Quando dico che il mio bambino nascerà con un parto in casa tutti sgranano gli occhi increduli, accompagnando la loro espressione con un 'che coraggio' che talvolta diventa un 'sei matta'". Ilenia Dal Pra ha 40 anni, vive in provincia di Vicenza, è già mamma di un bambino di 3 anni e a vedere l’immenso pancione che porta con felicità e disinvoltura, tra pochi giorni ne partorirà un altro.
Ilenia fa parte di quella minuscola percentuale di mamme, al di sotto dell’uno per cento in Italia (dato che di poco si scosta anche negli Stati Uniti), che preferisce accogliere un’ostetrica nel tepore della propria casa per far nascere il piccolo piuttosto che partorire in ospedale. Ma la piccola percentuale è una realtà rumorosa e interessante, entusiasta e alternativa. Le mamme mostrano bimbi che scoppiano di salute mentre raccontano la loro esperienza vissuta lontano dai riflettori medici, sottolineano i benefici di una vita che nasce in piena tranquillità. Ma anche in piena sicurezza? Medici e ginecologi, italiani e newyorchesi alzano la mano segnando l’altolà e illustrano le criticità di una realtà nata negli States.
Quello del parto in casa è un fenomeno da analizzare sociologicamente, come termometro dei tempi che per cambiare guardano al passato, come cartina tornasole del rapporto con la sanità italiana e americana. Questo è un viaggio inaspettato che nasce come una semplice intervista ma che invece dura tre mesi, incontra voci, vede bambini nascere e che parte dalla storia di Ilenia.
Mi sono sentita dire che sono un’incosciente – racconta Ilenia assieme al suo compagno di Arezzo, Michele Paggetti – Ma la verità è che io in ospedale non mi sento sicura: è un posto medicalizzato dove non si è che un numero. Quando la mamma arriva ed è in travaglio non sa chi troverà ad assisterla. Almeno a casa ho potuto scegliere l’ostetrica che ho voluto e credo sia questo il travaglio migliore, con attorno le persone che sei tu a scegliere”. L’esperienza del precedente parto, 3 anni fa, ha influito sulla decisione: “Sono arrivata in ospedale in travaglio e ricordo che c’erano quattro ostetriche e un ginecologo in preda al panico. Il parto deve essere invece una cosa naturale, senza ansie. Spero sia il più naturale possibile e ciò che mi auguro è di viverlo con consapevolezza sia del mio corpo che del momento della nascita. Non mi sento assolutamente impaurita: sono pronta”.
Noi che l’abbiamo fatto
Partorire in casa è stata la scelta più saggia che io abbia mai preso”. A dichiararlo è Nicoletta Poli, 36 anni di Marostica. Era il 12 giugno quando, poco dopo la mezzanotte, nacque il piccolo Alvise. “È nato in casa durante un temporale carico di tuoni e fulmini. Quella sera sembrava che il tempo si fosse fermato: le luci erano soffuse e il rumore della strada era coperto dalla forte pioggia. Io, il mio compagno e le mie due ostetriche abbiamo atteso in un'atmosfera quasi ovattata l'arrivo del mio bimbo. Immersa nella vasca portatile per il parto ho sentito che con quell'ultima spinta sarei diventata finalmente mamma”. Sette mesi prima Nicoletta per caso fa una chiacchierata con un’amica che ha partorito tutti e 5 i suoi figli in casa: “Subito la sua idea mi era sembrata piuttosto folle, ma dopo alcuni giorni la mia testa si ritrovava a immaginare proprio quella stessa situazione. Ho iniziato così a fare qualche ricerca in rete, scovare libri che parlassero dell'argomento e ho capito che nel parto in casa nulla è lasciato al caso”. La domanda più frequente che si è sentita porgere è stata: “E se qualcosa va storto ed è troppo tardi per correre in ospedale? Io rispondevo sempre che questo non succede perché una brava ostetrica ha la capacità di leggere i segnali negativi prima che sia troppo tardi per intervenire”. “Vorrei che più mamme avessero fiducia in loro stesse anziché nei medici – prosegue Nicoletta – Alle future mamme dico: non è difficile partorire in casa, anche se tutti remeranno contro questa scelta dandovi delle fricchettone e cercheranno di farvi cambiare idea, ma bisogna essere convinti di quello che si sta per fare e avere una fiducia totale nell'ostetrica che avrete con voi in un momento così intimo e unico. La mia ostetrica è diventata per me un punto di riferimento e un'amica davvero speciale. Il ricordo di lei che mi incoraggia durante le ultime spinte del parto e che mi aiuta ad afferrare il mio Alvise in piscina per poterlo finalmente stringere al petto dopo 9 mesi di attesa è un quadro bellissimo che terrò con me per sempre”.
