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Franceschini e la ricerca di direttori per i musei italiani, ovvero una bella ciliegina su una torta vecchia e maleodorante

Lara LagobyLara Lago
Gli Uffizi, a Firenze

The Uffizi Gallery in Florence.

Time: 13 mins read

 

AAA cercasi disperatamente direttori di musei: che siano preparati e con una forte esperienza nel settore del management. Saper parlare l’italiano è un requisito importante ma non fondamentale. Sta facendo discutere il bando di Dario Franceschini, il ministro italiano per i Beni culturali che per la prima volta apre il concorso a professionalità estere per cercare i 20 direttori dei musei più importanti d'Italia. Dagli Uffizi di Firenze alla Galleria Borghese di Roma, dall’Accademia di Venezia alla Pinacoteca di Brera a Milano.

Una notizia che ha fatto girare la testa al mondo accademico museale tanto che il tam tam mediatico è arrivato anche sulla stampa internazionale. Dalle pagine del New York Times il Ministro ha spiegato che cerca una direzione più dinamica dei poli culturali, vorrebbe vedere spuntare librerie e ristoranti, aree interattive e servizi multimediali. Non bastano i 40 milioni di visitatori dei musei italiani del 2014 con incassi per 135 milioni di euro. Si punta, nei prossimi 4 anni, a fare il botto. Magari giocando l’aiuto dall'estero.

Ma come l’avranno presa i direttori di casa nostra, sul punto di essere spodestati? Iniziamo il viaggio de La VOCE su e giù per lo stivale, di qua e di là dell’oceano, per captare qualche segnale di approvazione o sdegno nei confronti del nuovo bando, ma soprattutto per capire che cosa si nasconda dietro ad una scelta che pare contraddittoria pur omologandosi con gli standard internazionali.

Messi alla porta

La Pinacoteca di Brera, a Milano

La Pinacoteca di Brera, a Milano

“Pronto, buongiorno. Sono una giornalista. Potrei parlare con il direttore del museo?”, la domanda, posta al telefono, è sempre la stessa. Le risposte cambiano. La maggior parte del personale che lavora nei centralini dei principali musei italiani spiega che il direttore è un’entità difficile da raggiungere, anche se è non solo presente ma pure nell’ufficio a fianco. Serve nell’ordine: sentire l’ufficio stampa, mandare una richiesta via e-mail, attendere paziente risposta, fissare un appuntamento. Quando, come nei videogames, si riesce a superare il primo livello e si parla con l’entità-direttore le risposte non sono sempre delle più cortesi. "Io non parlo con nessun giornalista che non vedo in faccia". Propongo di prendere appuntamento per incontrare la direttrice di persona nel suo studio. Ma rifiuta perché "io a queste domande non voglio rispondere".

La direttrice che riattacca la cornetta senza salutare è una di quelle contaminate dal nuovo bando del ministro Franceschini. Le risposte indispettite sono, se non accettabili, comprensibili e ben raccontano l’atmosfera che circonda il mondo accademico in questi giorni, messo alla porta per fare spazio al nuovo. Parlando con responsabili, addetti ai lavori, studiosi di arte e uffici stampa emerge un quadro, questa volta poco in mostra, dipinto con amarezza e burocrazia, a tinte fredde e senza i colori necessari per una corretta amministrazione di arte e cultura. E il dibattito diventa paragonabile a una tela di De Chirico: ad una prima visione superficiale si vedono oggetti sconnessi tra loro, si parla di direttori italiani e non, manager e non, quasi come fosse questo il vero problema. Ma poi, interpretando, emerge il vero significato e nella discussione compare l’ombra del nepotismo, della politica, persino della mafia, nominata a denti stretti, talvolta facendo anche nomi e cognomi.

