Si chiamava Luciano Rapotez. E’ morto qualche settimana fa, dopo una vita lunga, tutt’altro che serena. Protagonista, ma più propriamente si dovrebbe dire vittima di una storia tremenda, che mette i brividi. Facciamo prima un passo indietro, andiamo al 1507, a Venezia: Pietro Tascal, detto “il Fornareto”, in quanto garzone di fornaio, viene accusato di assassinio, condannato e impiccato. Emerge poi la sua innocenza. Il “Consiglio dei Dieci”, potentissimo organismo della Serenissima Repubblica Veneta, ne decide pubblicamente la riabilitazione, ordinando che da allora in poi, a conclusione di un giudizio, e prima che i giudici si ritirino in camera di consiglio, il cancelliere reciti la formula "Recordève del pòvaro Fornareto" ("Ricordatevi del povero fornaretto"): monito per una estrema attenzione a non commettere gravissimi errori giudiziari.
Cinquecento anni dopo, nella Repubblica Italiana, ai giudici che si ritirano in camera di consiglio, il cancelliere o chi per lui, dovrebbe recitare la formula del “Fornaretto” aggiornata: “Ricordatevi del povero Enzo Tortora”, e/o: “Ricordatevi del povero Luciano Rapotez”.
Di Tortora più o meno sappiamo; di Rapotez, molto meno; e ora che non c’è più, ricordiamone almeno qui la storia. Siamo a Trieste, è una sera del 1955; Rapotez viene fermato da alcuni poliziotti. Lo accusano di aver commesso una rapina nel 1946, rapina che si è conclusa con la morte di un orefice, della di lui compagna, e della domestica. Vai a capire perché se la prendono con Rapotez. Fatto è che in questura per cinque giorni e quattro notti viene massacrato di botte, lasciato senza cibo e acqua, non può chiamare né avvocato né avvertire la famiglia. Non lo fanno neppure dormire: solo botte, e poi botte, e ancora botte, schiaffi, pugni, cinghiate, scariche elettriche ai genitali…Mettono in scena anche un finto suicidio. Alla fine Rapotez cede:«Avrei confessato di aver ucciso anche Giulio Cesare». Tre anni di carcere, alla fine il processo. Le accuse cadono una dopo l’altra, si rivelano costruite a tavolino, e anche maldestramente. La sentenza proclama Rapotez innocente. Si va in Appello: innocente ancora, con di più il riconoscimento che ha subito un trattamento violento, patito sevizie, le confessioni iniziali erano state estorte. Nel frattempo la famiglia distrutta, la moglie lo abbandona, lui non ha più lavoro, emigra in Germania; ci resta vent’anni. Poi, da vecchio, torna a casa, in Friuli. C’è sempre un tarlo che lo rode, lo tormenta: vuole che lo Stato gli chieda scusa. Non chiede denaro, risarcimenti (come potrebbe essere risarcito, per quello che ha subito e patito?). Gli basta quel semplice “grazie”; che gli chiedano scusa. Poca cosa, ma gli viene negata. Si rivolge al presidente della Repubblica; anzi, ai presidenti: Giovanni Gronchi, Antonio Segni, Giuseppe Saragat, Giovanni Leone, Sandro Pertini, Francesco Cossiga, Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano…nessuno che dica: «Sì, Rapotez, a nome del Paese, ci scusi».
Il ministro della Giustizia attuale Andrea Orlando non è responsabile di nulla, i fatti sono accaduti quando non era neppure nato. Sarebbe bello, tuttavia, e significativo che trovasse tempo e modo di portare un fiore sulla tomba di Luciano Rapotez a Udine. E lui, per tutti noi, gli chieda finalmente scusa.