Nel parto in casa l’aspetto più pericoloso di tutti è la paura “visto che la mente vince sul corpo”. Ne è convinta Silvia Manfiotto, ventiseienne di Romano d’Ezzelino che, nonostante la sua giovane età, ha partorito la sua Matilde in casa. “Devi essere in contatto con te stessa per fare una scelta del genere – spiega – e soprattutto non devi avere paura. Io non sarei mai andata in ospedale perché per me è la cattedrale della paura. C’è troppo la mentalità del delegare, del non soffrire, del non dolore. Per come la vedo io, in ospedale ci vanno gli ammalati, ma una donna che partorisce non lo è”.
Silvia racconta, con gli occhi che brillano, la sua esperienza nel dettaglio: “Erano le due di notte quando mi si sono rotte le acque, allora ho chiamato le mie due ostetriche. Sono rimasta al buio e in penombra fino a quando alle 7 di mattina sono iniziate le contrazioni. Il travaglio l’ho trascorso tra il salotto e la doccia: alternavo acqua calda con acqua fredda e mi sembrava di non sentire il dolore. Le ostetriche invece sono rimaste in camera mia, lasciandomi tutta la mia privacy. Venivano ogni tanto a monitorarmi il battito. Ho partorito in divano ed è stata una bellissima esperienza: quando non costringi il tuo corpo, senti proprio che si apre naturalmente. E quando è nata Matilde non ha nemmeno pianto”.
Noi che l’abbiamo fatto in America
Quella del preferire il parto tra le mura domestiche piuttosto che in ospedale è una tendenza che nasce negli Stati Uniti e che continua a crescere. È il collega Marcello Cristo, che vive negli States da 23 anni assieme alla moglie Shelley Senter, a spiegarci il perché. Entrambi i loro figli sono nati in casa, una a New York, l’altro in California, 18 e 15 anni fa.
“Originariamente avevamo in programma di partorire in un ospedale di Manhattan dove lavorava la nostra ostetrica. Questo ospedale offriva delle visite preliminari ai genitori. Ma dopo la nostra visita mia moglie é venuta fuori decisa che non avrebbe messo piede in ospedale. Questo perché gli ospedali americani impongono un controllo oppressivo esercitato su un processo naturale come quello del parto che é invece spesso trattato come una malattia”.
Un brutto rapporto con la sanità americana che però c’entra poco con costi e copertura sanitaria. “Non credo che la copertura sanitaria abbia influito sulla nostra decisione. Piuttosto, ha giocato un ruolo importante l'ossessione che gli ospedali qui hanno con il proteggersi da eventuali azioni legali nel caso qualcosa vada storto. Poiché in America si corre dall'avvocato a fare causa per qualsiasi torto, che sia esso reale o percepito, gli ospedali usano la mano pesante nel monitoraggio e nelle misure mediche precauzionali durante i parti. Ciò significa che ai genitori durante il parto viene completamente negato ogni controllo di qualunque tipo e tutte le decisioni sono prese dai medici. Utilizzo di monitor elettronici, somministrazioni di medicinali ad uso precauzionale e decisioni su quando utilizzare parti cesarei sono prese senza alcun input da parte dei genitori che svolgono un ruolo totalmente passivo”.
