Su questo giornale è stata posta una questione: la Regione Sicilia è sull’orlo di un tracollo finanziario. Non è la prima volta che un simile rischio viene ventilato. Ma per la prima volta (mi pare) lo si pone quale fine proprio di una ben determinata azione di governo (diciamo). Non una generica (endemica si direbbe) carenza della Patria verso una sua propaggine insulare, ma proprio una manovra politica precisa e programmata.
Afferma il Prof. Massimo Costa, dell’Università di Palermo, che il Presidente del Consiglio Matteo Renzi (coadiuvato nella bisogna dal Sottosegretario Del Rio), di concerto con un assessore regionale, stia facendo strame dello Statuto Speciale dell’Isola: rimpinzando l’Italia di soldi siciliani. L’analisi poi si amplia fino a coinvolgere la dimensione europea, da cui tutto in verità avrebbe origine: Merkel va in pressing su Renzi, Renzi va in pressing sulla Sicilia.
Il trasporto della passione non ha fatto velo all’analisi di bilancio, resa limpida da un ulteriore e meritoria nota politico-finanziaria. Anche ad assumere la stima più prudenziale lì esposta (tre miliardi di euro l’anno indebitamente dragati dal bilancio regionale), la cifra, già cospicua in assoluto, dopo sei anni di una crisi epica, tramortirebbe anche l’osservatore più spassionato. Tanto più se vivesse in Sicilia.
Ma, a grandi effetti, occorrono grandi cause. Se quella denunciata è una tendenza storica, giacchè avrebbe di mira un risultato di rilievo indubbiamente storico (l’abrogazione dell’Autonomia Siciliana), allora sarebbe ingenuo soffermarsi solo sulla lama che affonda nel burro. Bisogna capire, o tentare di capire, perchè c’è il burro.
Questa non è, infatti, una vicenda contabile. E’ una vicenda politica: più precisamente, storico-politica. E non di una storia remota, ma della storia siciliana degli ultimi vent’anni. Diciamo da Capaci in poi, così fissiamo subito un punto.
L’attuale Governo regionale è un raro compendio di mediocrità affannata (rimpasti ad ogni piè sospinto) e ambiguità (lo spoil system, altrimenti legittimo, offerto come salubre “rotazione” dirigenziale, invece opaca); a compendio, un cicaleccio incessante quanto incomprensibile, politicamente ed anche logicamente. Ma è un tipico cicaleccio locale (vengo da Gela, Terra di mafia, ho denunciato questo e quello), che costituisce il frutto povero di una ricca retorica nazionale: l’Antimafia Culture. La retorica di chi, dopo aver scagliato contro Giovanni Falcone e Paolo Borsellino tutto il letame possibile, ha ridotto a fertilizzante aureolato il loro cadavere omerico, ergendovi, con metodo cinico e immondo, maestose e sproloquianti carriere. Le prove dei delitti politico-mafiosi, cosiddetti, tenute nei cassetti (copyright Michele Santoro & Leoluca Orlando); l’esibirsi come un guitto sul palcoscenico mediatico (copyright, Repubblica); l’essere inadeguati agli uffici direttivi (copyright CSM); l’essere un “nemico politico” (copyright Mario Almerighi, giudice di Magistratura Democratica); asservito al Male, cioè a Giulio Andreotti, Bettino Craxi e Claudio Martelli (copyright Coordinamento Antimafia e simili), e via così.
Ma questa retorica è stata parte di una più ampia retorica: quella della legalità. Cosiddetta.
E qui non ci sono molte scelte. O la Sicilia è incapace di darsi governanti che non siano pericolosi delinquenti o palesi incapaci, poichè, da quando i suoi cittadini (a centinaia di migliaia) li votano direttamente, uno è finito in galera a titolo definitivo; un altro ha subito una condanna in primo grado a 6 anni e otto mesi per associazione di tipo mafioso in concorso; e quello presente, come si diceva, non riesce ad oltrepassare la linea di una cultura politicante sterile e ambigua. E allora, seguitare a impugnare i labari dell’Autonomia Oltraggiata è scelta che rischia di non essere granchè compresa in giro.
Oppure, quello che accade, è il frutto di un albero avvelenato. E di un avvelenamento storicamente sperimentato: in ogni caso in cui si generalizza una debolezza specifica, facendone cifra antropologica e, quindi, politica (vale a dire: sono tutti mafiosi, e sono abituati ad essere poveri; per tutti, valga il paracrociano Perchè non possiamo non dirci mafiosi, di Alfio Caruso).
Qui si è generalmente accettato che la critica politica assumesse stabilmente la veste del reato. Che l’arretratezza economico-sociale fornisse un alibi interpretativo per munire di stigma gravemente criminale condotte, altrove, pacificamente ritenute di incapacità politica e di mediocrità culturale: da curare “solo” con elezioni e con libri, non con le manette. Si è presentato il tramestìo di fondo, che sempre sale dal sottobosco dei Palazzi, di tutti i Palazzi del mondo, come se solo in Sicilia meritasse uno speciale “trattamento”. E dalla questua elettoralistica si è cavato il fantasma dello scambio elettorale incriminabile, liberamente estensibile dalla briga condominiale fino alle dimensioni di Yalta: non avvedendosi, o fingendo di non avvedersi, che da lì alla messa al bando del voto politico in quanto tale è un passo. Si è lasciato che un emotivismo astorico e infantile costituisse la scia culturalmente obbligata di alcuni clamorosi crimini. Fosse l’unica, vera, “risposta”. Questo è l’albero avvelenato. L’albero piantato dall’azione culturalmente (ma anche propagandisticamente e istituzionalmente) neosabauda e veteroliberale di Gian Carlo Caselli, Marco Travaglio, Ezio Mauro e codazzo vario. E’ allora abbastanza ovvio, che in tempi di “chi buttiamo giù dalla torre”, ci si accomodi (nel senso postribolare del termine) su un area di periferia morale e politica com’è ritenuta la Sicilia, secondo vulgata e catechismo conseguenti.
Perchè si sciolga chiaramente l’equivoco, in base al quale le scorrerie antimafiose, cosiddette, e la dissoluzione, od anche il “semplice” rattrappimento economico-sociale della Sicilia starebbero su piani diversi, addirittura opposti: quando sono invece storicamente e politicamente complementari, riporto una magistrale sintesi di Giovanni Falcone (in Cose di Cosa Nostra, 1991): "Questi crimini eccellenti, su cui finora non si è riusciti a fare interamente luce, hanno alimentato l’idea del «terzo livello », intendendosi con ciò che al di sopra di Cosa Nostra esisterebbe una rete, ove si anniderebbero i veri responsabili degli omicidi, una sorta di supercomitato, costituito da uomini politici, da massoni, da banchieri, da alti burocrati dello Stato, da capitani di industria, che impartirebbe ordini alla Cupola. Questa suggestiva ipotesi che vede una struttura come Cosa Nostra agli ordini di un centro direzionale sottratto al suo controllo è del tutto irreale e rivela una profonda ignoranza dei rapporti tra mafia e politica".
Capito? Usando per tutto (e per tutti) l’ascia anzichè il bisturi si svelle la struttura politica, cioè comunitaria, di un’area, di uno spazio politico. Si diventa (o si rimane) l’ultima ruota politica del carro. O l’ultima ruota del carro politico.