Professionalità dimenticate

Anna Colivo, la direttrice della Galleria Borghese di Roma,

Anna Colivo, direttrice della Galleria Borghese di Roma

“Io partirei dalla parola delegittimazione”. A parlare è Anna Coliva, la direttrice della Galleria Borghese di Roma, uno dei centri per i quali, a partire dal 15 febbraio, verranno analizzati curricula e competenze per nominare un nuovo direttore. “Noi direttori prendiamo 1.712 euro al mese. Con il nuovo bando, Franceschini parla di uno stipendio compreso tra i 78.000 e i 145.000 euro annui, arriveranno nuovi fondi che faranno gola a molti. Nei nostri musei dei direttori ci sono già e prima di pensare a nuovi bandi si poteva ad esempio controllare quali fossero stati i risultati raggiunti. Invece nessuno ha mai chiesto il mio progetto per la Galleria e nemmeno se l’ho realizzato. Personalmente ho rinunciato ad un incarico al Getty Museum di Los Angeles da 10.000 dollari al mese e, come me, tanti altri colleghi. Ciò che non ci saremmo mai aspettati è che ci venisse fatta una colpa per il nostro restare in Italia. La cosa che mi dispiace di più è che i riconoscimenti internazionali per il nostro operato dall’estero sono arrivati, dall’Italia mai. Una verifica non c’è mai stata”.

gb

la Galleria Borghese, a Roma

Il problema per Anna Colivo non è tanto l’avere aperto il bando a professionalità estere ma il metodo adottato: “Inizialmente tra direttori pensavamo fosse uno scherzo – dice ridendo – Ci sembrava una scelta ridicola. Trovo del tutto normale, specie in questo tempo globalizzato, che i direttori vengano scelti sulla piazza mondiale, ma si poteva evitare di proclamare in modo così eclatante e provinciale l’aspetto internazionale. In più è una scelta che la dice lunga sulla superficialità: il guaio dei musei nasce dalla parte burocratica, la nuova ricerca è un pratico modo per spostare il problema. Questa scelta ministeriale è la dimostrazione che l’interesse per la cultura esiste solo a parole. I fatti invece dicono che con l’arrivo di nuovi direttori, magari esteri, con nessuna competenza nei confronti di burocrazia e archivi italiani da risistemare, il sistema resterà bloccato per un anno, il tempo della transizione del nuovo insediamento. Come direttori siamo amareggiati: pensate se avessero trattato così gli ambasciatori. Cosa sarebbe successo se il Governo una mattina avesse proclamato un bando per dieci posti da ambasciatore dicendo al mondo “li cercheremo all’estero visto che non ne abbiamo di bravi da noi?””.

Benvenuti gli stranieri

È più ottimista Valentina Castellani, direttore della Gagosian Gallery di New York, che approva l’iniziativa ministeriale: “I musei italiani hanno alcune tra le collezioni più belle e importanti del mondo – commenta – È giusto che ambiscano ad avere il migliore direttore possibile, italiano o straniero. Quando il Metropolitan cerca il direttore o un curatore, tra i requisiti non c'è che sia americano, ed infatti l'attuale direttore è Thomas Campbell, inglese. Il director of exhibitions del New Museum di New York è Massimiliano Gioni, che è italiano. Plaudo l'iniziativa del Ministero”.

Pippo Ciorra, senior curator del MAXXI Architettura di Roma

Pippo Ciorra, senior curator del MAXXI Architettura di Roma

Anche Pippo Ciorra, senior curator del MAXXI Architettura di Roma, rinunciò ad un “paio di ruoli importanti in istituzioni museali internazionali di altissimo livello. Alla fine, per motivi vari, sono rimasto a Roma, ma direi che lo scambio e la libera circolazione di idee e persone sono ormai acquisiti, i confini vanno giustamente allentandosi. Soprattutto quella dell’arte e della cultura è, e deve essere, una “comunità internazionale". Piuttosto, sarebbe molto importante che il compito assegnato ai nuovi direttori (profilo di attività del museo, rapporto con i privati, forme di fundraising, partnership e rete con altre istituzioni) fosse molto chiaro, in modo da poter selezionare il personale in modo appropriato, italiano o straniero che sia. Spesso – a volte anche di recente – abbiamo visto molti buoni propositi di riforma vanificati da scelte di responsabili non proprio adeguati e non proprio proiettati verso uno standard internazionale. Se il mix di direttori italiani e stranieri servirà a questo – cioè a uno scambio fertile di esperienze e buone abitudini – allora ben venga, visto che tutto sommato i direttori/curatori italiani appunto non mancano nelle istituzioni straniere”.