Meglio ricorrere quindi al parto in casa che rimette al centro il ruolo decisionale del genitore. “L'iter per partorire a casa qui negli Stati Uniti 18 e 15 anni fa é stato estremamente facile: l'unica cosa che abbiamo dovuto fare é stata cercarci una levatrice che ci piacesse. La prima, che ci ha assistito a New York si chiama Miriam Schwartzchild ed é stata fantastica. All'epoca lei era una delle poche attive a New York e con lei, mia moglie ed io, abbiamo avuto l'impressione che lo facesse non solo per lavoro ma veramente per passione ed impegno sociale”. Poche le differenze tra il parto in casa a New York e a Los Angeles: stessa la procedura, diversa l’ostetrica con un conseguente diverso rapporto personale e di organizzazione del parto: “A New York Miriam ci aveva detto di chiamarla quando avessimo voluto e quindi é stata con noi per quasi tutta la durata del travaglio. In California invece ci sono state date indicazioni su quando chiamare la levatrice (solo quando le contrazioni avessero raggiunto un certo intervallo). Il risultato é stato che, a causa dei miei conteggi imperfetti e del solito traffico della California, l’ostetrica é arrivata pochi minuti prima che mio figlio venisse alla luce”. Un dettaglio che però non intacca i ricordi di Marcello. “Sono state due esperienze positive ed indimenticabili. I momenti più belli sono stati vedere nascere i miei figli e aver avuto un ruolo attivo e presente durante l'intero processo. Il suono dell’inizio del pianto di mia figlia Isabel quando venne alla luce é una cosa che non dimenticherò mai”.
Noi che ci opponiamo, studi alla mano
Il frizzantino lascia subito l’aria quando ci si confronta con i guru della medicina neonatale. Frank A. Chervenak è il direttore del Dipartimento di Ginecologia e Ostetricia della Cornell University di New York, insegna al New York Weill Cornell Medical Center ed ha all’attivo un’esperienza sul campo di una quarantina d’anni. Dopo averlo sentito più volte nominare come punto di riferimento, con tutta la sua ricca bibliografia in materia, da diversi medici e primari italiani, lo contattiamo direttamente. In esclusiva per La VOCE di New York il dottor Chevernak ci spiega i rischi e le perplessità che nutre verso la pratica del parto in casa e lo fa da un punto di partenza che lo accomuna al nostro Marcello Cristo: “È vero, negli ospedali americani quando una donna incinta diventa una paziente è costretta ad abbandonare la sua autonomia e la sua capacità decisionale – ci spiega – Delega tutto al medico. Questo si traduce in una forte perdita di controllo sulla sua gravidanza, un fattore che viene sempre segnalato come uno dei motivi principali che spingono le donne a preferire il parto in casa.” Ma ci tiene a sottolineare come questo aspetto, da combattere all’interno del sistema sanitario statunitense, non sia minimamente sufficiente a giustificare una scelta pericolosa. “Nonostante tutto, gli ospedali ed i centri per il parto sono il luogo più sicuro per nascere. Quando una coppia di genitori fa presente al pediatra la propria volontà di partorire in casa, spetterebbe al medico metterli in guardia. Dai nostri studi uno dei fattori costantemente segnalati come ragione per la scelta del parto in casa è proprio l’assenza di autonomia della mamma all’ospedale, che delega tutta la sua capacità decisionale al medico. Ma la casa non è la cornice ideale per il parto, nemmeno quando è pianificato. Va detto che non tutti i parti in ospedale sono sicuri e non tutte le nascite in casa presentano dei pericoli. Chi sceglie di partorire in casa, tuttavia, fa un atto di fiducia e si affida totalmente agli operatori sanitari. L’ostetrica a questo punto ha due pazienti e non più uno: la mamma ed il feto. Il National Center for Health Statistics (NCHS) studia i 16 milioni e 693.000 nascite negli Stati Uniti dal 2007 al 2010, si tratta dei dati più recenti disponibili. La maggior parte sono avvenute in ospedale, nell’8,05 per cento dei casi anche in ospedale è stata un’ostetrica a far nascere il bambino, i parti in casa sono stati lo 0,49 per cento. Ciò che emerge da questo studio è l’aumento di donne nullipare, ovvero che non hanno mai partorito. Il dato dei neonati con rischio di convulsioni e altri disturbi neurologici se partoriti in casa raddoppia nel caso di donne nullipare. Come docente e medico sottolineo che nessuna ostetrica dovrebbe partecipare ai parti in casa, si tratta di nascite mai sicure, incompatibili con l’integrità professionale, e agevolare una pratica non clinica senza sicurezza alcuna non è consentito dalla professionalità medica”.
