Vi persero la vita cinquatottomila soldati americani, spaccò in due gli Stati Uniti d’America, divise anche popoli europei, in special modo italiani e francesi; durò una decina d’anni, venne interpretata, raccontata, vissuta in mille modi diversi.
Fu la Guerra del Vietnam. Il conflitto che in Vietnam, Laos, Cambogia causò la morte di milioni di civili. Fu la guerra fra la nazione più potente del mondo, ancor più potente dell’Unione Sovietica, e un minuscolo Stato del Sud-est asiatico, il Vietminh che nel 1954 aveva piegato la Francia e costretto quindi Parigi a rinunciare per sempre all’Indocina, alla suggestiva, misteriosa Indocina.
Fu il conflitto che sancì la prima, e ultima, sconfitta del Paese che nel 1945 aveva spazzato via le potenze del Tripartito, Italia, Germania, Giappone, e che aveva colto la vittoria anche nella Guerra di Corea, 1950-53. Fu un evento bellico di straordinaria portata, ma dal quale gli Stati Uniti uscirono in maniera, almeno secondo il nostro punto di vista, ambivalente, perciò ondivaga: un po’ “erratic”… Dalla molto traumatizzante esperienza vietnamita non sembra essere quindi uscita una politica estera in grado di disciplinare le opzioni di carattere militare. Dipende tutto dal Presidente di turno, dai consiglieri, dalle “egg-heads” del Presidente di turno, dall’apparato industrial-militare… La qual cosa, secondo il nostro punto di vista, non è proprio il tratto, il clichè, della grande potenza conscia di svolgere, in quanto tale, un ruolo di estrema delicatezza. In tutto questo si riscontrano insomma una episodicità, un’alternanza di umori e indirizzi che non possono assolutamente far bene agli Stati Uniti e perciò anche al resto del mondo.
Il Vietnam… Fu una guerra “”emotional”. Assai ‘emotiva’, eccome. Fu il primo conflitto “telematico” in assoluto che, grazie appunto alla ancor giovane Televisione, per almeno sei, sette anni entrò ogni giorno, ogni sera nelle case americane, nelle case italiane, francesi, tedesche, inglesi e via discorrendo. Fu il confronto, serrato, spietato, vinto da un popolo molto più motivato del popolo americano. Sissignori, una maggiore motivazione si rivelò determinante, insieme alla disciplina, al coraggio, alla tenacia.
Cinquant’anni fa, proprio in questi giorni, l’impegno americano nel Vietnam del Sud, fino ad allora limitato alla presenza di consiglieri militari inviati da Washington, divenne guerra… Divenne la guerra forse più impopolare della Storia. Il conflitto voluto da Washington per sventare il “pericolo” del “domino factor” evocato dal Presidente degli Stati Uniti Eisenhower: vale a dire la caduta di Stati del Sud-est asiatico, uno dopo l’altro, sotto la spinta della Cina comunista e di alleati della Cina comunista. Dai 700 consiglieri militari del 1962 si passò nel 1968 a quasi mezzo milione di soldati americani: il Generale Westmoreland, comandante delle forze alleate (c’erano anche australiani e neozelandesi) chiedeva uomini, sempre più uomini… Ma la sua operazione “Search and Destroy” non raccolse mai grossi risultati.
Finita con la sconfitta della Francia la guerra d’Indocina, alle trattative di pace s’era deciso di “tagliare” in due il Vietnam: a nord quello marxista, a sud quello “democratico”. Ma i vietnamiti del Nord avevano già deciso che il Vietnam avrebbe dovuto rappresentare una sola nazione, e nel quadro appunto d’un regime comunista.