Contaminazione e più attenzione verso il mondo dell’università sono le parole chiave per Pippo Ciorra in un’Italia dove “è in pieno svolgimento una battaglia silenziosa tra chi vuole modernizzare i meccanismi di selezione delle classi dirigenti e chi invece è ancora “affezionato” a dinamiche novecentesche, che ovviamente corrispondono a un istinto di conservazione del potere. La natura e il modo di funzionare delle grandi istituzioni museali attraversa oggi una fase di evoluzione dinamica e complessa, in tutti e tre i campi della loro attività: il rapporto con la cultura, quello con i luoghi che li ospitano, quello con le persone. Questa evoluzione produce alcune frizioni che in Italia sono particolarmente difficili da gestire. Se l’immissione cum grano salis di alcuni esperti non italiani (o di oriundi, visto che oggi poi per molte persone è perfino difficile stabilire con chiarezza una nazionalità) può servire ad accelerare questa evoluzione allora bene, altrimenti saranno altre incongrue cattedrali (umane) nel deserto. Fermo restando che ogni paese ha delle specificità, difficile immaginare in Italia un mecenatismo all’americana, e chi ci lavora le deve comprendere”.

Mancanze

Mattia Agnetti, segretario organizzativo dei Musei Civici Veneziani tra i quali Palazzo Ducale e il Correr

Mattia Agnetti, segretario organizzativo dei Musei Civici Veneziani tra i quali Palazzo Ducale e il Correr

Antonio Natali, l’attuale direttore degli Uffizi, al New York Times ha dichiarato che “Non è cambiando i direttori che le cose miglioreranno perché chi guida un museo in Italia talvolta ha semplicemente bisogno di più autonomia”. È dello stesso parere Mattia Agnetti, segretario organizzativo dei Musei Civici Veneziani tra i quali Palazzo Ducale e il Correr: “Il nostro sistema è del tutto imballato. Credo che la cosa più importante sia che chi dirige possa avere autonomia gestionale. Ha ragione il ministro, il mondo museale italiano ha la necessità di rinnovarsi anche nell’ottica manageriale ma serve cambiare molteplici aspetti. Uno tra tutti il sistema di reclutamento”. Gli chiediamo se guardare ad uno scenario globale non possa essere la chiave di volta per bypassare sistemi di favoritismi e nepotismo. “Nepotismo e favoritismo sono meccanismi che proseguono su binari autonomi, quindi in caso cercare direttori esteri non cambierà le cose. Personalmente sono molto favorevole alla riforma e al tentativo di dare autonomia gestionale ai musei: penso si debba puntare al meglio senza chiudersi, quindi ben vengano le esperienze internazionali. Nominare un direttore competente che viene da fuori metterà tutti in competizione e la concorrenza non può che far bene. Detto questo mi auguro che vincano direttori italiani”.

Sandro Bosi, gallerista della Bosi Artes di New York e Roma

Sandro Bosi, gallerista della Bosi Artes di New York e Roma

Le mancanze vengono alla luce e galleggiano, si moltiplicano: burocrazia, mancanza di autonomia gestionale. Ma ciò che manca in Italia, secondo Sandro Bosi, gallerista della Bosi Artes di New York e Roma, è anche un linguaggio internazionale. “Manca un decreto legge che permetta, a chi gestisce l’istituzione, l’autonomia necessaria ad una gestione che deve sempre tener conto che si tratta di Res-Publica, ma che gli permetta di non essere tacciato di agire per interessi personali. Per raggiungere i livelli internazionali poi, bisogna dialogare internazionalmente. Così facendo si dà contesto (e respiro) internazionale, infatti, al proprio messaggio. Quest’ultimo aspetto è spesso utilizzato dai poli privati che si occupano di Arte in Italia e con successo. I nostri artisti contemporanei “internazionali” ad oggi sono solo due ed entrambi legati a due poli privati. Bisogna muoversi fuori dai confini delle proprie scrivanie. Anche”.