Le dure parole del dottor Chervenak proseguono illustrando la squadra di specialisti multidisciplinari che una mamma si trova di fronte quando varca la soglia ospedaliera: “Oltre alle ostetriche ci sono infermieri, anestesisti, pediatri, un team che non può essere riprodotto nel parto in casa. Nonostante i rischi, negli Stati Uniti i parti in casa sono aumentati nell’ultimo decennio. In Olanda invece, il paese da sempre con i numeri più alti, sono diminuiti. Il mio è un allarme doppio, rivolto sia agli operatori del settore che alle mamme: l’aumento del rischio delle disfunzioni neurologiche deve essere riconosciuto da tutti e ogni ostetrica dovrebbe comunicarlo alle donne incinte che manifestano l’interesse a far nascere il proprio figlio fuori da un ambiente ospedaliero”.
Alessandra Graziottin, direttrice del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica dell’Ospedale San Raffaele Resnati di Milano, il Chervenak-pensiero lo conosce a memoria e lo cita quando la intervistiamo. “Chervenak mette in guardia anche contro un fatto sottovalutato che può falsare, in positivo, le statistiche relative al parto in casa: quando c’è un’emergenza per una grave sofferenza fetale, un’emorragia materna o un altro problema acuto, mamma e piccino sono ricoverati con la massima urgenza: quel parto patologico e quelle conseguenze sono conteggiate nella casistica dell’ospedale, non del parto in casa. Col risultato che le valutazioni sulla salute dei nati in casa sono falsamente rassicuranti, perché tutti i casi critici vengono ricoverati. Se invece i dati vengono analizzati tenendo conto di questa notevole differenza di esiti materni e fetali, i rischi del parto in casa appaiono di portata significativa”.
Graziottin rincara la dose illustrando i rischi per il neonato: “Partorire in casa è un desiderio dai rischi troppo spesso sottovalutati. I dati statunitensi sono preoccupanti: rispetto alle nascite in ospedale, quando il bambino nasce a casa aumentano di dieci volte le sofferenze fetali gravissime da asfissia, con Apgar zero (il punteggio da zero a dieci che si dà al piccolo per obiettivarne lo stato di salute alla nascita), il che significa elevata probabilità di un bambino con lesioni cerebrali. Lo dimostra il fatto che i danni neurologici permanenti documentati aumentano di quasi quattro volte rispetto ai bambini nati in ospedale”.
Ma allora come mai partorire in casa, nonostante i rischi, attrae così tanto le mamme? “Le ragioni sono molteplici: c’è un trend generale, in molti aspetti della vita, che invita a tornare a contesti più umani ed affettuosi. In ospedale la persona diventa un corpo e un numero, si rischia l’indifferenza verso la componente umana, l’azzeramento dell’individualità della donna e del bambino. Ma partiamo da un concetto base: non esiste gravidanza senza rischio e ci sono emergenze non prevedibili. Partorire in casa implica che se si ha un’urgenza e non si riesce a curarla entro mezz’ora, per il bambino parliamo di un danno cerebrale irreversibile”. L'unica scelta di buon senso, secondo la dottoressa, resta l'ospedale, ma un ospedale migliore: “bisogna migliorare gli ospedali. Abbiamo la tendenza a voler tornare al Medioevo. Invece dobbiamo mantenere i traguardi e migliorare le strutture. Tra Nord e Sud Italia c’è una grandissima differenza: al Sud ci sono tassi altissimi di parti cesarei. Serve umanizzare gli ospedali”. E anche sulla pagina dei costi Graziottin non ha dubbi: “Un parto in casa costa infinitamente meno alla sanità pubblica. Ma un bambino cerebroleso ha un costo elevato per tutta la vita e questo sia per la sanità che per la famiglia.”