S’arrivò così all’ agosto del 1964, alla “crisi del Golfo del Tonchino” mentre Saigon, capitale del Vietnam del Sud, già brulicava di ‘consiglieri militari’ americani… Tuttora avvolti nelle “nebbie” i fatti che in pochi giorni portarono alla Risoluzione del Tonchino varata dal Congresso degli Stati Uniti d’America sotto la spinta, forsennata, del Presidente Lyndon Johnson. Si disse che nel golfo asiatico unità della Marina nordvietnamita avessero aperto il fuoco contro navigli americani… Johnson partì alla carica: Il 7 agosto ’64 la Casa Bianca dal Congresso ricevette il nulla osta per intervenire militarmente contro i nordvietnamiti. L’8 marzo di mezzo secolo fa, oltre tremila Marines vennero inviati nel Vietnam del Sud. Cominciò così la “escalation” nel Vietnam. Cominciò così una delle più grandi tragedie della Storia. A rimetterci la pelle furono, appunto, quasi sessantamila americani che avrebbero meritato un ben diverso destino. Sessantamila americani finiti nella fornace indocinese quando l’Occidente viveva forse uno dei momenti più spensierati, e finanziariamente più ricchi, della sua Storia: a Roma teneva ancora banco la “Dolce Vita” immortalata da Fellini nell’omonimo film con la Ekberg e Mastroianni; Londra da un anno o due era la “Swingin’ London”, il tempio della voglia di vivere; Amsterdam attirava l’attenzione di mezzo mondo per le eccentricità dei suoi ‘provos’, ragazzi e ragazze decise a liberarsi, una volta per tutte, degli orpelli, delle gabbie, delle “camicie di forza” borghesi…
In un momento in cui la liquidità monetaria si spandeva in America come mai prima d’allora; in un momento in cui gli americani venivano invitati, sollecitati dal Sistema a comprare, a consumare, a comprare e consumare sempre di più, a collezionare carte di credito; ecco, in quegli anni migliaia, e poi centinaia di migliaia di americani, vennero ficcati nell’”inferno” vietnamita e per molti di loro quella fu la fine. La Morte sopraggiunta nel Delta del Mekong, sopraggiunta a Saigon, Khe Sanh, Huè, Da Nang. Così lontano dai “drive in”, dagli “ice cream parlour”, dalle “main street”.
Nel ’64, sul proprio letto di morte, il Generale Douglas MacArtur – l’uomo che fra il 1942 e il 1945 aveva spedito al tappeto l’Impero del Sol Levante – supplicò il Presidente Johnson di non trascinare gli Stati Uniti nel “ginepraio” vietnamita. Johnson finse d’ascoltarlo. Poi esaudì invece i desideri dell’apparato industrial-militare contro il quale lo stesso Eisenhower aveva messo più volte in guardia il Paese.
Giovani che avrebbero avuto appunto diritto a un ben altro futuro, andarono così a crepare sulle dorsali vietnamite, nelle risaie del Mekong, nell’assedio di Khe Sanh imbastito dall’esercito nordvietnamita nella famosissima Offensiva del Tet, vale a dire del capodanno vietnamita, alla fine di gennaio – del gennaio del 1968. L’Offensiva del Tet per il Nord Vietnam e per i Vietcong del Sud fu un fallimento colossale: in nessun punto del Fronte le truppe del già celebre Generale Giap riuscirono a sfondare. Ma, complici la Cbs, complici altre tv americane e europee, il Tet passò come una disfatta americana. Guarda caso, fu dopo questa offensiva che il Vietnam del Nord accettò d’intavolare negoziati con gli americani.
La protesta, furiosa a partire dal 1969. I giovani che nei ‘college’ con straripante animosità manifestavano contro la guerra in Vietnam, in realtà intendevano difendere, e conservare, i propri privilegi, le proprie comodità, il proprio ‘status’. Il materialismo contrabbandato come adorazione del Bene, come “difesa” degli “have-nots”. L’ipocrisia elevata a sistema. Che in guerra ci andassero i neri… I portoricani… Gli italo-americani… E dozzine di aristocratici di famiglie del Sud cadute in rovina nel 1865, con la vittoria dell’Unione sulla Confederazione degli Stati del Sud. Fu la più ampia “diserzione” di massa della Storia. La diserzione “giustificata”, sì, da tv già attente ai “rating”, attente quindi agli ‘umori’ del pubblico…
La protesta si macchiò di sangue ai primi di maggio del 1970: alla Kent State University, in Ohio, nel corso di dimostrazioni contro la guerra in Vietnam, quattro studenti furono uccisi a fucilate dalla Polizia e dalla Guardia Nazionale. Quattro giovani stroncati così, studenti che avevano ricevuto cattivi maestri. Fece subito il giro del mondo l’impressionante foto di uno dei quattro ragazzi ammazzati, disteso sul selciato mentre una ragazza si dispera accanto al cadavere.
