saggio) all’opposizione verità-menzogna e realtà-virtualità.
Non so di cosa parlerà a Harvard. Gli annunci del suo intervento non aiutano: “A keynote address”, “un discorso ufficiale”, senza ulteriori specificazioni, a confermare che non è venuto perché avesse qualcosa da dire. C’è venuto per far sapere che c’è stato. Presumo che abbia messo qualcosa insieme all’ultimo momento, cercando su Google qualche aneddoto su Harvard; come fece poco più di un mese fa in un’altra università, quella di Buenos Aires, dove al termine di un discorso confuso e infarcito di perle da Baci Perugina (“Non c’è parola più grande dell’amicizia per descrivere la storia di popoli diversi”: qualcuno mi spieghi cosa significa) citò in spagnolo dei versi di Borges. Solo che non era una poesia di Borges, subito notò El País, bensì un falso che compare su internet quando si inserisca la coppia di parole borges-amicizia.
Qualcuno ricorderà il concetto rinascimentale di sprezzatura, teorizzato nel Cortegiano, uno dei libri italiani che più influenzarono la civiltà europea. Castiglione pretendeva dalla classe dominante, in cambio dei suoi privilegi, capacità e stile senza ostentazione: bisognava sapere tutto e saper fare tutto però come se fosse una cosa naturale. Ma quella era una società fortemente regolamentata. Nell’età della deregulation i vincenti alla Renzi seguono un precetto opposto: ostentazione senza capacità né stile. Per questo stamattina non andrò a Harvard ad ascoltarlo. Perché a differenza di Berlusconi e di tanti altri politici, Renzi non si limita a ignorare la cultura o magari disprezzarla. La cultura può sopravvivere all’ignoranza e al disprezzo. No, Renzi la svuota. Con la sua programmatica trivialità svilisce la ragione e il linguaggio, riduce la comunicazione, ossia la facoltà più propriamente umana e sociale, a rumore. La chiarezza e il rigore costringono a una certa misura di coerenza; le improprietà deresponsabilizzano, rendono tutto indifferente, il vero e il falso, il giusto e l’ingiusto, le qualità e i difetti, i profittatori e le loro vittime. E quando il vuoto diventa uno stile e un programma, la fine della democrazia è pericolosamente prossima.
P.S. È giusto precisare che ad accorgersi della gaffe di Renzi non furono gli argentini e neppure El País bensì Miru e Sten sul canale YouTube “Mia sorella”. Solo dopo la loro segnalazione i giornali di tutto il mondo diedero risalto alla superficialità del premier italiano.
Qui per ascoltare l’intervento a Harvard del presidente del Consiglio Matteo Renzi e leggere del suo viaggio negli Stati Uniti (n.r.)