Nella sua esperienza di direttrice la dottoressa Graziottin mette al centro la donna e ciò che è meglio caso per caso: “Non sono i luoghi a dare qualità all’ambiente ma le persone. Seguo il parto di molte donne in strutture pubbliche. Si può dare una buona assistenza evitando la fabbrica delle nascite. Il parto ha una sua musica, io lascio che il travaglio vada avanti naturalmente. Non rompo le membrane. Seguo un principio di biomeccanica: se c’è un corpo in un palloncino, qualsiasi pressione si distribuisce sul corpo del piccino. L’acqua che ho tutto intorno mi fa da airbag. Mi trovo davanti ad una struttura morbida, di grande elasticità. È un massaggio fatto alla mamma che distende il pavimento pelvico. Non uso ossitocina, non rompo il sacco, il parto così è meraviglioso. Ma serve assecondare il tempo naturale, chi ha detto che bisogna fare presto? In questo c’è ancora molta strada da fare”.
Noi che ci crediamo, dati alla mano
Sarebbe sbagliato parlare di mondo accademico compatto e coeso contro il parto in casa. Lo scenario è un puzzle che si completa e frammenta in base alle voci interpellate. Il fatto che il parto in casa venga considerato più sicuro che quello in ospedale da parte di un professore britannico ha guadagnato persino la prima pagina di un’edizione del quotidiano inglese Daily Mirror. Lui si chiama Mark Baker e ne è convinto: “Partorire in casa, per le gravidanze a basso rischio, di solito è più sicuro”. Un annuncio considerato scioccante perché inverte la tendenza, lancia il contro allarme. Il National Institute for Health and Clinical Excellence, di cui Baker è direttore, dichiara che mamme e neonati sono esposti al rischio di interventi chirurgici invasivi più in ospedale che a casa, con possibilità di conseguenti emorragie. “Farsi accompagnare durante il parto da un’ostetrica in casa propria o in una struttura non medica mette a proprio agio la madre, rendendo l’ambiente più sicuro e riducendo il rischio di interventi invasivi”. Nove bambini su dieci dei 700.000 nuovi nati ogni anno in Inghilterra e Galles vengono partoriti in ospedale. Ma con queste nuove linee guida il National Insititute prevede che potrebbero essere 315.000 le donne portate a preferire il parto in casa. In UK nascere in casa costa in media 1.066 sterline, in un centro seguito da ostetriche 1.450, in ospedale 1.631 sterline.
Noi che li facciamo nascere in Casa Maternità
Marta Campiotti è la presidente nazionale dell'associazione Ostetriche parto a domicilio e casa maternità. Nel 1992 a Varese ha inaugurato lo studio Le ostetriche iniziando in parallelo la sua attività di formazione e docenza ad operatori della nascita in tutta Italia. Nel 2001 apre la Casa Maternità Montallegro, struttura pilota in Italia per l’assistenza al parto naturale extraospedaliero. Né casa né ospedale quindi, ma una realtà a metà che ha molto successo tra le mamme. “Quello del parto a domicilio è un fenomeno sottostimato – inizia – Secondo l’ISTAT si tratta del due per mille delle donne ma è un dato statistico che non tiene conto, ad esempio, di due regioni come Lazio e Toscana dove, nel registro delle nascite, la voce “parto in casa” semplicemente non c’è. Noi come associazione siamo convinte sia almeno il 4 per mille”. Al mondo accademico italiano che mette in guardia dai rischi che un parto in casa può comportare Marta Campiotti risponde con filosofia: “C’è la probabilità che si manifesti un evento nefasto come in qualsiasi altro evento della vita. L’imprevisto può esserci sempre, ma non solo nel parto. Un parto naturale inizia da solo, finisce da solo secondo i tempi del bambino e nessuno interferisce. Si tratta di un processo molto delicato, se c’è qualcosa che non va, dopo 30 anni di esperienza, lo vedo subito”.