Il sostegno popolare assicurato a Johnson nel quadro dell’invio di truppe in Vietnam in base alla Risoluzione del Tonchino, era stato invece assai vasto, anche entusiastico. Ma cominciò a declinare già sul finire del ’65 per poi precipitare nei giorni dell’Offensiva del Tet: coi Vietcong che a sorpresa investirono Saigon e inflissero forti perdite a americani e sudvietnamiti.
Fu una guerra “surreale”. Ai soldati in Vietnam venne garantito anche il superfluo. Non dovevano avere la sensazione di trovarsi in guerra. Abbondavano i “mangiadischi”, i giradischi: a Saigon, a Huè, a Da Nang, a Khe Sanh e altrove arrivavano montagne di 45 e 33 Giri. Ancor più della Seconda Guerra Mondiale coi suoi Glen Miller, Benny Goodman, Tommy Dorsey, fu il conflitto combattuto nella diffusione di innumerevoli canzoni, motivi dei grandi della Pop Music dell’epoca: i “tunes” dei Beatles, dei Lovin’ Spoonful, Rolling Stones, Four Tops, le Supremes, Martha and the Vandellas, gli Isley Brothers, Otis Redding, Aretha Franklin, Dionne Warwick, Bob Dylan, Elvis “The Pelvis” Presley, Ike and Tina Turner, Sinatra, Dean Martin e altri ancora.
Curioso che al Governo federale, coi suoi “mostri” della propaganda, della comunicazione, sfuggì – almeno secondo noi – l’elemento centrale della grande questione: la “diserzione”, appunto, d’una assai cospicua parte della gioventù americana. Sarebbe stato soprattutto giusto, onesto, far notare l’immoralità di lasciare che la guerra in Vietnam la facessero ‘soltanto’ gli ‘altri’: i neri, appunto, i portoricani, gli italoamericani, qualche rampollo di casate del Sud o della Nuova Inghilterra e la “white trash” della Georgia, dell’Alabama, del Texas.
Nemmeno la Chiesa, sia quella cattolica che quella protestante, prese atto di tutto questo. Non ne prese atto neppure Richard Nixon, asceso alla Casa Bianca il 20 gennaio del 1969; il Presidente repubblicano, già battuto nelle elezioni presidenziali del 1960 da John Kennedy, che ordinò bombardamenti aerei su Laos e Cambogia, diventati “santuari” di vietcong e nordvietnamiti. Bombardamenti “segreti” che segreti rimasero però per ben poco tempo e minarono il prestigio della Casa Bianca, del Pentagono: degli Stati Uniti d’America.
Sul finire degli anni Sessanta a Londra incontravamo schiere di americani, giovani, robusti, atletici. Sprizzavano salute da tutti i pori e come noialtri avevano anche loro una gran voglia di divertirsi. Venivano quasi tutti dalla California, dalla Nuova Inghilterra, dall’Illinois. Appartenevano a famiglie ricche, “filthy rich”: figlioli e figliole di industriali, liberi professionisti, dirigenti d’azienda. Ci domandavamo perché i giovanotti non fossero in uniforme. Perché, anziché trovarsi a Londra, non si trovassero a Saigon, Huè, Da Nang. Evitavano l’argomento-Vietnam. Non appena il discorso cadeva sul conflitto nel Sud-est asiatico, loro cambiavano d’umore. Diventavano vaghi, sfuggenti; si chiudevano a riccio, il più delle volte se ne andavano, con impazienza, con frettolosità, biascicando il solito “nice meeting you” e senza nemmeno guardarti negli occhi. In quel dato pub o nel dato coffee-shop non li rivedevi più, e non rivedevi neanche le ragazze al loro seguito.
Fu comunque Nixon a dar luogo al disimpegno americano in Vietnam realizzatosi fra il 1973 e il 1975, anno dell’ingresso trionfale delle forze comuniste a Saigon. Si concluse quindi un conflitto che non sarebbe mai dovuto esplodere e che dimostrò l’infondatezza della teoria del domino: Thailandia, Malesia, Filippine, non divennero “rosse”.
A noi, tuttavia, piace l’antico detto inglese: “Right or wrong, my country first”.