L'importanza di essere italiani

Tornando al punto da cui eravamo partiti, perché con tutta la carenza di lavori qualificati per gente laureata e competente che c'è in Italia i direttori di museo non si cercano entro i confini nazionali? “Il punto è che la formazione che si riceve nel 95% dei casi è scollegata dalla realtà lavorativa se non, a volte, addirittura dal contesto – spiega Sandro Bosi – Siamo ancora all’enorme divario tra teoria e pratica. Gli stage o internship per esempio sono presi in poca considerazione o comunque poco diffusi. Dovrebbero invece essere molto meglio organizzati e imposti. Perdonatemi se suono campanilista, ma nella mia esperienza in giro per il mondo e con gente di diversa estrazione, posso confermare che le idee che siamo in grado di produrre in Italia sono, a mio avviso, le migliori del mondo. Il problema nasce al momento della loro realizzazione. Al di là dei “soliti meccanismi di favoritismi e nepotismo” che speriamo si stiano estirpando (anche se secondo me, essendo culturale, il problema lo si risolve solo creando lobby autorizzate) una volta individuati i candidati giusti, bisogna dargli la possibilità di agire in autonomia. Oggigiorno le dinamiche del mondo dell’arte non sono più relegate solo al contenuto culturale, anzi il contenuto culturale spesso fa fatica a rimanere al passo con la velocità di cambiamento che l’epoca in cui viviamo c’impone. L’aspetto sociale è un elemento estremamente importante e quasi sempre negletto, o non apertamente dichiarato. La figura professionale direzionale perfetta dovrebbe essere “l’ambasciatore" del nostro messaggio culturale, l’ambasciatore dell’Arte! E la scelta del dirigente va fatta sì in base alla sua preparazione accademica ma anche in funzione degli ambiti in cui si muove: una specie di Mafia Culturale (a dispetto di quella Capitale o altre). Così finalmente potremmo girare a significato positivo una parola con la quale purtroppo siamo spesso identificati”.

Processi fumosi

Magari la mafia fosse solo quella culturale. A parlar di mafia viene da mettersi le mani nei capelli quando, un direttore che preferisce rimanere anonimo, rivela che “fare la storia dell’arte in Italia è avere a che fare tutti i giorni con la camorra”.

È giovane ma ne ha già viste abbastanza, invece, un’altra dipendente di un importante museo di arte contemporanea, laureata in economia della cultura ma che preferisce non rivelare la sua identità. Il suo ruolo di ufficio stampa le permette di osservare dinamiche scomode. Nota così ciò che è già sotto gli occhi di tutti, ad esempio bandi dove le competenze non vengono nemmeno specificate. “Il processo di selezione per diventare direttori spesso è piuttosto fumoso: i requisiti non vengono nemmeno scritti. Spetta ad un’agenzia esterna scremare le candidature. I selezionati approdano così di fronte ad una commissione. Il dramma è che la commissione non sempre è competente. Ho visto commissioni composte da industriali locali, imprenditori e politici. Non ci è quindi dato sapere con quale metro valuteranno. È una situazione preoccupante: i CDA spesso vengono nominati tra personalità di spicco pescate anche all’interno di istituti bancari. Sono industriali e vengono a decidere chi dirigerà il museo, vorrei vedere se nelle loro aziende avrebbero il coraggio di mettere a capo di una selezione un accademico dell’arte”.

La giovane ufficio stampa non crede al modello di direttore-manager, il profilo più ricercato dal ministro Franceschini: “È un modello che non funziona. Ditemi dove sono e cosa fanno adesso i manager. Vogliamo impostare i musei come delle imprese, ma il sistema impresa in questo momento in Italia sta davvero funzionando? Le realtà culturali che si sono distinte l’hanno fatto grazie all’originalità. I manager museali per un periodo hanno funzionato ma era l’epoca delle vacche grasse e ora siamo lontani da quei tempi. Sono favorevole invece ad assumere un tandem di professionalità, uno staff di persone eccellenti nelle loro specifiche competenze in grado di dare una forte identità al museo. E nel nostro Paese le persone qualificate non mancano di certo”.

Ma che colpa abbiamo noi?

Ma cosa ne pensano i giovani neolaureati della ricerca internazionale? Esperti e appassionati di arte, con tanti piccoli lavoretti alle spalle, precari, oggi disoccupati o impiegati, per necessità, in altri settori, sono lucidi e osservatori.