A quelle mamme che vogliono viversi tutta la naturalezza di quest'esperienza, la Casa Maternità offre un'alternativa alla freddezza dell'ospedale. “Ci sono molte mamme che non se la sentono di andare in ospedale ma non si sentono sicure in casa – spiega Campiotti – Come struttura si tratta di una vera e propria casa senza medici ma con le ostetriche come nel parto a casa propria. Si tratta di un punto di riferimento sociale per le donne, anche dopo la nascita la Casa resta un luogo d’incontro fino a che il bimbo non compie un anno. Si tratta anche di una proposta contro la solitudine e l’incapacità di chiedere aiuto”.
Sulla scelta della Casa Maternità incide anche una certa diffidenza nei confronti della sanità pubblica? “Il problema è che la sanità pubblica non riesce a comprendere che il parto non è un’emergenza. È piuttosto un evento emotivo psicosomatico, così delicato che noi operatori non possiamo migliorarlo ma solo disturbarlo. Ci sono dei danni gravi dopo il parto in ospedale: i bambini vengono ancora portati al nido appena nati con implicazioni di non salute. In Casa Maternità il bambino nasce da solo: alla mamma non diciamo né di tirare né di spingere e in genere non si lacera. Per due ore dopo il parto il bambino rimane sulla pancia della mamma, è un momento magico che dà ad entrambi un senso di tranquillità e non di disturbo. Partorire in ospedale è come fare l’amore con la porta aperta e la gente che passa fuori nei corridoi con le siringhe in mano”.
Noi che siamo doule. “Perché sai cos’è una doula, no?”
Sai cos’è una doula, no?”, a chiederlo è Chiara Pozzi Perteghella, una formatrice di doule, fondatrice dell’associazione Le 13 Doule, che sta ottenendo anche la certificazione americana del Birth Doula training. La doula si occupa del sostegno emotivo e del benessere non solo della mamma ma anche della famiglia, dalla gravidanza fino al primo anno del bambino. “Non è una figura sanitaria – spiega – ma è una donna che, forte della sua esperienza professionale e formazione, offre un sostegno su misura, intimo e confidenziale, nel pieno rispetto delle scelte della coppia”. Tocca alla doula fare da madre alla madre, durante il parto in casa.
E se per Marta Campiotti partorire è come fare l’amore, per Chiara Pozzi Perteghella è come fare la pipì: “La faresti mai di fronte a degli estranei? Partorire in ospedale è mettersi a nudo davanti a sconosciuti”. L’obiettivo è quello di arrivare ad un riconoscimento ministeriale perché la professione della doula venga certificata. “Ma si tratta di una figura abbastanza recente in Italia. La parola deriva dal greco, la doula è l’ancella di casa.” E se in Italia sono in attesa di essere riconosciute dallo Stato, in America sono invece ben strutturate: “Nel sito dona.org (dove DoNA sta per Doula of North America) si può vedere l’associazione che ha 30 anni di vita. Venne fondata da un neonatologo che verificò come anche solo la presenza di una donna non sanitaria durante il parto, lo migliori”.
Ma che cosa significa essere una doula? “Per me vuol dire sostenere la madre qualunque siano le sue convinzioni e le sue scelte. La doula dà informazioni alla mamma, consigli che sono però frutto della sua esperienza. La parte più difficile per me è esserci facendo il meno possibile. Assieme all’ostetrica siamo la squadra che fa il tifo per la mamma, ci facciamo sentire al suo fianco. Siamo efficaci non solo nel parto ma anche nel periodo del post-parto, perché la mamma capisca come camminare da sola”.
