Lo scorso 17 gennaio, le due sponde del Tevere sono diventate più vicine. Per fare un discorso comune molto preciso e molto attuale, e soprattutto diretto ben oltre i confini di Roma. Anche vista dall’alto, con la visuale oscurata dalla balaustra in ferro battuto del gineceo e dalla corporatura massiccia di un nugolo di fotografi, quella figura bianca che è entrata nel Tempio Maggiore di Roma non poteva non colpire e non emozionare. Senza affettazione, tranquillo e sorridente, Papa Francesco, erede di quel trono di San Pietro che tanto spesso ha fatto soffrire gli ebrei romani, ha avuto una parola, una stretta di mano, un abbraccio per tutti, per i rabbini venuti dalle altre città italiane, da Israele, dall’Europa e dall’America, per i rappresentanti del governo israeliano, per i sopravvissuti della Shoah seduti in prima fila, per la gente comune che aveva atteso per ore al freddo per passare gli stringenti controlli di sicurezza.
In un Tempio vestito a festa, sono stati però soprattutto i discorsi, i commenti e gli applausi continui degli intervenuti a far capire il significato più profondo della visita del Pontefice. “Il Tempio accoglie con gratitudine questa terza visita di un papa e vescovo di Roma. Secondo la tradizione giuridica rabbinica, un atto ripetuto tre volte diventa chazaqa, consuetudine fissa”, ha osservato il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, ricordando la storica visita di Giovanni Paolo II nel 1986 e quella di Benedetto XVI nel 2010.
Sull’amicizia sincera di Papa Francesco, nessuno dei presenti seduti sulle sedie di legno intarsiato della grande sinagoga poteva avere dei dubbi. Il Papa l’ha dimostrata più volte, già in Argentina, dove aveva spesso visitato le sinagoghe di Buenos Aires, e poi in Vaticano dove ha mandato avanti con energia un dialogo interreligioso che ancora oggi non è sempre facile. Lo stesso Pontefice, durante la sua visita al Tempio maggiore, ha ricordato che non tutte le questioni teologiche sono state risolte e che solo a dicembre del 2015 la commissione per rapporti religiosi ha pubblicato un nuovo documento a lungo atteso dai rappresentanti dell’ebraismo.
Adesso, è stata la sensazione di chi ha partecipato, il progressivo superamento di due millenni di incomprensioni iniziato dopo il Concilio Vaticano II e la pubblicazione nel 1965 della dichiarazione Nostra Aetate voluta da Paolo VI ha dato a tutti una nuova missione. “Non dobbiamo perdere di vista le grandi sfide ,che il mondo di oggi si trova ad affrontare. Quella di un’ecologia intergrale è ormai prioritaria”, ha detto Papa Francesco. “Conflitti, guerre, e violenze e ingiustizie aprono ferite profonde nell’umanità e ci chiamano a rafforzare l’impegno comune per la pace e la giustizia. La violenza dell’uomo sull’uomo è in contraddizione con ogni religione degna di questo nome, e in particolare con le tre grandi religioni monoteistiche”, ha poi aggiunto. Un invito, insomma, a lavorare insieme per non dare mai l’ultima parola alla violenza e alla morte che insanguinano tante regioni del mondo.
Da parte sua, anche il rabbino Di Segni, erede di tre generazioni di rabbini e medico anestesiologo, ha sottolineato la missione comune di fronte ai drammi del mondo di oggi. “Un incontro di pace tra comunità religiose differenti – ha detto – è un segnale molto forte e che si oppone all’invasione e alla sopraffazione delle violenze religiose. Dobbiamo far sentire insieme la nostra voce contro ogni attentato di matrice religiosa, in difesa delle vittime”.
Ancor più esplicita è stata la prima degli oratori, Ruth Dureghello, da pochi mesi presidente della comunità ebraica di Roma e visibilmente emozionata sotto il suo cappellino nero di circostanza. “Con questa visita Ebrei e Cattolici lanciano oggi un messaggio nuovo rispetto alle tragedie che hanno riempito le cronache negli ultimi mesi – ha detto Ruth – la Fede non genera odio, la Fede non sparge sangue, la Fede richiama al dialogo. Una convivenza ispirata all’accoglienza, alla pace e alla libertà in cui si impari a rispettare, ciascuno con la propria identità, l’altro. Come oggi qui a Roma, così in ogni luogo”.
Quando nel Tempio Maggiore si sono spente le note di Ani Maanim, l’inno alla vita cantato dai deportati a Auschwitz, gli esponenti dell’ebraismo mondiale come gli eredi di quegli stracciaroli rinchiusi per tanti secoli tra le mura del ghetto sono usciti con un sorriso. Duemila anni di incomprensioni e di persecuzioni sono ormai alle spalle ed è venuto il momento di impegnarsi insieme, nel rispetto delle differenze, per combattere i drammi di oggi, anche se qualcuno, con una punta di delusione, non ha mancato di osservare che il Papa, nel suo discorso, non ha citato espressamente Israele, ma soltanto la Terra Santa.