Monica

Monica Bosaro, laureata (e disoccupata) in arte

Monica Bosaro, di Verona, fa parte della categoria laureati, bravi e disoccupati. “Prima ci lamentiamo perché i nostri giovani vanno all’estero a lavorare e poi non si fa nulla per dar loro il credito necessario qui in Italia e magari un posto di lavoro – esordisce – Penso ad esempi di musei che in passato hanno voluto scegliere direttori esteri, si sono rivelati sempre degli errori, hanno finito per scrivere righe e righe sui giornali finché non si sono dimessi. E questo non certo per colpa loro ma perché hanno trovato un sistema molto arretrato rispetto all’estero. È inutile scegliere una bellissima ciliegina da mettere sopra ad una torta che è vecchia e maleodorante. Bisogna rinnovare innanzitutto il personale dei musei, assumere nuove persone qualificate. I direttori da soli non servono. Detto questo non sono contraria a priori al cercare all’estero, anzi l'internazionalizzazione e la competizione con una certa casta di professori accademici che godono di favori nel mondo dell'arte forse sono proprio quello che ci vuole. Certo, ci saranno meno possibilità per noi ma nei musei del mondo i bandi sono aperti a tutti”.

Enrico Brocca Meneghetti abita in provincia di Vicenza, si è laureato in Storia dell'Arte a Padova con una tesi sulla critica d'arte e si chiede: “Meglio tenerci i vecchi direttori, poco manageriali ma consapevoli del disastro investimenti nel settore museale, o cercare l'Elvis delle pinacoteche e poi farci la figura barbina perché mancano i fondi? Franceschini spara il bando all'internazionale, giusto, corretto, visionario si potrebbe dire, ma ha lo stesso valore di un operaio che decide di comprarsi la Maserati: magari i soldi li raccatta dopo 20 anni di lavoro, ma non li ha comunque per mantenerla. Ora, possiamo pure cercare il manager, ma se il manager non ha fondi si attacca come un direttore qualunque. Puoi avere il miglior cammello per attraversare il deserto, ma se non gli dai da bere ti crepa anche lui”.

Enrico Brocca Meneghetti

Enrico Brocca Meneghetti, laureato in Storia dell’Arte

Anche se Enrico è critico, non va contro l’idea franceschiniana: “Franceschini ha sostanzialmente ragione: un museo fine a se stesso non serve. L'esempio internazionale oramai ha dimostrato che il museo deve adattarsi ai tempi dando servizi, aggregando persone, aprendosi soprattutto verso i residenti o turisti "pendolari". Certo, cosa ottima sarebbe che il tutto non si trasformasse in Disneyland, ma tra un museo vuoto e uno un po’ meno vuoto preferisco il secondo. Il problema è che l'Italia, come ci insegna la storia, è il solo paese che non crede in ciò che crea. Si prendano le università umanistiche: si spendono milioni di euro per sfornare laureati che, inevitabilmente, si ritrovano messi in dubbio dai loro stessi dipartimenti. È come se Geppetto avesse bruciato Pinocchio un attimo dopo avergli dato il nome. Fin qui la critica ad una università umanistica di manica molto larga. Altro discorso è il direttore di un museo. Questo solitamente è scelto tra persone dai curricula molto strutturati e sono persone molto preparate. Ecco perché secondo me per Franceschini sarà una bella gatta da pelare: difficile battere un italiano sull'arte di casa sua, non c'è storia, a meno che l'ottima valutazione non dipenda per la maggior parte dalla sua attività manageriale. Ecco che qui gli umanisti italiani somigliano a quei gatti impalati dai fanali di notte. Non si tratta del fatto che in Italia non ci sono idee, ma che nel Bel Paese è difficile trovare una persona capace di avere una visione dicotomica del museo: o è uno storico o è un manager. Pregi e difetti in entrambi i casi”.

Povero ministro: con i nuovi direttori si era illuso di aver trovato la panacea di tutti i mali. I rumors tra i corridoi della cultura invece sembrano sottolineare che il tanto pubblicizzato bando non basterà e che l’inefficienza del sistema culturale italiano, che non è in grado di valorizzare tutto ciò che suo malgrado possiede, è come lo sguardo della Gioconda: ci fissa sempre negli occhi da qualsiasi parte lo si guardi.

 

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Lara Lago

Lara Lago

Lara Lago, nata a Bassano del Grappa, giornalista collaboratrice de La Voce di New York fin dal 2013, dopo aver vissuto in Albania e ad Amsterdam, ora si divide tra Milano, dove lavora per Sky, e il Veneto, scrivendo di diritti e Bodypositivity.

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