Chi prende parte al progetto Gattacicogna invece cammina insieme. Parola di Marta Tosetto, la fondatrice di Piazzola sul Brenta in provincia di Padova, anche lei doula. “Questo progetto è nato dalla mia maternità – racconta – Quando due anni fa è nato mio figlio, ho incontrato una brava ostetrica che teneva una volta a settimana un incontro per mamme dove dava consigli. Mi era molto piaciuta la dimensione del confronto e così ho pensato di riproporla. Mi sono rivolta ad uno sportello per giovani imprenditrici, ho raccolto dei fondi regionali, ho contattato Alice Campagnaro, un’altra professionista nel campo infantile. E siamo partite. Ora gli incontri sono patrocinati dai Comuni, sono attivi in tre città ed è una cultura che si sta ampliando”. Dagli incontri emergono i bisogni e i traumi delle mamme: “E’ un momento di condivisione guidata, si ripercorre anche il ricordo del parto. Anche se nessuna donna parla male del parto, molte dicono di essersi sentite svalorizzate, si lamentano perché c’era troppa gente intorno, mancava la comunicazione. Mi raccontano la loro sofferenza, che non è il dolore fisico, è il non sentirsi comprese, accettate. Ed è un aspetto che va ad accentuare e aumentare il dolore fisico visto che il perineo è un muscolo emotivo: lo puoi allenare quanto vuoi ma registra tutte le sensazioni”.
Gli incontri per mamme ma anche future mamme, bambini e papà sono di due tipi: Mamme in cerchio, il cantiere delle mamme e Creando l’attesa, percorso di consapevolezza. E un consiglio che Marta dà alle donne in attesa è quello di scrivere il proprio birth plan: “ È il piano del parto, si può decidere chi si vuole avere in sala parto e dettagli anche sulla modalità dell’evento. Ci sono ospedali che ti deridono, che non prendono minimamente in considerazione le richieste della donna. Noi gestiamo anche le aspettative, sappiamo bene che le volontà della madre non sono la Bibbia. Per questo, se si decide di partorire in ospedale, bisogna cercare una struttura che assomigli il più possibile alle proprie necessità. Partorire in casa invece attenua la sofferenza anche se il dolore fisico resta”.
La mia vita per le vite
Quasi 91 anni, un primato mondiale di 7.616 bambini fatti nascere in casa, un vecchio stetoscopio di legno del 1945 con il quale riesce non solo a sentire il battito quando il bimbo è ancora nella pancia della mamma, ma anche a distinguere, con il solo battito, se si tratta di un maschietto o di una femminuccia. Maria Pollacci non ha figli ma è come se ne avesse più di 7.000. Abita nel comune di Pedavena, in provincia di Belluno e ha dedicato tutta la sua vita per la vita. E si intitola così, Una vita per la vita, il docufilm girato dai registi Pai Dusi e Annalisa Salomon, 38 minuti di aneddoti e magia, perché come dice l’ostetrica più famosa e venerata d’Italia “A casa si aspetta, non c’è fretta. La natura ha fatto delle cose così belle, perché dobbiamo rovinarle?”.
Incontro Maria in un ristorantino veneto. Ad organizzare il pranzo tante mamme che ho conosciuto durante questo percorso. Mentre Maria sorride sempre e sorseggia Lambrusco le mamme si confrontano tra loro. Dall’alto dei suoi 91 anni che sembrano 60, la modernità traspare. Scherza: “Ma donne, se i vostri mariti vi tradiscono, di cosa vi preoccupate? Vorrà dire che torneranno a casa più felici”. La sua allegria è contagiosa tanto che viene voglia di conoscere i suoi segreti. “Facendo questo lavoro si entra nelle famiglie e nella loro vita più intima. Penso di aver salvato diversi matrimoni, davo consigli alla coppia, dicevo alla moglie di non importunare il marito se era arrabbiato, ma di dialogare, di riprendere la ragione della lite una volta che i toni si fossero calmati. Per me diventavano la mia famiglia. Erano i mariti spesso a telefonarmi se qualcosa non andava in famiglia, dormivo anche in casa loro. Se avessi avuto un marito non avrei potuto dedicarmi così tanto alle donne”.
Gli aneddoti si accalcano: parti gemellari in casa, sconsigliatissimi dai medici, donne che hanno partorito in casa dopo i 40 anni, storie di mamme malate e poi guarite, di chilometri macinati in macchina di giorno e di notte per raggiungere donne in preda alle doglie. “Mi sento come una seconda madre di tutti i bambini che ho fatto nascere. Quando insegno all’Università di Verona, racconto la mia esperienza a giovani ostetriche. Non mi faccio problemi nello spiegare che se in un ospedale manca l’elettricità i dottori non sanno neanche più sentire il battito. Quando una donna la porti in ospedale capita anche che le si blocchino le doglie. Vengono tormentate troppo, tra esami e visite, arrivano al parto che sono stressate e invece serve tanta tranquillità”. Ma tutto l’aspetto del rischio dei parti in casa? “Io non rischio niente: se vedo qualcosa che non va porto le mamme all’ospedale. Mi basta poco per capire e in caso le faccio ricoverare. Quando ho iniziato la mia professione, nel secolo scorso, partorivano tutte in casa, non c’erano alternative. Sono iscritta al Collegio delle ostetriche da 65 anni e da quando mi sono diplomata, e avevo 20 anni, non ho più smesso di far nascere bambini.” Se le si chiede se ha visto dei parti tristi risponde che magari era il contesto ad essere triste ma non il parto in sé. Tutti i compensi ricevuti li ha sempre dati in beneficenza. Dopo quasi 8.000 nascite, ci si aspetterebbe distacco e abitudine: non per Maria. “All’emozione della nuova vita non ci si abitua mai – dice – E io ringiovanisco ogni volta”.
Io che oggi sono nato in casa
Mi chiamo Matteo Paggetti, sono il bambino numero 7.615 di Maria Pollacci, sono lungo 53 centimetri, peso poco più di 3 chili e mezzo e sono nato in casa, in provincia di Vicenza. La mia mamma, Ilenia Dal Prà, all’inizio di questo percorso aveva detto di essere pronta ad accogliermi. Accompagnata da una doula d’eccezione, Chiara Pozzi Perteghella, mamma ha affrontato il mio parto in totale serenità. Era mezzogiorno quando ha iniziato a sentire le mie prime contrazioni. Ero io che mi facevo sentire. A casa sono arrivate Maria e Chiara. Quando il travaglio è iniziato erano le 17.30, mamma era sul divano di casa nostra. Era una bella sensazione, tra di loro chiacchieravano di tutto tranne che di parto. Papà Michele alle 20 ha preparato gnocchi per cena per tutti. Loro tre hanno mangiato, mamma era dilatata di 10 centimetri e io già vedevo la luce ma era tranquilla in tavola con loro e quando arrivava una contrazione l’ostetrica la faceva ridere. A cena Maria si è messa a guardare una telenovela in TV e si è anche rivolta a me “Aspetta a nascere che devo guardare la telenovela”: tutti si sono messi a ridere e io ho assecondato la sua richiesta. Poi Maria ha iniziato il rito: ha estratto dalla sua borsa da levatrice dei vecchi pentolini, l’alcol, ha fatto bollire tutto per sterilizzare, ha preso dei ferri per tagliare il mio cordone ombelicale. Poi ha detto: “Adesso andiamo di là e ci prepariamo tutti e quattro in camera, papà, mamma, doula e ostetrica”. Sono nato in un quarto d’ora e la prima cosa che ho sentito sono state le mani di Maria che mi hanno pulito con olio di oliva. Maria ci ha accuditi fino a mezzanotte e mezza: il papà ha aspettato prima di tagliarmi il cordone. Eravamo e siamo tanto felici. La mia mamma dice che un parto così lo consiglierebbe a tutti e che, anche nei giorni dopo, poter stare a casa con il proprio figlio non ha prezzo, per quanto l’ospedale possa essere a misura di mamma. Ma io ora ho una domanda: che cos’è un ospedale?